Articolo 3
Quando cambia il contesto
In un contesto generale chiuso o avverso al tema della diversità e inclusione le organizzazioni potrebbero trovare la strada in salita, e potrebbe diventare insidioso e controproducente segnalare i progressi in questo campo, soprattutto se operano localmente. Allo stesso tempo, la storia del diversity management ci ricorda ci sono state organizzazioni che hanno concesso benefici e opportunità ai propri dipendenti, andando oltre il contesto nel quale operavano. Le organizzazioni più virtuose potrebbero dunque usare la loro libertà di azione per costruire un ambiente lavorativo aperto e inclusivo, almeno al loro interno, arginando le possibili tensioni derivanti dal contesto generale.
A fine settembre si è svolta in diverse città italiane una manifestazione organizzata da «Non una di meno» in difesa della Legge 194 («Per un aborto libero, sicuro e gratuito», recitava uno degli slogan[1]), e, più in generale, della libertà delle donne. La manifestazione sottolinea una preoccupazione diffusa in una parte della società civile sorta in concomitanza delle elezioni che vedono Giorgia Meloni la futura premier del governo: il rischio paventato è una stretta sui diritti civili e un cambio di atteggiamento (a livello Paese) nei confronti delle donne, della comunità LGBTIQ+, dei migranti e di altre minoranze.
Che cosa può accadere quando cambia il contesto generale nel quale le organizzazioni operano?
Il contesto può influenzare il grado di apertura e il clima per l’inclusione nelle organizzazioni e può favorire o inibire l’adozione di politiche e pratiche orientate alla diversità. Quando il clima diventa (più) ostile, anche in seguito a mutamenti del contesto (non per forza attraverso un cambio del quadro normativo), possono insorgere o acuirsi tensioni, conflitti, e forme di (micro)aggressività; allo stesso tempo, potrebbe diventare più impegnativo avviare o proseguire un percorso sui temi dell’inclusione; infatti, un percorso di questo genere potrebbe essere in contrasto con il contesto politico-sociale e potrebbe diventare insidioso e controproducente per l’impresa segnalare i progressi in questo campo come valore identitario e reputazionale. Ciò potrebbe riguardare soprattutto quelle organizzazioni che hanno un’identità e una leadership più radicata nel territorio e nella cultura del nostro Paese.
La storia del diversity management ci ricorda che, anche in presenza di un contesto ambiguo o sfavorevole, ci sono state organizzazioni che, per visione aziendale, di singole persone o perché favorite da headquarter diversi dal Paese di origine, hanno concesso benefici e opportunità ai propri dipendenti, andando oltre il contesto nel quale operavano, in certi casi anticipando e favorendo l’adozione di leggi: una copertura (più ampia) della retribuzione per il congedo di maternità obbligatoria, flessibilità di orario e costruzione di politiche di smart working ante litteram, riconoscimento di pari diritti alle coppie omosessuali anche in assenza di leggi specifiche.
La proattività aziendale in campo sociale ha origine nel concetto di responsabilità sociale d’impresa (o Corporate Social Responsability - CSR), nato negli Stati Uniti negli anni Quaranta come atto da parte delle imprese[2] che, per evitare «i lacci e i lacciuoli» di uno Stato potenzialmente invadente, cominciarono a definire il loro raggio di azione in campo sociale. La responsabilità sociale d’impresa diventa un’assunzione di responsabilità proattiva e volontaria per affermare la propria libertà di azione, cercando di evitare derive socialiste derivanti da un intervento dello Stato nel mercato. Nel tempo la CSR è stata interpretata come una leva di business che potesse generare benefici per la collettività, ma, come dichiarato dagli stessi soggetti precursori in questo campo[3], i risultati raggiunti nel campo sociale e ambientale sono stati discutibili (perché poco efficaci o di facciata). Oggi c’è una formalizzazione del tema sotto forma di ESG[4], che sta forzando le imprese ad adottare comportamenti più sostenibili, con tutti i vantaggi e i problemi insiti nell’adozione di strumenti di monitoraggio complessi (burocratizzazione, formalizzazione ecc.). Tuttavia, anche negli ESG una riflessione seria sul tema della «diversità e inclusione” è di là da venire.
Pertanto, in un contesto che può potenzialmente mutare a sfavore dei soggetti storicamente esclusi che faticosamente hanno conquistato alcuni diritti, e in cui il tema «diversità e inclusione» è ancora poco presidiato a livello paese[5], la «strada per l’inclusione» potrebbe essere ancora più in salita. Resterebbe l’impegno di quelle organizzazioni che, singolarmente, continuerebbero a costruire (o deciderebbero di avviare un lavoro per la costruzione di) un ambiente lavorativo inclusivo, cercando di arginare le possibili tensioni derivanti da un contesto in mutamento. Forse non basta, ma sarebbe comunque un segnale importante.
[2] Si veda L. Morri, Storia e teorie della responsabilità sociale d’impresa. Un profilo interpretativo, Milano, FrancoAngeli, 2009.
[3] Si vedano le riflessioni di F. Perretti, «Le imprese (ir)responsabili», Economia&Management, 1-2021.
[4] Si veda per esempio F. Perrini, A. Iantosca, «I rating ESG: amarli o odiarli?», Economia&Management, 1-2021.
[5] Si veda la ricerca ISTAT, «Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ (in unione civile o già in unione). Anni 2020-2021», 24 marzo 2022.