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2015/6

Gianni Canova Severino Salvemini

Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet. Talento e presunzione

Un ragazzino di 10 anni che vive in uno sperduto ranch del Montana ha un talento non comune per la fisica e la cartografia, ma è anche di una presunzione senza pari. Raccontando il suo viaggio da una parte all’altra degli States il regista Jean-Pierre Jeunet si (e ci) interroga sul rapporto che il genio intrattiene col mondo che lo circonda, e su come il mondo può e deve accorgersi del genio.

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Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet

Regia: Jean-Pierre Jeunet

Interpreti: Kyle Catlett e Helena Bonham Carter

Francia/Canada, 2013

Inventare cose, creare storie. Sono due attività diverse, ma in fondo abbastanza simili. Perché anche le cose hanno una loro storia, e perché anche le storie, in fondo, sono cose. Lo sa bene il regista francese Jean-Pierre Jeunet, che fin dal suo film più noto – Il favoloso mondo di Amélie del 2001 – aveva creato una strabiliante storia-cosa: un artefatto ludico-narrativo pieno di luccichii e invenzioni, di sorprese e tensioni, con cui aveva deliziato e sedotto il pubblico di tutto il mondo. Anche il suo film più recente, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet è un film-cosa: perché racconta di un ragazzino capace di inventare cose che non esistono, e perché comunque è a sua volta una “cosa”: anch’esso un artefatto dove i colori, i suoni, le luci, le note e la funzionalità sono quelle che spesso attribuiamo alle cose della nostra vita.

Il T.S. del titolo è un ragazzino di 10 anni che vive in una sperduta fattoria del Montana insieme ai genitori e alla sorella Grace. Aveva anche un gemello, Layton, che però è morto in un incidente giocando con il fucile. Layton era un costruttore, faceva il cowboy, si allenava coi muscoli e con il lazo, mentre T.S. è piuttosto un teorico, uno sperimentatore: uno che raccoglie dati e costruisce oggetti, che prova e riprova, e che non si stanca mai di ricercare. Tanto che un giorno si convince di aver inventato la macchina del moto perpetuo e spedisce il suo brevetto a una società scientifica di Washington. Quelli che lo ricevono, gli scienziati del prestigioso Smithsonian Institute, non credono ai loro occhi: senza sapere che l’inventore ha solo 10 anni, lo invitano a Washington per ritirare il prestigioso premio Baird, che segnala ogni anno l’eccellenza della ricerca, dell’invenzione e della creatività.

T.S. Spivet non è per nulla sorpreso né stupito: come se in fondo si aspettasse quel riconoscimento, decide di partire: solo soletto, senza dire nulla ai genitori, fa la valigia, salta su un treno merci che passa dalle sue parti alle quattro di mattina e inizia un lungo viaggio che lo porterà dall’altra parte degli States. Interpretato dal giovane attore Kyle Catlett, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet è una favola poetica sul diventare grandi ma anche una metafora sul talento e sul rapporto che i creativi talentuosi intrattengono con il resto della società. In questa chiave lo leggono e ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. The Young and Prodigious Spivet: suona così il titolo originale del film. Mentre il titolo della versione italiana mette l’accento soprattutto sulla dimensione narrativa (il viaggio), il titolo originale sottolinea piuttosto le qualità del protagonista. Che è young e prodigious: giovane e prodigioso, portentoso, eccezionale. Forse conviene partire da qui, da questo binomio non scontato che associa il “genio” e il “portento” alla giovane età.

S.S. Non c’è dubbio che T.S. ha una passione non comune per la fisica, si occupa di cartografia, ha un’intelligenza superiore alla media e lo sa. Ne è consapevole. Se c’è una qualità che proprio non gli si può attribuire è la modestia. Al contrario, è convinto che dai posteri sarà ricordato come il Leonardo da Vinci del Montana. Tutto ciò gli conferisce anche una specie di complesso di superiorità, che lo rende distaccato nei confronti della quotidianità della vita degli altri familiari.

G.C. D’accordo. Ma è la consapevolezza del suo genio a renderlo distaccato o è piuttosto il contesto familiare in cui è cresciuto che lo induce a sviluppare i suoi talenti come via di fuga rispetto a un milieu non proprio esaltante? Il padre è un cowboy, sempre alle prese con il lazo per controllare capre e bufali. Quando è a casa si sprofonda nella poltrona di pelle con l’immancabile birra tra le mani, incurante di tutto resto. La madre è ossessionata da una ricerca da entomologa dilettante, e sembra non aver testa che per quella. La sorella sogna di diventare Miss America e di dividersi tra red carpet e talk show televisivi. Il gemello è morto anzitempo giocando nel fienile con un Winchester e gli ha lasciato in eredità una montagna di sensi di colpa. Incompreso e trascurato, troppo maturo per la sua età, il piccolo T.S. forse non ha alternative se non quella di rifugiarsi nel suo mondo parallelo fatto di calcoli e invenzioni. Il che ripropone l’eterno dilemma: geni si nasce o si diventa? E poi, paradossalmente: le carenze affettive possono favorire lo sviluppo di una personalità creatrice, capace di pensare fuori dagli schemi?

S.S. T.S. è sicuramente un talento non riconosciuto, e come tale non apprezzato e non sostenuto. Anzi, spesso viene preso per matto, e deriso e mortificato. La sua è una famiglia mediocre e si pone obiettivi mediocri anche nei traguardi da stabilire per i figli. Da questo punto di vista, T.S. non è sicuramente motivato da fattori esterni e deve cavarsela solo con le proprie forze, con i propri driver intrinseci. Ma la sua forza sta nel fatto che non si lascia frustrare dallo scarso riconoscimento del padre alle sue scoperte o dall’assenza di lodi della madre e dei fratelli ai suoi calcoli iper-razionali e tira avanti, convinto che ci sarà comunque qualcuno al mondo che saprà capirlo e valorizzarlo. Ormai nella sua casa si sente un estraneo e la sua missione la deve scoprire all’esterno dei confini domestici. Per tutto ciò si autoesilia da quella fattoria, quando arriva l’opportunità di fuggire a Washington.

G.C. Certo. Ma il suo viaggio è anche qualcosa di più che una semplice ricerca di riconoscimento del proprio valore. È anche un percorso rigenerante durante il quale il giovane Spivet scopre di non essere solo intelletto e razionalità cartesiana, bensì anche emozione e relazione. Non per nulla, durante il viaggio fa esperienze nuove, incontra personaggi strani, conosce il peso e i vincoli dettati dalla legge. In una parola cresce. Diventa grande. Il film di Jeunet finisce così per raccontare il romanzo di formazione di un piccolo genio…

S.S. Quando vede i grattacieli di Chicago se ne esce con una battuta che mi ha colpito molto: “Come possono gli esseri umani creare angoli retti, quando i loro comportamenti sono così contorti e irrazionali?”. Forse il genio sta proprio qui: in questa capacità di cogliere le leggi e le contraddizioni del mondo e della vita. E di coglierli a partire da ciò che cade sotto i propri occhi.