Articolo 3

24/05/2023 Zenia Simonella

Classe sociale e organizzazioni: strano binomio?

Inutile negarlo: essere ricchi o poveri conta anche nei luoghi di lavoro. Quando un individuo varca la porta dell’azienda si porta dietro tutta la sua storia, compresa la sua appartenenza sociale. In base alle politiche che adottano e al clima organizzativo che costruiscono giorno per giorno, le organizzazioni possono annacquare o amplificare queste differenze, che si intersecano con altri aspetti dell’identità accrescendo o diminuendo il potenziale stigma che pesa sull’individuo.

 

È stato pubblicato da poco il nuovo numero di Economia & Management dedicato al tema della povertà[1]. Il contesto geopolitico attuale, e le sue conseguenze dal punto di vista economico (prima fra tutte, l’inflazione), ha acuito le disuguaglianze sociali e le differenze di “classe”. Metto tra virgolette il termine “classe” perché su questo tema (definizione, classificazione etc.) vi è in letteratura un ampio dibattito, che qui non riporteremo. In tale contesto, mi preme darlo per scontato per richiamare invece l’attenzione sul fatto che negli studi manageriali il concetto di “classe sociale” comincia ad avere ampio spazio di riflessione.  

 

Che influenza ha l’appartenenza di classe sul destino degli individui in un’organizzazione? In un articolo recente pubblicato sul Journal of Management[2], gli autori non hanno molti dubbi (e non c’era da averne): quando un individuo varca la porta dell’azienda si porta dietro tutta la sua storia, compresa la sua appartenenza di classe; tale individuo mostra nei piccoli gesti, goffi o meno, nei modi di vestire e di parlare, nei gusti culturali il suo habitus[3], ossia la sua posizione nello spazio sociale, che può costituire un vantaggio o meno sul luogo di lavoro. I segnali “di classe”, infatti, vengono usati e interpretati dagli altri membri di un’organizzazione per allentare o rafforzare i confini fra gruppi, attivando dinamiche di in-group e out-group.

 

La classe influenza le opportunità e le aspettative del lavoratore, il modo di interagire e di comportarsi, la maniera di interpretare i ruoli che ricopre dentro un’organizzazione. D’altro canto, l’appartenenza ad una classe sociale da parte di un lavoratore può influenzare il modo in cui vengono selezionate e valutate le sue competenze, e quindi le sue chance di sviluppo e di carriera; far parte di una classe sociale può abilitare l’individuo ad entrare o meno in reti di relazione (i famosi networks, maschili e femminili) che accelerano l’accesso a posizione di leadership (si veda per esempio il caso dei Cda[4]), generando l’esclusione di altri soggetti, magari di pari competenze.

 

La rilevanza della classe sociale era già stata rilevata da un’indagine del 2012 dell’allora Diversity Management Lab di SDA Bocconi: essa era indicata come causa di discriminazione indiretta dal 16% dei rispondenti e come causa di discriminazione diretta dal 19% dei rispondenti. Ovviamente, però, i rispondenti, in quanto insider dell’organizzazione non tenevano conto dell’esclusione dall’organizzazione in fase di selezione[5].

 

Pertanto, essere ricchi o poveri conta anche nei luoghi di lavoro. In base alle politiche che adottano (per esempio, sul bilanciamento vita privata e vita lavorativa) e al clima organizzativo che costruiscono giorno per giorno, le organizzazioni possono annacquare o amplificare queste differenze, che si intersecano con altri aspetti dell’identità (il genere, l’etnia etc.), accrescendo o diminuendo il potenziale stigma che pesa sull’individuo.

 



[2] Kish-Gephart, J. J., Moergen, K. J. N., Tilton, J. D., & Gray, B. (2023). Social Class and Work: A Review and Organizing Framework. Journal of Management49(1), 509–565. https://doi.org/10.1177/01492063221076822

[3] Bourdieu, P. (1979) La distinction. Critique sociale du Jugdment. Paris, Les editions des Minuit. 

[4] Cuomo S. Mapelli, A. Un posto in Cda. Egea. Milano.

[5] Basaglia S., Cuomo, S. Simonella Z. (2023) L’organizzazione incluisva. Egea, Milano, p. 218.

 

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