E&M

2003/4

Gianni Canova Severino Salvemini

L’operaio e il cellulare

Nel film di Riccardo Milani, Il posto dell’anima, una rappresentazione non scontata delle trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione sull’identità individuale e collettiva dei lavoratori.

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Il posto dell’anima

Regia Riccardo Milani

interpreti Michele Placido, Silvio Orlando, Paola Cortellesi

Italia, 2003

La sveglia suona quando è ancora notte fonda. I personaggi del film, tutti operai, si alzano con addosso il torpore del sonno bruscamente interrotto. C’è chi si precipita al telefono per raccontare incubi e sogni notturni alla fidanzata lontana, chi gironzola nell’appartamento troppo piccolo per guardare i bimbi che ancora dormono, chi si arrabbia con il figlio diciottenne che è andato a letto da poco e lo risveglia bruscamente al suono di un’assordante musica techno. Poi, con addosso un giubbotto scuro per ripararsi dal freddo pungente del mattino, tutti si incamminano lungo il viale che conduce all’ingresso della fabbrica. Una volta dentro, ognuno conosce perfettamente le proprie mansioni: sono quelle di sempre, tipiche di un’organizzazione fordista della produzione. L’azienda per cui lavorano, la Car Air, produce pneumatici per auto: appena la catena di montaggio si mette in funzione, le bocche gigantesche delle macchine eruttano gomma nera che assume forme bizzarre e strane.

Il posto dell’anima comincia così: con scene di ordinaria vita operaia nella filiale di una multinazionale americana costruita fra le montagne d’Abruzzo, proprio a ridosso del Parco Nazionale. Il regista Riccardo Milani torna nella terra in cui aveva già ambientato il suo precedente La guerra degli Antò (1999) per narrare questa volta – su una sceneggiatura scritta in collaborazione con lo scrittore Domenico Starnone – le metamorfosi dell’identità operaia pur all’interno di un’organizzazione del lavoro tutto sommato tradizionale. L’aspetto più interessante del film, infatti, sta proprio qui: questi operai sono diversi dal solito. Hanno poco a che fare con lo stereotipo del lavoratore ideologizzato che il cinema italiano ha tante volte raccontato. La modernità, le nuove tecnologie e la globalizzazione fanno sì che anche una banale vertenza sindacale come quella narrata da Il posto dell’anima assuma connotati inediti e per certi versi rivelatori. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che il film vada apprezzato soprattutto per gli elementi di concretezza che introduce nella rappresentazione della cosiddetta “classe operaia”. È come se il regista e lo sceneggiatore cercassero di attuare un compromesso fra l’antico rigore ideologico e l’inevitabile secolarizzazione indotta dalle nuove tecnologie e dalla modernità. Il personaggio del sindacalista interpretato da Michele Placido, per esempio, quando torna in famiglia e si confronta con il figlio, deve fare i conti con il computer, con Internet e con la gestione del software. Un altro operaio, quello interpretato da Claudio Santamaria, pur partecipando alla vertenza sindacale dei suoi compagni per la difesa del posto di lavoro, di fatto poi risolve a modo suo il problema della disoccupazione mettendosi a produrre una specialità gastronomica locale (gli gnocchetti di Santa Gemma) e applicando una forma di marketing – rudimentale ma efficace – alla sua commercializzazione.

G.C. È vero. Ma non trovi che questi elementi di concretezza e di innovazione – come tu li definisci – siano più leggibili come aggiornamenti dell’antica arte di arrangiarsi che come effettivi indizi di cambiamento? In fondo è quasi un luogo comune sociologico quello secondo cui l’operaio italiano magari fa anche le vertenze sindacali di categoria, ma poi si arrangia con un secondo lavoro e mostra un’indubbia capacità di intraprendenza di fronte alla necessità di sbarcare il lunario…

S.S. Non credo si tratti solo di questo. Qui siamo lontanissimi dal modello di vita operaia rappresentato in vecchi film come Romanzo popolare (1974) di Mario Monicelli. Lì c’era il rigore dell’ideologia. C’era il culto della diversità rispetto ai valori della cosiddetta “vita borghese”. Qui si vede invece come ormai anche l’operaio, benché sindacalizzato e ancora legato a forme di solidarietà di classe con i compagni, di fatto sia obbligato a fare i conti con la modernità, con la globalizzazione e con i modelli – appunto – della “vita borghese”. Lo si vede molto bene, per esempio, nella scena in cui il personaggio di Silvio Orlando è incatenato ai cancelli della fabbrica: sul luogo c’è una troupe del Tg3 che lo vuole intervistare; lui vorrebbe fare il “duro” ma, all’improvviso, gli squilla il cellulare e si trova costretto a rispondere e a conversare su questioni quotidiane e banali proprio nel momento in cui il copione tradizionale avrebbe voluto che si esibisse nel fulgore e nel rigore dell’ideologia…

G.C. È vero. Ma il fatto che le nuove tecnologie stiano cambiando la vita quotidiana delle persone è un dato ormai assodato e trasversale. Vale per tutte le categorie e per tutti i ceti sociali, non solo per gli operai.

S.S. Certo. Ma trovo importante che finalmente un film italiano mostri come ciò stia avvenendo anche all’interno della cosiddetta “classe operaia”. In primo luogo perché il tradizionale ruolo operaio – quello industriale/manifatturiero – fa più fatica di altri ad attrezzarsi al cambiamento e a farlo proprio. E poi perché sono convinto che in passato proprio l’isolamento e la distanza dell’operaio dalla modernità tecnologica favorissero la conservazione dell’ortodossia ideologica. Oggi non è più così, oggi l’isolamento è impossibile. Anche per un operaio che vive e lavora in una fabbrica tradizionale tra le montagne d’Abruzzo.

G.C. Da questo punto di vista sono sintomatiche le sequenze del film in cui un gruppo di operai si reca in delegazione prima al Parlamento Europeo a Bruxelles e poi presso la casa madre della Car Air in America. Lì l’impatto con la modernità e con la globalizzazione è traumatico: i personaggi del film scoprono, per esempio, che le loro ragioni non valgono se non conoscono la lingua inglese per esprimerle. Scoprono che devono uscire dal loro “piccolo mondo antico” e imparare a confrontarsi con un sistema mondo che funziona secondo regole ben diverse rispetto alla tranquilla routine di paese a cui fino a quel momento avevano improntato la loro vita.

S.S. Non solo. Scoprono anche che il mondo degli affetti e delle relazioni d’amicizia è superato e travolto dal sistema di relazioni del mondo contemporaneo. Penso, per esempio, alla sequenza in cui gli operai della Car Air vanno in America convinti di poter trattare con un loro compaesano che ha fatto carriera ed è diventato dirigente: arrivati sul posto si rendono conto che il loro interlocutore è un altro, il compaesano non lo incontrano neppure, e capiscono che quand’anche lo incontrassero non varrebbero nulla, in quel contesto, né l’antica amicizia né un’eventuale solidarietà di conterranei.

G.C. Anche il rapporto dell’operaio interpretato da Silvio Orlando con la fidanzata che vive a Milano può essere letto in una chiave analoga. L’ambiguità della loro relazione deriva tutta dal fatto che lui stenta ad accettare fino in fondo i codici della modernità…

S.S. Certo. Il personaggio di Orlando applica ancora i codici primitivi del possesso amoroso in termini di esclusività. Lei no. Lei è già in un altro codice di comportamento. Tant’è vero che – sul piano narrativo – il tradimento di lei non viene risolto nel film: coesiste con la relazione che ha con il fidanzato al paese. Lui lo intuisce e prova ad adeguarsi. A cambiare. Con fatica, ma ci prova.

G.C. Rispetto a un film che pure tratta di argomenti analoghi come I lunedì al sole dello spagnolo Fernando León de Aranoa (dove si narra di quattro operai di Vigo, nel nord della Spagna, rimasti disoccupati dopo la chiusura dei cantieri navali in cui lavoravano), mi sembra di capire che tu ritieni Il posto dell’anima molto più moderno e interessante…

S.S. Direi proprio di sì. I personaggi del film spagnolo incarnano la vecchia ideologia del lavoro salariato come opzione esistenziale priva di alternative. Una volta rimasti disoccupati non fanno assolutamente nulla per riqualificarsi. Stanno al bar, vanno all’ufficio di collocamento, aspettano. Vogliono il lavoro che facevano prima, sono impermeabili a qualsiasi ipotesi di cambiamento. O quel lavoro o nulla. Gli operai del film di Milani, invece, ci provano. Cercano di reinventarsi un’identità. Tentano di darsi un’altra possibilità. Anche il tono dei due film è diverso: quello spagnolo è drammatico-elegiaco, quello italiano gioca di più con i personaggi, li prende in giro, preferisce i mezzi toni. È un modo, anche questo, per affrontare un tema senz’altro non facile in modo inedito e non scontato.