Articolo 3
Ma le donne possono avere tutto?
Una recente ricerca di Egon Zehnder evidenzia che 8 donne su 10 delle 179 intervistate a livello mondiale pensano di poter avere tutto: di poter allo stesso tempo essere mogli, madri, figlie e professioniste complete. Questo risultato ribadisce un motto, Have it all, che sembrava, qualche anno fa, essere diventato la parola d’ordine delle donne in carriera. Moglie sexy, madre affettuosa, lavoratrice con sindrome workaholic, amante desiderosa, amica spensierata, figlia amorevole, sorella attenta e donna. Come nel film Come fa a far tutto?, c’era però chi aveva messo in discussione l’assunto di poter fare davvero tutto, e, anzi, aveva sottolineato che ciò non è affatto possibile, dal momento che «il gioco è truccato» e così si finisce per fare tutto male e con sensi di colpa perenni. Al lavoro si sconta l’essere donna, a casa l’essere lavoratrice: per i colleghi le donne lavorano troppo poco, per le mamme casalinghe e i nonni le donne che lavorano sono genitori poco attenti.
Molti studi infatti hanno sottolineato che il contesto sociale e organizzativo, ancora intriso di pregiudizi, è gender adverse. Questi pregiudizi – definiti di secondo livello –, sono meno marcati, ma più subdoli, rendendo la carriera estremamente faticosa, e di fatto impossibile a meno che si accetti un modello culturale e di vita male-oriented: orari maschili, agende maschili, viaggi maschili, carriere maschili; quasi incompatibili con la famiglia e i figli, se non a prezzo di enormi sacrifici personali. La discussione si è quindi mossa nel capire quali sono gli ostacoli di contesto da eliminare perché le donne possano conciliare la carriera con gli altri ruoli (madre, moglie ecc.). Si pensi per esempio a tutti i servizi di work-life balance e le recenti politiche di agile working messe a disposizione dalle aziende, che vanno proprio della direzione di permettere ai lavoratori (in primis i care giver) di integrare la propria sfera privata con quella professionale. Poiché queste misure sono ancora agli albori del loro processo di istituzionalizzazione e quindi sono ancora poco diffuse nelle imprese italiane, quello che oggi molte donne sperimentano è che impossibile fare tutto a meno che si decida di essere delle «wonder women». Sembrerebbe dunque che nel contesto attuale le donne pensino di poter essere wonder woman – e quindi di poter fare tutto. Questa aspirazione è legittima se pensiamo al fatto che fino a tempi recenti le donne «sono state lasciate nell’ombra della storia» (G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1990-92); sentire e fare proprio ciò che è stato negato a livello sociale per secoli è comprensibile ed è un primo passaggio verso un cambiamento dei ruoli sociali e delle dinamiche organizzative. Rileggendo il risultato della ricerca di Egon Zehnder da un altro punto di vista, non si può nascondere che la stessa aspirazione ha un potenziale implosivo se si considera l’ecologia personale; e questo vale per donne e uomini. Freud ha definito onnipotente il disturbo di personalità correlato al desiderio di poter fare e avere tutto. Quindi il tema non è quello di poter fare tutto, ma di poter scegliere senza sentirsi discriminati, cioè cittadini organizzativi e sociali «di serie B». E le scelte non dovrebbero mai essere poste e vissute in termini dicotomici: o tutto o niente, o figli o carriera, o mamme o manager.
Per raggiungere questa condizione è necessario continuare a promuovere un cambiamento sostanziale delle regole del gioco per renderlo aperto alle donne, che sono portatrici di valori, competenze e stili di relazioni differenti. Dall’altro è ugualmente importante rafforzare il sentimento femminile di autodeterminazione per ascoltare il proprio desiderio come motore e garanzia delle proprie scelte. Ingolfare di attività il proprio tempo e la propria vita, comprimere i tempi, organizzare scientificamente la propria agenda, passare senza soluzioni di discontinuità dal tempo dell’efficienza del lavoro a quello dell’efficacia del ruolo di mamma rischia di costruire donne virago (le più dure, perché sono in poche e ce l’hanno fatta) o donne fragili e insicure (la maggioranza di coloro che non ce l’hanno fatta o che, costrette da condizioni socio-economiche, hanno dovuto scegliere una priorità). Imparare a scegliere riconoscendo cosa è importante per noi, senza essere condizionate dai pregiudizi sociali, è dunque la sfida attuale.