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2002/1
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La sindrome del declassamento
Attraverso un apologo fantapolitico, il film I vestiti nuovi dell’Imperatore racconta il disagio con cui spesso si affronta la paura di perdere il potere acquisito all’interno di un’organizzazione e la difficoltà di rientrare in un ruolo “normale” dopo aver rivestito incarichi di grande prestigio.
Forse, Napoleone Bonaparte non è morto a Sant’Elena il 5 maggio 1821. Forse, al suo posto, c’era un sosia. Forse, il vero Napoleone è tornato ancora una volta a Parigi per rivendicare il trono, ma nessuno l’ha riconosciuto. Fantapolitica? Fantastoria?. Forse. Eppure, l’ipotesi avanzata dal film di Alan Taylor I vestiti nuovi dell’Imperatore[1] è carica di suggestioni e offre l’opportunità di analizzare da vicino il crepuscolo e poi il tramonto di un uomo di potere. Relegato da sei anni in una remota isoletta dell’Atlantico, il Napoleone di Taylor (interpretato da un efficacissimo Ian Holm), decide di rientrare in gioco tentando il tutto per tutto: appoggiato da un gruppo di fedelissimi, si fa sostituire da un sosia, si cala nei panni di un marinaio qualunque e si imbarca alla volta della Francia. Il piano prevede che, all’arrivo dell’Imperatore a Parigi, il sosia rimasto a Sant’Elena riveli la sua vera identità, in modo da consentire a Napoleone di annunciare il suo ritorno e di riprendere il potere. Purtroppo, però, le cose non vanno secondo i piani stabiliti: la nave su cui viaggia Napoleone cambia improvvisamente rotta e l’Imperatore non riesce a mettersi in contatto con un suo fido collaboratore che avrebbe dovuto condurlo a Parigi. Solo e senza amici, Bonaparte raggiunge comunque la capitale, ma non ha appoggi, nessuno lo riconosce e lui finisce per stabilirsi dalla vedova di un suo ex-ufficiale, aiutandola nel suo commercio di angurie e meloni. Quando da Sant’Elena arriva la notizia della morte di Napoleone (cioè – secondo l’ipotesi del film – del sosia che l’aveva sostituito) Bonaparte ha un ultimo guizzo d’orgoglio e cerca di far riconoscere la sua vera identità al mondo. Ma nessuno gli crede, neppure la vedova con cui ha instaurato ormai una profonda relazione sentimentale. Così, disilluso e amareggiato, Napoleone regala la divisa e le insegne del potere a un ufficiale della sua vecchia guardia e accetta di vivere gli ultimi anni della sua vita nell’anonimato e nella normalità. Prodotto da Uberto Pasolini (Palookaville, Full Monty), I vestiti nuovi dell’Imperatore è un bell’esempio di cinema d’autore che usa la “fantastoria” e la riscrittura immaginaria del passato per toccare nodi, problemi e questioni che investono anche l’oggi e che riguardano da vicino temi come la strategia, la leadership e il potere. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
G.C. Mi pare che l’aspetto più interessante del film, dal punto di vista del management e dell’organizzazione, sia il tema del “rientro nella normalità”. Il protagonista di I vestiti nuovi dell’Imperatore si trova ad affrontare un passaggio che anche molti manager hanno dovuto sperimentare: il rientro nei ranghi dopo che incarichi di grande prestigio li avevano portati ai vertici di importanti organizzazioni. Come viene affrontato, in genere, questo “declassamento”? Immagino che ponga grossi problemi psicologici, identitari e relazionali…
S.S. Direi che è un’esperienza relativa soprattutto a quei grand commis che hanno rivestito incarichi temporanei di grande prestigio: quelli che in brevissimo tempo sono saliti molto in alto quanto a status, reputazione e dignificazione sociale, e che in tempi ancor più brevi sono dovuti rientrare nei ranghi delle persone normali. Penso, per esempio, a certi professori universitari nominati alla presidenza di Enti o Istituzioni nazionali, che al termine del mandato di colpo si sono ritrovati a dover gestire di nuovo le piccole incombenze della vita accademica. La didattica, gli studenti che ti bussano alla porta, la segretaria di istituto che ti ricorda le scadenze e le riunioni rituali. Domenico De Masi ha studiato il fenomeno e ha sottolineato come in questi casi si verifichi soprattutto una sorta di “vendetta della vanità”: di colpo, perdi tutti gli elementi riconoscibili del potere: l’autista, la macchina blu, le due segretarie personali, le persone che fanno anticamera fuori dal tuo studio, la fama, la riconoscibilità, lo spazio sui giornali, gli inviti alle prime…
G.C. È un declassamento che si attua in primo luogo sul piano del simbolico, insomma. È quasi una perdita dei feticci o delle insegne del potere…
S.S. Direi di sì. È come se il manager, in questi casi, si sentisse privato della sua dimensione virile. Molti vivono il periodo immediatamente successivo al “declassamento” come una sorta di quarantena, aspettando nervosamente che qualcuno conferisca loro un nuovo incarico.
G.C. Questa sindrome del rientro a ogni costo nel ruolo precedente è resa bene dal film di Alan Taylor. Io ho trovato molto forti, per esempio, le scene in cui Napoleone, tornato a Parigi, passeggia nervoso davanti a quella che un tempo era stata la sua reggia, assiste al cambio della guardia, e vive in modo doloroso i sintomi dell’esclusione. Soffre perché si sente escluso da ciò che prima riteneva suo, quasi espulso fisicamente dallo spazio in cui prima esercitava il suo potere.
S.S. Il film mi ha fatto ricordare l’esperienza di certi manager cinquantenni che, una volta raggiunta la vetta della loro organizzazione, si pongono il problema del dopo e fanno fatica a immaginare un ulteriore livello di sviluppo della loro carriera. Non riescono a vedere uno stadio successivo che sia più alto di quello che hanno già raggiunto, temono di essere espulsi da quel livello e faticano ad adattarsi all’idea che uno sviluppo si possa avere anche in direzione del basso, magari confrontandosi con un altro tipo di incarichi o di progetti. Un po’ come accade al protagonista del film, che non è più Imperatore e deve adattarsi a esprimere il proprio talento in un altro contesto, magari organizzando da par suo la vendita dei meloni della vedova che lo ospita…
G.C. La sequenza in cui Napoleone applica le proprie conoscenze strategiche, logistiche e militari all’organizzazione di una colossale vendita di angurie e meloni per le strade di Parigi, motivando i suoi collaboratori, ottimizzando l’uso delle risorse umane e studiando il territorio per ottenere il massimo di redditività dalla merce disponibile è davvero magistrale. Quasi un apologo sulla capacità di riciclarsi in modo flessibile e proficuo…
S.S. Certo. Ma è una scena che ci dice anche come, una volta che hai acquisito dei buoni schemi organizzativi, se hai una discreta capacità di lateralità, riesci ad applicarli e a farli funzionare anche in contesti che parevano impossibili. Come dire: non è il settore che condiziona la tua professionalità, quel che conta è la capacità di esercitare la professionalità in contesti anche molto distanti. Se sai organizzare un atelier di moda, probabilmente sai gestire anche una squadra di calcio. Il problema è disporre degli schemi giusti, ben assorbiti e collaudati.
G.C. Il film ci dice però anche un’altra cosa. Ci dice come il ruolo di potere abbia bisogno di insegne esteriori e di marche di riconoscimento. Il sosia che sostituisce Napoleone a Sant’Elena, una volta indossate le insegne del potere, finisce per credere di essere davvero Napoleone. E lo crede con tale intensità che perfino gli ufficiali inglesi addetti alla sua sorveglianza non sospettano nulla, credono che lui sia il vero Imperatore. Per converso, Napoleone, privato delle insegne del potere, non è più nessuno. Nessuno gli crede. Quando poi finalmente accetta di rientrare nella normalità, questa decisione è resa simbolicamente dal gesto con cui regala la sua divisa e il suo cappello a uno dei suoi ufficiali. Come se il potere fosse tutto in quei segni esteriori. Non a caso, poco prima del finale il protagonista del film vede in un manicomio numerosi matti che si credono Napoleone solo perché indossano un cappello simile al suo…
S.S. La tendenza a identificare il potere con le sue insegne esteriori, per altro, è molto più diffusa di quanto sembri. Penso a un personaggio cinematografico come Chance, il giardiniere in Oltre il giardino di Hal Ashby: è un incompetente, un naif analfabeta, ma tutti lo credono un genio della finanza e della politica solo perché si comporta e si veste come tale. A volte, basta che tu abbia il cappello giusto al momento giusto perché nell’immaginario collettivo tu possa ambire a qualsiasi ruolo. C’è molto “teatro” nei ruoli di ogni organizzazione. E un film come quello di Alan Taylor ce lo ricorda con limpida evidenza.