E&M

1999/1

Claudio Dematté

La grande questione: a chi spetta governare l'impresa

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Premessa

In ogni realtà nella quale si realizza uno sforzo di produzione collettivo e nella quale convergono a tal fine più soggetti portatori dei diversi fattori della produzione si pone inevitabilmente la questione: a chi spetta prendere le decisioni? Più precisamente si pone la questione delle questioni: a chi spetta il potere sovrano, dal quale poi, per delega, si dipanano i poteri delegati.

In una visione statica e di prima approssimazione si potrebbe chiudere la discussione con il richiamo alle leggi: sono queste che specificano a chi spettano tali poteri. Nelle società di capitale, ad esempio, le leggi definiscono la gerarchia dei poteri, attribuendo agli azionisti il potere estremo di nominare il massimo organo amministrativo (il consiglio d’amministrazione), quello di controllo (il collegio sindacale) ed eventualmente anche organi di gestione esecutiva (il comitato esecutivo e/o l’amministratore delegato), riservando invece, secondo le previsioni di statuto, ad uno di questi organi la successiva articolazione dei poteri, in particolare quelli che spettano alla struttura dirigenziale.

Il richiamo alla legge per quanto importante non esaurisce però il tema. Anzitutto, è noto che la legge registra una valutazione storica che non è immutabile nel tempo: tanto che si susseguono i cambiamenti proprio alla luce di riflessioni su quale assetto corrisponda meglio all’evolversi delle esigenze. In secondo luogo, la formulazione di legge, per quanto indichi la soluzione, lascia aperte questioni di applicazione che spesso diventano la sostanza del problema. Ad esempio, l’avere attribuito agli azionisti il potere supremo di nominare gli organi di governo solo apparentemente dirime la questione. È come dire che la nomina del Parlamento spetta ai cittadini. In realtà resta imprecisato con quali regole questo viene nominato. Basta seguire a livello politico l’eterno dibattito sulle questioni istituzionali e sui sistemi elettorali per rendersi conto che l’affermazione del principio generale non ha affatto esaurito il tema. Anche in campo aziendale, rimane da vedere quale tipo di procedure gli azionisti nominano il massimo organo: sono ammesse le votazioni per corrispondenza? Con quali regole si formano le liste? Devono prevedersi delle quote di rappresentanza per gli azionisti di minoranza, oppure tutto il potere va al 51 % dei votanti, anche se questi fossero una minoranza degli azionisti aventi diritto di voto? Sono necessari dei quorum costitutivi e dei quorum deliberativi delle assemblee? Una volta costituiti gli organi, ci sono dei meccanismi di tutela per gli azionisti di minoranza se questi non sono rappresentati?

Come si può vedere, l’avere attribuito ad uno dei soggetti – i portatori di capitale di rischio – il diritto supremo al governo dell’impresa è appena un primo passo nel processo di articolazione dei poteri. Per trovare un assetto organico delle regole del gioco, in grado di tenere conto delle varie esigenze – quelle di stabilità del sistema di governo, ma anche quelle di responsabilizzazione – occorre un complesso insieme di disposizioni la cui strutturazione può richiedere mesi e mesi di lavoro ed anche lunghi ed intensi momenti di confronto, dato che – come appare a tutti evidente – l’articolazione dei poteri è strutturalmente una questione di potere. L’analogia con il dibattito politico sulle riforme istituzionali è quanto mai pertinente: in entrambi i casi si tratta di trovare un sistema di rappresentanza degli interessi che consenta di fare emergere una maggioranza in grado di legiferare e di formare un governo stabile, che possa prendere decisioni secondo i tempi richiesti dalle circostanze, e contemporaneamente di sottoporla a meccanismi di responsabilizzazione ed alla prospettiva dell’alternanza, ove si manifesti non in grado di governare bene.

Tutte le disposizioni sull’OPA e tutte le regole sui passaggi di proprietà delle imprese quotate corrispondono ad una esigenza analoga.

Negli ultimi anni anche in Italia si è sviluppato un ricco dibattito sui sistemi di corporate governance. Si è anche prodotta una nuova normativa (le norme Draghi) che modifica norme preesistenti e che completa l’apparato necessario per l’attribuzione e l’esercizio corretto dei poteri di governo. Mentre molti erano seriamente preoccupati dei ritardi che l’Italia aveva accumulato in questo campo e temevano che sarebbero occorsi anni per recuperare il tempo perduto, la brusca accelerazione che ha assunto il processo riformatore negli ultimi anni – anche sotto la spinta dell’avvento della moneta unica e dell’unificazione dei mercati finanziari europei – costituisce una positiva sorpresa.

Com’è noto, la nuova normativa entrata in vigore nel 1998 regola le questioni relative alle imprese quotate. Per quelle non quotate, il lavoro di revisione del sistema di governance è ancora in corso. Data la struttura del sistema produttivo italiano – dominato da piccole e medie imprese ancora lontane dai mercati azionari – c’è da augurarsi che anche questo tassello di riforma giunga a completamento nei tempi più brevi. Un insieme di regole che meglio definisca i rapporti fra azionisti e le relazioni fra questi ed il management costituisce uno strumento importante per preparare le imprese minori alla disciplina necessaria per il futuro passaggio verso il mercato azionario. Nel frattempo cominciano però ad affacciarsi spunti e suggerimenti sul governo delle imprese che vanno al di là della regolazione del rapporto fra gli azionisti ed anche oltre il problema classico della gestione del rapporto di "agenzia" fra azionisti e management. Questi nuovi spunti pongono una questione più di fondo: si interrogano se sia fondata ed attuale la riserva del potere di governo ai soli azionisti. Ed avanzano l’idea che sia giunto anche nel nostro Paese il tempo di aprire spazi nel potere decisionale ad altri soggetti costitutivi dell’impresa, quali i lavoratori. 

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