Articolo 3
Genere e professioni: quando si può parlare di equilibrio?
Dalla moda all’edilizia, passando per l’istruzione: quando un settore può essere considerato “equilibrato” rispetto al genere? La domanda è più complessa di quanto la narrazione attuale lasci intendere: se un discorso si cristallizza intorno a pochi concetti mal definiti si rischia di cedere all’emotività del momento e di non vedere l’intreccio delle tante dimensioni che caratterizzano questo rapporto. Destreggiarsi tra psicologia, sociologia e management, tra desideri delle persone, struttura della società e dinamiche di potere, non è una sfida semplice, ma è un passo necessario per cercare di fare davvero chiarezza.
Sabato 11 novembre, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo dal titolo “Uomini che vestono le donne: la moda sotto accusa”[1]. Nell’articolo si discute della mancanza di donne nelle posizioni di vertice delle imprese della moda, in particolare nel ruolo di direttrici creative. Non vogliamo qui occuparci dei motivi che possono spiegare questo squilibrio. Il settore della moda, tra tutti i settori, è quello caratterizzato da imprese generalmente attente ai temi della diversità anche per ragioni molto strumentali: l’immagine e il marketing sono il fulcro del loro business e, quindi, mostrare la loro inclusività può avere delle conseguenze positive sul recepimento delle loro campagne di comunicazione e dei loro prodotti. Tra l’altro nell’elenco delle imprese leader nel campo della diversità e dell’inclusione pubblicato ogni anno dal Financial Times sono presenti molte delle principali imprese del settore[2].
Dicevamo, però, che non vogliamo addentarci nel settore della moda, ma lo usiamo per ragionare sui concetti di equilibrio e di squilibrio. Quando un settore può essere considerato “equilibrato” rispetto al genere? Quando la percentuale di uomini e di donne è al 50%, quando uno dei due generi è al 60% e l’altro al 40%? Oppure 70% e 30%? Inoltre, per capire se un eventuale squilibrio dipenda da una discriminazione fatta dalle imprese dovremmo partire dalla base della piramide organizzativa, ossia dalle posizioni di ingresso in una determinata professione: quanti sono i candidati uomini e donne che fanno domanda per lavorare in una determinata impresa partendo dal “basso”? Se lo squilibro c’è già in questa fase (fase della domanda), le sue cause non dipendono solo dalle imprese, ma anche da come l’identità di una professione è stata costruita nel corso del tempo e da come le preferenze delle persone si formano.
Nel processo di costruzione di una professione giocano un ruolo anche le imprese: le professioni si agiscono nelle imprese e l’attività di comunicazione delle imprese (per esempio, il linguaggio utilizzato negli annunci di lavoro) plasma il discorso intorno alle professioni. Però, le imprese non sono le sole in questo processo. Se lo squilibrio c’è già in fase di offerta di lavoro, bisogna andare “indietro”. Comprendere come si formano le preferenze delle persone. Lo squilibrio comincia al momento della scelta dell’università? Al momento della scelta della scuola superiore? O ancora prima? Quanto contano in queste preferenze la società, le famiglie e le differenze tra le persone? È chiaro come si formino i desideri e i bisogni lavorativi? È chiaro come questi desideri e bisogni si intersechino con quelli personali, ossia quelli “liberi” dalle necessità del lavoro? E se gli uomini e/o le donne non desiderassero svolgere una determina professione? Dovremmo “forzarle”? Quale deve essere il rapporto tra “libertà” delle persone e “necessità” del sistema economico?
In base ad un’indagine realizzata dall’Osservatorio InDifesa di Terre Des Hommes tra un campione di 2000 ragazze tra i 14 e i 26 anni, emerge che per il 53.96% del campione gli stereotipi e i pregiudizi di genere limitino le passioni, le ambizioni e le scelte degli studi e della carriera lavorativa[3]. A questo proposito è interessante citare il caso delle cosiddette professioni “STEM”: da alcuni anni è in atto una campagna per aumentare il numero di donne che si iscrivono a scuole e università che preparano a queste professioni. i dati più recenti, però, non indicano ancora l’avvio di una vera e propria inversione di tendenza. In base ai dati Almalaurea del 2022, gli uomini laureati in discipline STEM sono il 59.1% e le donne laureate il 40.9%. Vedendo questi dati, però, ritorniamo alla domanda iniziale: un rapporto 60-40 è uno squilibro? Dobbiamo raggiungere il rapporto 50-50? Inoltre, nel commento a questi dati, nel rapporto Almalaurea si legge che le donne, nelle discipline STEM, hanno prestazioni, in termini di voto di laurea e di regolarità degli studi, migliori degli uomini, ma sono penalizzate dal mondo del lavoro perché hanno un tasso di occupazione e un salario più basso di quello degli uomini. In questo commento, però, ci sono alcune questioni latenti che non vengono analizzate in maniera corretta. Il riferimento al “mondo del lavoro” è generico: il tasso di occupazione dipende, da una parte, dal fatto che una persona cerchi effettivamente un lavoro e, dall’altra, che se lo cerca, venga assunta. Riguarda, quindi, le imprese e le persone. Le imprese in un contesto di carenza di figure STEM, si possono realmente permettere di discriminare le donne e di non assumerle? Le imprese stanno sbagliando le politiche di employer branding? Le loro politiche attuali tengono lontano le donne? Le donne laureate STEM scontano un conflitto tra il loro profilo attuale e quello prospettico di tipo famigliare? Cercano meno lavoro e/o un lavoro meno impegnativo, in termini di orario/responsabilità – da qui il salario più basso – perché sta ancora in capo a loro il cosiddetto fardello della cura? La retorica sulla denatalità non può essere una causa di questa percezione e scaricare sulle donne una “necessità” sociale che affonda le sue radici in una visione “tradizionale” e “conservatrice” della società? Come si può vedere, le questioni sono tante: una matassa difficile da sbrogliare.
Infine, il tema dello squilibrio di genere viene sollevato solo quando il genere “svantaggiato” è rappresentato dalle donne e con riferimento a professioni di “prestigio”. Raramente si affronta la questione dei settori a maggioranza femminile, come per esempio, l’istruzione (primaria e secondaria) in cui le donne sono l’83% del totale del corpo insegnante. La loro percentuale sale al 99% nelle scuole dell’infanzia e al 96% nelle scuole primarie[4]. L’istruzione, quindi, è dominata dalle donne. Questa egemonia che ruolo ha nel processo di costruzione degli stereotipi e dei pregiudizi di genere? Sono le donne, attraverso il loro ruolo educativo (in famiglia e a scuola), a fare da cinghia di trasmissione tra il patriarcato e le passioni, le ambizioni e le scelte delle studentesse e degli studenti? Anche questa è una questione che andrebbe affrontata. Inoltre, se si vuole sostenere una tendenza al maggior equilibrio (qualunque cosa sia questo equilibrio) tra generi nei differenti settori, bisogna non solo “maschilizzare” i settori femminili, ma anche femminilizzare i settori maschili di prestigio e non di prestigio. Per esempio, perché non leggiamo di ampie campagne per aumentare il numero di donne muratrici, vista la carenza di manodopera nel settore edilizio? Le donne che lavorano nell’edilizia sono circa il 6% (salgono al 18% quando consideriamo le posizioni dirigenziali)[5].
Siamo partiti dagli squilibri della moda e siamo arrivati a quelli dell’edilizia. L’obiettivo che speriamo di aver raggiunto è di far emergere la complessità del tema dei rapporti di genere nella società, nell’istruzione, nel mondo del lavoro e nelle imprese. Quando un tema diventa popolare e quando il discorso si cristallizza intorno a pochi concetti mal definiti si rischia di cedere all’emotività del momento e di non vedere l’intreccio delle tante dimensioni che caratterizzano questo rapporto. Non è semplice destreggiarsi tra psicologia, sociologia e management. Tra desideri delle persone, struttura della società e dinamiche di potere. Non è semplice, ma dobbiamo imparare e farlo.