Articolo 3

29/06/2023 Stefano Basaglia

Orgoglio made in Italy

I pride – quest’anno ben 53, in altrettante città italiane – sono sempre importanti, a maggior ragione quando chi dovrebbe tutelare, valorizzare e ampliare i diritti della comunità LGBTQI+ avvia una campagna di reazione al progresso. Se queste parate eterogenee sembrano unire la parte più progressista della società e della politica, dall’altro bisogna guardarsi dalle strumentalizzazioni utilitaristiche. Perché il tema dei diritti non va guardato con le lenti del denaro e della convenienza, ma con quelle dell’etica e della giustizia.

 

Il periodo che va da maggio a giugno – con alcune estensioni fino a settembre –  è caratterizzato da molte attività (eventi, iniziative, ecc.) che riguardano la comunità LGBTQI+. In particolare, in questo periodo si svolgono, in molti paesi del mondo, le parate dell’orgoglio LGBTQI+. L’Italia è tra questi paesi.

Quest’anno si svolgono ben 53 pride in altrettante città: grandi, medie e piccole. Si tratta di parate sempre più intersezionali (ossia, vedono la partecipazione di molte soggettività LGBTQI+ e non solo) e interclassiste. Inoltre, a differenza di quanto accadeva alcuni anni fa sono sempre di più le imprese che sponsorizzano i pride e/o vedono i propri dipendenti parteciparvi con il logo aziendale (striscioni, magliette, ecc.).

Nei pride troviamo, quindi, attivisti LGBTQI+, cittadini, studenti, lavoratori, organizzazioni sindacali, università, imprese, associazioni, partiti politici. Alcune di queste parate hanno avuto il patrocinio delle Regioni (per esempio, la marcia di Napoli ha avuto quello della Regione Campania, mentre le Regione Lombardia e la Regione Lazio non lo hanno concesso) e/o dei Comuni, talvolta hanno visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni. Al pride di Roma e di Torino, per esempio, hanno partecipato i rispettivi sindaci (Roberto Gualtieri e Stefano Lo Russo). Non solo: nel capoluogo piemontese ha partecipato anche il rettore dell’Università. Tra le iniziative delle imprese, poi, ci piace ricordare TIM: il quartiere generale di Corso d’Italia, a Roma, è stato illuminato con i colori della bandiera arcobaleno. In occasione delle parate di Roma e Milano i lavoratori hanno partecipato con il logo aziendale.

I pride sono sempre importanti: dai pochi iniziali con qualche decina di partecipanti ai 53 di quest’anno, che hanno visto e vedranno ancora migliaia di partecipanti. In particolare, sono importanti quando il contesto diventa ostile, ossia quando chi dovrebbe ampliare i diritti, proteggere, tutelare, valorizzare, avvia una campagna di reazione al progresso e di restaurazione di modelli oppressivi. Basti pensare cosa sta accadendo in questi giorni alle famiglie “arcobaleno”.

Queste parate sembrano unire la parte più avanzata e progressista della società e della politica italiana. In questo interclassismo e in questa eterogenea diversità è ancora opportuno utilizzare quell’ideologia che vede la logica economica essere la logica dominante? Ossia, ha ancora senso ragionare secondo una logica basata sul concetto “va bene perché conviene”?  

È stato recentemente tradotto in italiano un libro dell’economista americana Lee Badgett dal titolo: “Economia Queer: Perché i diritti civili sono un vantaggio per tutti”. Nella descrizione del libro si legge: “Combattere le discriminazioni nei confronti delle persone Lgbt non è solo un fatto morale. È anche un fatto economico: ogni anno, infatti, l’omobitransfobia costa agli stati più di un punto percentuale del Pil. Miliardi, decine di miliardi di euro. Economia Queer ci invita a guardare alle lotte per i diritti civili e l’uguaglianza da una prospettiva inedita: quella del denaro”. No, non bisogna guardare al tema dei diritti con le lenti del denaro, dell’utilità, della convenienza. In questo campo contano solo la giustizia e la dimensione etica. “Va bene perché è giusto”: questo principio deve diventare o ri-diventare l’unico faro.

Ogni deviazione è molto pericolosa. Se discriminare non fosse conveniente, nell’ambito di un sistema capitalistico non ci sarebbe discriminazione. La discriminazione ha un costo, ma anche dei vantaggi per le imprese, ossia poter pagare meno chi è discriminato. Se questo non fosse vero, non avremmo segregazioni orizzontali e verticali, professioni maschili e femminili, professioni connotate dal punto di vista etnico-culturale, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Le imprese, da sole, non sono in grado di evitare le discriminazioni. Devono essere aiutate delle leggi e dall’etica. L’etica è un muscolo che va allenato. Troppa economia rischia di atrofizzarlo. Speriamo che prima o poi l’armamentario neoliberista possa essere mandato in soffitta. Intanto, buon Pride a tutt*!

 

Foto iStock / Aron M8

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