Articolo 3

07/04/2023 Zenia Simonella

Settimana corta: lavorare meno e in contesti piĆ¹ inclusivi

I primi esperimenti sulla settimana lavorativa di quattro giorni hanno dato risultati positivi in termini di produttività, fatturato e soddisfazione. Al di là delle difficoltà di un’applicazione generalizzata della proposta, però, restano alcuni fattori da tenere in considerazione. Sarà importante affrontare il tema nel suo complesso per permettere alle persone di recuperare davvero del tempo per sé e raggiungere un migliore equilibrio tra vita privata e lavorativa, sempre creando contesti di lavoro aperti e inclusivi.

 

In questi mesi si dibatte sul tema “settimana corta”, ossia lavorare quattro giorni a settimana su cinque, mantenendo lo stesso stipendio e lo stesso livello di produttività, secondo lo schema 100-80-100 (100% di stipendio, 80% di ore lavorate, 100% di produttività). Sono in atto sperimentazioni in Europa, e in Italia aziende come Intesa San Paolo hanno effettuato test-pilota per valutarne l’impatto. Le prime valutazioni sembrano positive in termini di produttività, fatturato e soddisfazione. Se la misura verrà implementata, sarà importante prestare attenzione ad alcuni fattori.

Innanzitutto il numero di ore lavorate non dovrà lievitare de facto nei quattro giorni, magari a causa di disorganizzazioni interne, semplicemente perché il tempo non basta per svolgere il proprio lavoro e/o perché questa misura non coinvolge tutti estensivamente, ossia funzioni della stessa azienda, aziende dello stesso settore o di settori diversi, che, per vari motivi, non possono adottare la misura. Un aspetto che, per inciso, potrebbe generare un dibattito sulle possibili disparità nei luoghi di lavoro (come in precedenza era avvenuto per lo smart working).

Sembra poi difficile l’applicazione generalizzata della nuova modalità, con una normativa che valga per tutti[1]: qui entrerà in gioco la contrattazione collettiva e il ruolo del sindacato, peraltro favorevole alla misura[2].

Lavorare più tempo nei 4 giorni o lavorare più intensamente nello stesso numero di ore potrebbe potenzialmente generare forme di stress lavorativo anche in presenza di una settimana più corta. Peraltro, gli ultimi dati presentati recentemente da una ricerca AXA sulla salute mentale[3] mostrano che il tema è sempre più rilevante: nel campione di lavoratori intervistati meno di uno su quattro (24%) si dichiara in uno stato mentale di pieno benessere (in Italia la percentuale si abbassa al 18%). Non solo: i soggetti che soffrono di più in termini di ansia, stress e depressione sono i giovani tra i 18 e i 24 anni e le donne: si tratta di persone che, da una parte, percepiscono maggiore incertezza sul futuro e dall’altra, che hanno un carico di lavoro domestico e di cura più elevato dei partner[4].

La misura della “settimana corta” è quindi benvenuta, a patto che liberi effettivamente del tempo per le persone permettendo loro di lavorare realmente di meno.

Sarebbe importante, infine, che tale misura si inserisse in un sistema di azioni di più ampio respiro.

A livello macro, agendo su mercato del lavoro (più qualità del lavoro, meno precarietà) e Stato sociale (più servizi alla genitorialità e più Sanità pubblica); a livello micro, favorendo un maggiore equilibrio di genere nella distribuzione del carico di lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia. E poi a livello meso, agendo sul contesto organizzativo: lavorare poco è importante per recuperare il tempo per sé e avere un migliore equilibrio tra vita privata e vita lavorativa, ma resta centrale che l’organizzazione sia inclusiva e non discrimini.

Come ripetiamo spesso su questo blog, infatti, un ambiente ostile ha un impatto negativo sulla salute psico-fisica del soggetto, al di là che la settimana lavorativa sia corta o lunga.

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