Articolo 3

18/01/2021 Zenia Simonella

Essere accolti InGalera: storie di inclusione

Silvia Polleri, imprenditrice e fondatrice della cooperativa Catering ABC - La Sapienza in Tavola e del ristorante InGalera, racconta la sua esperienza nel carcere di Bollate e l’importanza della formazione e del lavoro per il reinserimento dei detenuti in società.  


Partiamo dalla sua storia. È un’imprenditrice, con una formazione da puericultrice. Come è arrivata a lavorare nel e per il carcere di Bollate?

Ho fatto per oltre due decenni l’educatrice di scuola materna nelle scuole dell’hinterland milanese, una zona con grosse sacche di degrado. In quello stesso periodo, assieme a mio marito che è medico, ho fatto il servizio civile in Uganda occupandomi di puericultura. Dopo ventidue anni di servizio, ho deciso di interrompere per esigenze familiari e di trasformare in professione l’hobby della mia vita: cucinare, una passione che coltivo dall’età di dodici anni.

Inizialmente aprii un piccolo catering con il quale coccolavo la buona borghesia milanese. Poi lo chiusi a causa di una patologia che avevo in quel momento. Due anni dopo, era il settembre del 2004, fui contattata da Lucia Castellano, prima direttrice del carcere di Bollate. Lei aveva assaggiato il mio catering per caso, a casa di amici notai. Si era messa in testa, su richiesta di alcuni detenuti, di aprire un catering all’interno del penitenziario, ma ci voleva qualcuno di esterno. Voleva dare un vero lavoro ai detenuti. Ci incontrammo. Io mi sono sempre occupata di sociale, ma mai di carcere: la richiesta mi interessava, però le dissi: «Se accetto desidero che questa sia una vera professione per i detenuti». Ai tempi si facevano fare i cestini intrecciati, tanto per tenerli impegnati. Le dissi inoltre che se in un anno non fossimo riusciti a inserirci nel mercato avremmo chiuso. Invece è stato un boom.

Ho cominciato a conoscere i detenuti. All’inizio eravamo cinque detenuti e cinque esterni. In questa prima fase, i cinque detenuti erano quelli che avevano chiesto di avviare il catering alla direttrice. Loro avevano fatto dei corsi di cucina prima dell’arresto, quindi erano molto motivati. Erano tutte persone che non avevano beneficiato dalla misura alternativa prevista dalla Legge Gozzini del 1986[1]. Alcuni erano lì da più di 10 anni. Nessuno di loro sapeva dell’esistenza delle ciliegie di mozzarella. Bisognò svecchiare le loro ricette. Dopo un anno, Catering ABC - La Sapienza in Tavola esplose e fummo subissati dalle richieste.

Nei primi tempi mi accorsi che la ristorazione, per le modalità con cui va svolta, è una di quelle professioni che ti obbliga al rispetto di regole ferree. I ruoli in cucina si rifanno alle brigate della marina militare. Per un detenuto che non ha rispettato le regole della società è un’opportunità perché deve impegnarsi a seguirle in maniera rigida, ma svolgendo una professione piena di creatività e piacevolezza. E poi c’è l’elemento dell’accoglienza dell’ospite. Accogliere l’ospite mette in gioco valori altissimi: l’educazione, il rispetto, la gentilezza.

A quel punto ho fatto letteralmente il diavolo a quattro per collaborare con l’istituto alberghiero di Quarto Oggiaro, in modo da riuscire a formare i detenuti. All’inizio il Ministero ci ha detto che non lo riteneva utile. Pensai: «Se riesco a raccogliere dei fondi, si può fare il primo anno da privatisti». Per mia fortuna ho trovato una Milano generosa. Alla fine, il Ministero ha dovuto riconoscerne il valore e da lì è iniziato il percorso. Abbiamo avuto due tornate di maturità, il che è straordinario.

 

Nel suo intervento su TED «Voices From Jail: The Humanity You Won’t Expect», la direttrice del carcere di Bollate Cosima Buccoliero parla del rapporto tra città e carcere, descrivendo questi due elementi come entità separate. Il carcere è spesso geograficamente isolato dal contesto urbano e i cittadini non conoscono la vita delle persone che vi ruotano intorno. Lei come vede questo rapporto?

Nel mio percorso mi sono resa conto di questo: i detenuti incontravano con grande meraviglia ciò che si trovava all’esterno, consapevoli dello stigma che la società impone loro, indipendentemente dal fatto di essere stati in carcere un anno o venti. La società ha paura. Per questo vuole rimuovere il carcere. Non lo vuole riconoscere come parte di sé. Non ne sa nulla. Pensa che i detenuti siano un male da cancellare.

La ristorazione ha un grande valore, perché coinvolge i vari sensi che sono fonte di conoscenza. Allora abbiamo deciso di coinvolgere noi la società esterna: «Non ti chiedo di accogliere me, detenuto; ti dico: entra tu dentro, guarda e rifletti. Ti facciamo vedere di cosa siamo capaci». Nel 2015 abbiamo aperto InGalera, il primo e unico ristorante in Italia realizzato in un carcere e aperto al pubblico. Per scelta è un ristorante raffinato. Quando è venuto anche il New York Times ho capito che l’effetto sarebbe stato dirompente. Ho battagliato per avere il nome InGalera: paga dire la verità, anche se in maniera violenta.

 

Una volta entrato nel carcere, il detenuto «sospende la sua vita». Cosa succede quando esce dal carcere e con quale stigma deve fare i conti?

Quando il detenuto viene arrestato, gli viene bloccata la vita, viene staccato dal mondo. Se fuori aveva una professione, nel suo CV rimane un buco e insieme una mancanza di aggiornamento. Se poi non ha la cultura del lavoro peggio ancora. La funzione del carcere è offrire opportunità di lavoro e formazione. Ecco perché ho voluto favorire l’ingresso di una scuola alberghiera. Se in quegli anni di carcere il detenuto non fa nulla, sarà molto difficile che potrà reinserirsi nella società e nel mondo del lavoro.

Nel nostro percorso, noi avevamo 15 detenuti assunti prima dello scoppio della pandemia, con tutta la previdenza garantita. Quando scontano la loro pena, io non li licenzio, soprattutto se vivono geograficamente vicino. Adesso siamo tutti fermi, ma appena potremo riaprire, verranno riassunti.

 

Parliamo del carcere di Bollate. Come lo descriverebbe? Chi sono le persone che lo abitano? Quali reati hanno commesso i detenuti che si trovano lì?

Ci sono detenuti con reati di tutti i tipi, anche molti ergastolani, eccetto detenuti per mafia.

Dal 2009 c’è un reparto dei cosiddetti sex offender cioè persone che hanno commesso reati sessuali (presso questo reparto viene messa in atto una terapia psicoterapica che ha dimostrato negli anni la riduzione della recidiva anche per questo tipo di reati).

Io ho lavorato con tutti i detenuti di Bollate (quelli con cui l’équipe di osservazione mi consentiva di farlo), anche con molte persone che hanno commesso omicidi. Dagli Stati Uniti sono venuti diversi osservatori a studiare il nostro modello; alcuni di loro hanno detto: «Ma voi vi fidate? Con i coltelli in cucina!». Le carceri negli USA sono punitive e retrograde.

 

Secondo una ricerca condotta da due ricercatori dell’Università di Essex, più i detenuti sono inseriti in programmi di riabilitazione, più probabile è la diminuzione della recidiva. In quali attività e progetti vengono coinvolti i detenuti e quali risultati sono stati raggiunti?

I programmi di riabilitazione offrono opportunità, anche se da parte del detenuto ci vuole la volontà di sfruttarle. Ci sono persone che mi chiamano ancora oggi. Mi dicono: «Lei mi ha cambiato la vita». Il carcere di Bollate è un istituto penitenziario dove si cerca di applicare l’Art. 27 della Costituzione in cui si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

Il problema delle carceri in Italia è il sovraffollamento. Ma cosa significa davvero sovraffollamento? Significa che non solo non c’è uno spazio fisico adeguato per tutti, ma neanche uno simbolico, non c’è lo spazio per la vittima, ossia per la riflessione personale. Il sovraffollamento fa sì che il detenuto si concentri sull’ingiustizia che sta subendo in quel momento e non possa avviare quel processo di autocoscienza necessario per ripensare quanto fatto in passato (viene definita “revisione del proprio reato”).  

 

Con la Legge Smuraglia del 2000, qualsiasi azienda che assuma un detenuto può usufruire di alcune detrazioni. Come si comportano le aziende su questo fronte?

Questa legge spesso è sconosciuta. Persino alcuni commercialisti non ne sanno nulla. Infatti, in passato abbiamo fatto degli incontri per farla conoscere. E poi c’è il timore che l’inserimento di detenuti porti a maggiori controlli. Infine, le aziende hanno paura.

 

Che consiglio darebbe alle aziende che sono reticenti ad assumere un ex detenuto?

Abbiamo iniziato la sensibilizzazione nelle scuole superiori: gli studenti fanno una visita guidata nel carcere accompagnati da un educatore e da un detenuto preposto a ciò, e poi si fermano al ristorante. È una contaminazione tra interno ed esterno. Al ristorante facciamo anche cene a tema dal titolo «Ti racconto il carcere»: poliziotti, educatori, detenuti raccontano il loro vissuto. Lo facciamo anche con le aziende attive sul fronte della Corporate Social Responsibility (CSR): con quelle interessate organizziamo un programma della giornata facendole entrare nella parte detentiva e facendole interfacciare con le diverse aziende che abbiamo all’interno in cui lavorano i detenuti. In questo modo conoscono e viene spiegata dai detenuti stessi la vita del carcere.

Bisogna far conoscere alla società ciò che produce il carcere: il carcere è parte della società. Oltre alle aziende e alle cooperative (come la nostra) nate all’interno, prima della pandemia nel carcere di Bollate vi erano detenuti in esecuzione di pena, ammessi al lavoro interno e duecentocinquanta al lavoro esterno presso aziende. L’obiettivo è sempre quello: dare maggiori opportunità che favoriscano il reinserimento in previsione del fine pena, un servizio importante verso la persona e la società stessa perché la riduzione di recidiva è una grande conquista per tutti.



[1] Cercando di valorizzare l’aspetto rieducativo della carcerazione rispetto a quello punitivo, la Legge 10 ottobre 1986, n. 663 introdusse una serie di misure alternative al carcere tra cui: permessi premio come l’affidamento ai servizi sociali e la detenzione domiciliare.


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