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Donne e CdA oltre i numeri
A cinque ani dalla legge Golfo-Mosca, che nel 2012 ha introdotto le quote di genere o quote rosa nella composizione dei CdA delle società quotate e partecipate, la presenza di donne nei CdA è passata dal 7 al 30 per cento. Questo risultato posiziona l’Italia ai vertici della classifica mondiale accanto a Norvegia (46,6 per cento), Francia (34) e Svezia (33,6).
Dal punto di vista dei profili, le donne consigliere in Italia sono in media più giovani degli uomini (50,9 anni contro 58,9) e meno spesso legate alla famiglia azionista di maggioranza (13,1 per cento contro il 16,9 degli uomini); inoltre hanno più di frequente una laurea (88,5 contro 84,5 per cento) e un’istruzione post-laurea (29,7 contro 16,7 per cento).
Questi dati potrebbero essere un indicatore del fatto che l’ingresso delle donne nei CdA stia favorendo l’eterogeneità dei profili e delle competenze, evitando quel meccanismo di cultural cloning che per anni ha generato consigli omologhi a se stessi a livello di composizione. Per verificare se l’ingresso delle donne dei CdA abbia contribuito a un sostanziale rinnovo del loro funzionamento, oltre alle numeriche e agli indicatori anagrafici varrebbe la pena analizzare i meccanismi di selezione attraverso cui sono state scelte le donne, approfondendo i profili di competenze di cui le stesse sono portatrici.
Affinché le quote di genere contribuiscano a un reale cambiamento, è importante verificare che non si perpetuino modelli di selezione basati su meccanismi di affiliazione e network: ovvero, se la scelta delle donne è avvenuta sulla base dei profili di competenze utili in quello specifico momento storico a quel CdA, o se le stesse donne sono state scelte perché appartenenti a un new women network così simile e omofilo a quell’old boy network, che ha bloccato nel tempo l’ingresso a chi non ne faceva parte, al di là delle competenze possedute.
La gender diversity dovrebbe servire a portare nei CdA linfa nuova: nuove competenze, nuove visioni del business, nuovi modelli di governo dell’impresa, nuovi valori.
Le analisi condotte del Diversity Management Lab della SDA Bocconi (S. Cuomo, A. Mapelli, Un posto in CdA) hanno infatti evidenziato la natura accessoria di competenze di strategia, di HR, di organizzazione del lavoro, di gestione del cambiamento, di gestione del team, di comunicazione e marketing, di CSR, sottolineando come il ruolo dei CdA sia prevalentemente legato alla compliance e poco si occupi di cosa accade dentro l’impresa e della relazione dell’impresa con la società.
Se fino a ieri il consiglio di amministrazione ha richiesto prevalentemente competenze di carattere amministrativo, finanziario, di diritto commerciale e diritto societario, quando se ne dà un’interpretazione più ampia come organismo di collegamento tra il mondo manageriale, il mondo degli azionisti e la società, una maggiore diversificazione delle competenze e dei comportamenti dei relativi membri diviene necessaria.
Per evidenziare che le quote di genere non sono solo una misura etica, ma un fatto di business e di creazione del valore, gli studi ad oggi analizzano però prevalentemente la correlazione che esiste tra presenza di donne e risultati economico-finanziari di un’impresa.
Senza addentrarci negli aspetti epistemologici correlati ai metodi di indagine, sarebbe più utile individuare ulteriori indicatori per monitorare l’efficacia di un board e il ruolo che al suo interno ha l’eterogeneità dei membri. Se ci si ferma agli indicatori economico-finanziari, non stiamo giocando la stessa partita di sempre? Ad oggi i segnali che abbiamo sembrano dirci che se qualcosa è cambiato nella composizione numerica dei membri, nulla in realtà è cambiato. Le consigliere siedono spesso in due o più CdA: ma non è questo un comportamento così criticato ai board member di sesso maschile, come sintomo di un’assunzione formale del ruolo? Come si fa a fare innovazione, a generare discontinuità nel processo decisionale, a creare un pensiero divergente in un consesso statico e ricorrente se si è seduti su più poltrone? Non è più facile, avendo meno tempo e meno energie intellettuali a disposizione, cadere nella trappola del conformismo?
Un ulteriore segnale riguarda ciò che accade dentro le imprese. Se prendiamo le indagini condotte negli ultimi cinque anni (arco temporale speculare all’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca) dal Diversity Management Lab, i risultati evidenziano in modo chiaro che le politiche, le pratiche e gli stili manageriali funzionali alla gestione della diversity della popolazione organizzativa sono considerati marginali e non vengono affrontati adeguatamente dalle imprese; che le persone denunciano una cultura discriminatoria che avvantaggia un solo profilo di identità del lavoratore (uomo, bianco, giovane, italiano, senza figli e in buona salute); e che quindi i soffitti e i labirinti di vetro non sono solo a svantaggio delle donne, ma di tutti quei lavoratori che presentano caratteristiche differenti da ciò che viene considerato come scarto dalla norma.
Infine un ultimo dato, che lascia anch’esso un buon margine di riflessione: secondo il rapporto CS Gender 3000 ad oggi non esiste alcuna correlazione tra presenza di donne nei CdA e una più elevata partecipazione femminile ai vertici aziendali.
Il raggiungimento quindi del quorum di donne previsto per legge non può essere affrontato solo dal punto di vista strettamente numerico. La presenza numerica non è di per sé la soluzione.