E&M

2010/6

Gianfranco Piantoni

Nessuno andrà più allo stadio

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Mancavano pochi minuti alla fine della partita. Il risultato di Italia-Ungheria, allo stadio Filadelfia di Torino, era inchiodato sul 2 a 2. Racconta Renato Cesarini: “All’ultimo minuto passai la palla a Costantino che la portò avanti sino all’area e poi esitò. Mi accorsi che non era in forma. Mi avvicinai a lui, con una spallata lo allontanai come se fosse un avversario e ripresi il pallone. Scartato il terzino, finsi un passaggio a Orsi che saliva dall’altra parte a grandi falcate. Il portiere abboccò. Tirai con violenza sul palo scoperto. Era il 3 a 2 per noi. Non ci fu neppure il tempo di riportare la palla al centro”. 13 dicembre 1931: nasceva la “zona Cesarini”: il gol della vittoria segnato all’ultimo secondo.

Renato aveva costruito la sua fama calcistica in Argentina dove il padre, calzolaio, conobbe i disagi degli emigranti, come il “letto caldo”, affittato nell’arco della giornata a tre persone diverse. Ma il ragazzo sapeva divertirsi. Di giorno giocava a calcio nella squadra della Cacharita. Erano chiamati “i becchini” perché il campo da gioco affiancava un cimitero. Di notte, la città impazziva per il tango: un pensiero triste che balla. In pochi mesi, solo a Buenos Aires furono importati quasi ventimila pianoforti.

Troppo bravo, lo compera la Juventus: e saranno cinque scudetti di fila. Era l’idolo del pubblico. Eludeva i ritiri calandosi dalla grondaia dell’hotel. Le notti in giro tra balli e belle donne, sempre campione in campo: ma arrivava in ritardo agli allenamenti. Multato di cinquecento lire, ne versa duemila, un quarto del suo ingaggio annuale: “Direttore, li consideri un anticipo dei prossimi ritardi, non posso rinunciare a questo piacere”. Mentre si trovava in un night arrivò al suo tavolo una bottiglia di champagne, omaggio di Edoardo Agnelli, seduto poco lontano con alcuni amici. Cesarini si premurò di contraccambiare inviando al tavolo del presidente della Juventus ben dodici bottiglie di champagne.

All’apice del successo, fiutando la guerra, rientrò in patria. Non ha avuto figli ma un erede, ed è stato Omar Sivori. Lo scoprì in Argentina, lo portò a Torino, alla sua Juventus, dove Renato era rientrato come allenatore. Alla fine della sua carriera Cesarini accettò un’ultima sfida: allenare il Napoli che stava retrocedendo in serie B. La situazione era disperata. Caso volle che la partita decisiva fosse Napoli-Juventus. Se la Juve avesse vinto, il Napoli sarebbe retrocesso. Sivori non se la sentiva di giocare contro il suo maestro. La sera prima Cesarini lo va a trovare in ritiro. “Omar, tu domani devi giocare una grande partita, come sai fare tu. Perché tutti ti guarderanno. Lo devi fare per me. Dimostra a tutto lo stadio chi sei.” Settantamila persone speravano nel miracolo. Omar entrò in campo con il cuore gonfio, ma s’impegnò al massimo come il maestro aveva richiesto. La Juve vinse per 4 a 0 con tre reti di Sivori. Uscendo dal campo Omar si avvicinò alla panchina del Napoli. Renato lo ringraziò. L’allievo aveva giocato per lui.

La sciagura di Superga si abbatté su Buenos Aires come un fulmine. Cesarini convinse il River Plate a giocare per beneficenza a Torino una partita contro una squadra mista granata. Anche Giampiero Boniperti indossò la maglia dei suoi nemici storici. Da allora, per non dimenticare quei campioni, la seconda maglia del River Plate è granata come quella del Toro. “Il calcio – diceva Renato – sa emozionare e stupire. È bello perché ci sono i gol. Provate a togliere le porte: nessuno andrà più allo stadio.”