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Le identità (non più) nascoste in azienda
I risultati delle indagini realizzate dal Diversity Management Lab di SDA Bocconi School of Management mettono in evidenza che la diversità, le identità, lo stigma sono elementi rilevanti delle organizzazioni: chiunque osi deviare dal prototipo del «lavoratore ideale» (maschio-bianco-né troppo giovane né troppo vecchio-eterosessuale-in buona salute-ecc.) rischia di essere penalizzato in qualche momento della propria vita organizzativa (l’assunzione, la carriera), a meno che la propria identità non venga camuffata, nascosta, o «neutralizzata».
Di fronte a questi temi, il discorso organizzativo tende a difendersi eludendo la questione e orientando il dibattito su aspetti, tendenzialmente legati alla performance economica-finanziaria, ritenuti più centrali. L’esperienza, divenuta virale, di Martin Schneider e Nicole Hallberg, entrambi impiegati nello stesso ruolo in un’agenzia interinale, ci guida a toccare con mano la discriminazione.
Martin era consapevole di avere una buona considerazione da parte dei colleghi e del suo capo, mentre era a conoscenza che la considerazione riservata a Nicole era più debole e incerta. Il loro capo spesso la riteneva inadeguata e poco preparata sul lavoro, senza sottrarsi a battute inopportune. Un giorno Martin iniziò a ricevere risposte scortesi da un cliente via email, accorgendosi solo in un secondo momento che stava rispondendo, all’interno della casella di posta condivisa, dall’account di Nicole. Decise così di assumere virtualmente l’identità di Nicole per una settimana e di lavorare quindi utilizzando la sua firma ed il suo nome. Martin non poté fare a meno di constatare come il comportamento di clienti sempre gentili con lui mutasse nei confronti di Nicole. Le risposte dei clienti erano arroganti, poco rispettose; qualsiasi cosa Nicole (cioè Martin) proponesse veniva immediatamente criticata. Contemporaneamente Nicole, assumendo l’identità di Martin, riscontrò risposte gentili e clienti disponibili. Si rivolsero così al proprio responsabile che non prestò ascolto alla loro storia, ignorando quindi l’impatto che il tema della discriminazione ha sul commitment, sull’identificazione, e quindi sulla motivazione dei lavoratori. Dal momento che il responsabile non fece nulla per fermare questa dinamica nella sua azienda, i due ragazzi decisero infine di licenziarsi. Scrive Nicole, attualmente di professione blogger. «Ora, finalmente, posso abbassare le mie difese al lavoro».
Questo caso testimonia che l’identità individuale, cioè l’essere uomo o donna, madre o single, giovane o anziano, italiano o straniero, eterosessuale o omosessuale, in buona salute o disabile ecc., impatta sulla reputazione professionale, a prescindere dalle competenze possedute e dalla performance erogata individualmente. Ad alcune identità è riservato un trattamento privilegiato; alcune identità sono più desiderabili di altre; alcune identità hanno accesso al potere e altre no. Prendere in considerazione questo tema significherebbe rendere opinabili le scelte organizzative prese dal gruppo dominante nei confronti dei lavoratori; chi gestisce il potere, per lo più inconsapevolmente, associa alla propria identità un maggior valore tendendo a perpetuarla nel tempo attraverso dinamiche conformiste di affiliazione e omofilia[1].
Poiché la discriminazione tocca proprio quella dimensione emotiva e valoriale dell’individuo che si preferisci tenere fuori dai confini dell’impresa, di fronte a tematiche (dati e fatti) di discriminazione, si argomenta dicendo che i problemi importanti sono altri. Difficile però individuare problemi più profondi di quelli che attengono a ciò che siamo e al modo in cui ci definiamo e veniamo definiti. Soprattutto perché nelle carte dei valori delle imprese si cita sempre: «People first».
[1] R.M. Kanter, «Some Effects of Proportions on Group Life: Skewed Sex Ratios and Responses to Token Women», American Journal of Sociology, 82(5), 1977, pp. 965-90; P. Essed, Everyday Racism: Reports from Women of Two Cultures, Hunter House Publishers, 1990.