E&M
2011/5
Indice
Focus intervista
Riprendiamoci il futuro. Intervista a Luca Cordero di Montezemolo
La finestra sul mondo
Temi di management
Articoli
La progettazione dei sistemi di incentivazione del personale. Un modello sperimentale
Stupire o persuadere? Strategie di lancio di un nuovo stile nel settore della moda
Il mercato delle regole
Il Diversity Management
Fuoricampo
Storie di ordinaria imprenditorialità
Il gioiellino. Splendori e miserie della finanza creativa
Attraverso la ricostruzione romanzata del crac Parmalat, il film di Andrea Molaioli Il gioiellino pone alcuni scottanti interrogativi sul rapporto fra etica e imprenditoria e sulle derive patologiche di alcune strategie di “finanza creativa”.
Il gioiellino
Regia: Andrea Molaioli
Interpreti: Toni Servillo, Remo Girone
Italia, 2011
C’è un’immagine – una sola – che fa venire i brividi in Il gioiellino, il film di Andrea Molaioli liberamente ispirato al crac Parmalat. È quella in cui il personaggio del rag. Ernesto Botta (interpretato da Toni Servillo e modellato sulla figura di Fausto Tonna, collaboratore di Tanzi) viene portato via, nel finale, su un blindato della Guardia di Finanza. Il suo gioco è stato scoperto, il suo cartello di carte false è crollato. Fuori, per la strada, qualcuno urla e insulta. Dentro, nel furgone, c’è penombra. Il collaboratore del ragioniere, con un tono vagamente consolatorio, borbotta qualcosa sugli anni meravigliosi che hanno comunque trascorso insieme. Ma il ragioniere non risponde. Fissa gli occhi nel vuoto e inclina il volto leggermente in avanti, fino quasi a scomparire fra le sbarre, nel buio. Lì, nell’immagine che chiude il film, in quel misto di incredulità e inconsapevolezza, ma anche di oscura e confusa percezione della voragine in cui sta precipitando, il ragioniere di Toni Servillo acquista lo spessore tragico di un personaggio di Balzac. Ma solo lì. Per tutto il resto del film ciò che colpisce, sia in lui sia in Amanzio Rastelli, il personaggio interpretato da Remo Girone e ispirato direttamente alla figura di Callisto Tanzi, è la sostanziale inconsapevolezza con cui giocano sporco con i falsi in bilancio e con i trucchi della finanza dopata.
Non c’è traccia, in loro, né della rapacità con cui Oliver Stone aveva disegnato gli “squali” di Wall Street né della spavalderia gaudente e cialtrona con cui Gassman e Tognazzi rappresentavano, in passato, il fascino indiscreto e chiassoso della borghesia italiana. I protagonisti di Il gioiellino sembrano reperti archeologici dell’Italia democristiana. Sono grigi, noiosi, abitudinari. Odorano di naftalina e di sacrestia. Hanno una mentalità impiegatizia tutta dedita al lavoro e basata sulla fiducia cieca nell’azienda e nei suoi “valori”. Fanno tardi in ufficio, non vanno al cinema, li vediamo perfino impiegare il loro tempo serale uno per lavare i piatti nella cucina di casa e l’altro per montare e imbullonare una libreria stile Ikea. Eppure, giorno dopo giorno, cucinano nefandezze finanziarie, vanno su e giù per i bilanci come se fossero montagne russe e allestiscono lo spettacolo della finzione per far apparire finanziariamente sano ciò che in realtà è economicamente al collasso. Ma non si sentono in colpa, mai. Non provano vergogna. Sono in assoluta buona fede. Come il vero Tanzi, quando diceva: “A parte il buco di 14 miliardi, l’azienda è un gioiellino”. Incoscienti? Irresponsabili? Espressione emblematica di certa borghesia italiana o deriva patologica e colpevole di un modello virtuoso di imprenditoria?
Ne discutono Gianni Canova e Severino Salvemini.
S.S. Sappiamo che il vero caso narrato nel film si svolge in Emilia, ma potrebbe essere in Lombardia o in Veneto o nelle Marche. È un ritratto “acido” dell’operosa provincia italiana, dove l’impresa che ha avuto successo e che si è espansa fino ad andare in borsa e a diventare un campione nazionale rappresenta un potere locale immenso per lavoratori e per cortigiani territoriali. La scena in cui l’imprenditore la domenica mattina (probabilmente dopo la messa) ritorna a casa sottobraccio alla moglie con un cabaret di pasticcini e stringe la mano ai notabili cittadini mi ricorda quasi le scene della piazza assolata del Padrino. È il patron tronfio che elargisce la sua benedizione, figura esaltata e gonfiata come i bilanci certificati sulla sua scrivania.
G.C. È vero: l’imprenditore rappresentato nel film si divide tra casa, chiesa e azienda con la medesima devozione. È un triangolo capace di reggere un ruolo economico di dimensioni ridotte, ma che diventa meno efficace quando l’impresa si fa globale e quando non basta più il sistema di relazioni locali gestibile al bar dell’angolo (“se vuoi giocare in campionato ti serve il tridente a tre punte: una squadra calcistica, un giornale, una banca” gli dice il politico nazionale). L’imprenditore del film appare irresponsabile e spregiudicato. Ciò nonostante ama la dignificazione della responsabilità sociale: restaura i monumenti, si presenta come raffinato collezionista, sostiene filantropicamente gli enti morali.
S.S. A me ha colpito molto anche la tristezza esistenziale del ragionier Botta, quello che fa il lavoro sporco, stando fino a notte fonda sui bilanci. Il suo svago è ridottissimo: un bicchiere di vino pregiato ogni tanto, un amplesso verticale sbrigativo, una conversazione con una musicassetta in inglese. Il resto è fedeltà all’azienda, anche quando tutto sembra sul punto di affondare. L’uomo è gelido, impenetrabile, tutto razionalità. Ma contemporaneamente è fedele al suo padrone, che è la vera maschera dell’avidità e dell’assenza di scrupoli. È quella del ragioniere la figura più interessante del film, forse anche per la grande interpretazione di Toni Servillo.
G.C. Sono d’accordo solo in parte. Oltre che introverso, il nostro ragioniere appare anche molto disinvolto e si butta nelle alchimie di bilancio senza alcuna remora, più che altro schiavo della forte identificazione con l’azienda, che lo porta a demolire anche la sua integrità. Immerso nelle sabbie mobili, è convinto che non ci sarà mai il redde rationem perché comunque nel lungo termine i conti non potranno che tornare (“hai problemi se sei indebitato per mille euro, ma non hai problemi se il debito è di un milione o di un miliardo…!”). La sua è la classica “finanza creativa” che produce i mostri (“se i soldi non ci sono, inventiamoceli!”).
S.S. Io ho trovato molto curiosa anche la scelta di raccontare la storia dal punto di vista dei protagonisti. Scelta coraggiosa, non c’è dubbio, ma anche difficile e rischiosa: perché impedisce la distanza critica, la deformazione grottesca, la corrosione ironica. E perché autorizza il pubblico a adottare lo sguardo dei personaggi, fin quasi ad arenarsi in esso. Il risultato è che Il gioiellino non ha le ambiguità alla Dürrenmatt e le acide atmosfere alla Simenon che aveva il primo film di Molaioli La ragazza del lago, ma non ha neppure l’energica secchezza di un film alla Francesco Rosi…
G.C. È vero. Nel suo raccontare il passaggio da un’economia reale (quella che generava plusvalore dal latte e dai suoi derivati…) a un’economia virtuale (quella dei derivati finanziari), è come se il film si smaterializzasse a sua volta, e perdesse peso, e consistenza. Come se si virtualizzasse. Dimenticando di far vedere che quella presunta virtualità produce però effetti materiali pesantissimi sulla vita quotidiana delle persone virtualmente “derubate”. Sono loro i veri assenti: le vittime, i risparmiatori. Quelli che hanno pagato con i loro denari veri le truffe virtuali dei ragionieri dell’azienda gioiellino. Quelli che si sono ritrovati fra le mani titoli tossici privi di valore reale. Tutto il film – come forse in fondo anche questa nostra conversazione – ruota attorno al loro “fantasma”…