E&M

2001/5

Ogni giorno la televisione argentina ospita adolescenti ansiosi di risalire alle origini del proprio sangue. Cercano il padre mai conosciuto e gli promettono di perdonargli tutto: aspettano però una sua chiamata perché desiderano, almeno una volta, sentirsi scelti da lui. Quando i loro appelli si concludono e il programma riprende ritmo con una trasmissione sportiva, inconsciamente lo spettatore trasforma questi volti carichi di nostalgia paterna in una inedita chiave di lettura del mondo dell’agonismo. In questa assonanza tra sport e dinastie familiari, le immagini di due squadre italiane mi fanno spesso compagnia. Sono le uniche, guarda caso, che mai sono retrocesse in serie B.

Una telecamera che inquadrava impietosa la tribuna d’onore dello stadio di Torino aveva scovato, anni fa, un volto tirato e stanco. Giovannino assisteva alla sua ultima partita: sarebbe morto pochi giorni dopo. Nella storia delle dinastie italiane pochi giovani erano stati preparati, come lui, con lungimiranza e competenza. Quando si parla di uno stile Juventus molto annacquato si dimentica che stanno pagando la perdita di un giovane capace di reinterpretare con nuovo stile il mondo poliedrico che gli sarebbe stato affidato. Lo sport e la vita sembrano spesso ingiusti.

Del tutto diverso è lo squarcio che la televisione ci regalò alcuni anni fa, allo stadio di Livorno. Un minuto di silenzio ricordava la figura del grande Angelo Moratti e, in tribuna, il figlio Massimo era visibilmente commosso. Ma in basso sul teleschermo, a sinistra, si intuiva il volto del figlio che, dando la mano al padre, lo spiava e gli sorrideva. Sembrava dirgli: “La prossima Coppa dei Campioni tocca a noi due”. Certamente Massimo si rivedeva a Vienna, a sollevare con il padre uno storico trofeo della grande Inter. Per assistere a quella magica serata aveva bigiato la scuola del Leone XIII accusando una malattia inesistente. Ma l’occhio di lince di un padre gesuita scoprì che l’ammalato era sanissimo. Al ritorno l’aspettava l’espulsione dal collegio, aumentando la gioia della vittoria perché quella felicità gli era stata proibita.

Come ogni impresa familiare, anche il tifoso riproduce l’archetipo del padre: sceglie, protegge, esige, ricorda, senza mai tradire. Può invidiare la campagna acquisti o il risultato di un avversario, ma non abbandona mai la sua squadra: nessun padre, del resto, pur ammirando il figlio di un altro, farebbe cambio con il suo. Anche l’attaccamento sportivo, come ogni dinastia familiare che si rispetti, è allenato a conoscere snodi drammatici e dolorosi. E quando, nei momenti difficili, contesta la sua squadra, il tifoso non si sente mai dalla parte del torto. Esercita un diritto che gli proviene dall’antica Roma: il padre che riconosceva un figlio acquisiva su di lui un perpetuo diritto di vita e di morte.

Al fondo di ogni dinastia esiste sempre un gesto che la connota: il padre alza al cielo il figlio e lo riconosce per sempre. Anche il tifoso, insieme alla sua squadra vincente, alza idealmente al cielo quella coppa che sarà tramandata ai futuri appassionati. Quando raccontava la guerra di Troia, Omero sostituiva alla grande qualsiasi televisione. Nella terra dove nacquero i giochi olimpici, chi ascoltava l’Iliade doveva rigustare con immutata emozione il racconto di un grande troiano che, prima di affrontare la battaglia che lo avrebbe visto soccombere per mano di Achille, sollevava al cielo suo figlio. Tutta la nostra storia, umana e sportiva, si riconosce con tenerezza in quel gesto di Ettore.