Articolo 3
La fiducia alla base del lavoro agile
Il rapporto tra impresa e lavoratori dovrà sempre di più fondarsi sulla fiducia. I leader dovranno abbandonare il loro vecchio stile dirigenziale passando a uno che privilegi la collaborazione, il coinvolgimento attivo, l’autonomia e la responsabilità dell’individuo nel raggiungimento degli obiettivi. In quest’ottica, la comunicazione diventa centrale per evitare di perdere il contatto con i collaboratori in remoto e di creare isolamento.
«Oltre ad allentare la pressione per la conciliazione del tempo vita-lavoro, lo smart working favorisce il riconoscimento della fiducia da parte del datore di lavoro, ossia la consapevolezza che si stia facendo un investimento sulla persona, sulle sue capacità di portare a casa il risultato; non conta più solo il tempo che si trascorre in ufficio»[1].
Abbiamo visto nei blog precedenti[2] come il lavoro agile, così come lo stiamo vivendo, non è quello che è stato sostenuto dai promotori della legge prima del 2017. Lo ha anche sottolineato qualche giorno fa Susanna Camusso definendolo «lavoro fordista dentro le mura di casa»[3].
Lo spirito originario del lavoro agile, una pratica da integrare opportunamente con il lavoro tradizionale, era di ampliare gli strumenti a disposizione del lavoratore, che dovrebbe essere messo al centro dell’organizzazione. Infatti, la flessibilità spazio-temporale che caratterizza il lavoro agile («lavorare in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo») è solo l’aspetto più visibile di questa pratica, nato dalla necessità di ascoltare e di prendere in carico l’identità del lavoratore e della lavoratrice e dei suoi bisogni.
A fronte di una de-materializzazione dell’attività lavorativa, il nuovo contratto psicologico tra impresa e lavoratori, sotteso all’adozione di questa pratica, dovrà essere basato sulla fiducia e il modello di leadership dovrà essere costruito su questo presupposto. Da uno stile direttivo, con flussi top-down delle informazioni e modalità di gestione legate al comando e al controllo spazio-temporale sull’operato della persona, si passa a uno stile che privilegia la collaborazione, il coinvolgimento attivo, l’autonomia e la responsabilità dell’individuo nel raggiungimento degli obiettivi. Per costruire questo modello si può trarre spunto da quei modelli di leadership, ormai consolidati in letteratura, che pongono l’accento sull’intelligenza emotiva, l’autenticità e la trasparenza del leader, e sull’idea che il leader sia un coach orientato allo sviluppo delle persone. Pertanto, la diffusione di tecnologie che favoriscono la collaborazione, le connessioni veloci e le competenze digitali, non sono sufficienti a diffondere correttamente questa pratica. È necessario lavorare sulla cultura e sulla relazione capo-collaboratore.
Viene meno, infatti, quel «lavorare gomito a gomito», negli stessi spazi, tutti i giorni, per 8 ore consecutive. Se, quando si lavora in modalità agile, le attività devono essere organizzate guardando agli obiettivi da raggiungere, da definire in maniera chiara e condivisa, stabilendo priorità e pianificando porzioni di tempo dedicate a ciascun punto all’ordine del giorno, allora bisognerà anche rivedere il ruolo del capo: in particolare, dovrà lavorare sui processi di feedback, favorire la partecipazione di ogni dipendente e vigilare sulla tenuta del gruppo di lavoro. La tecnologia dà la possibilità di offrire riscontri immediati, abbattendo il rischio di dimenticanze, sovrapposizioni, sospensioni di temi da affrontare. Se il ripensamento in ottica agile del rapporto con il proprio gruppo parte da una revisione dei processi di lavoro, anche di quelli più routinari, dall’altro, per evitare un’azione manageriale distante, fredda e quindi non motivante, è necessario creare delle routine: per esempio, prevedere dei check point per fare il punto con il collaboratore e sostenerlo in corso d’opera. La comunicazione diventa centrale per evitare di perdere il contatto con i collaboratori in remoto e di creare isolamento.
Rispetto a questa direzione di cambiamento culturale, le preoccupazioni più diffuse, emerse anche nell’indagine globale Remote Leadership Survey condotta su 225 manager che gestiscono gruppi in parte in remoto[4], sono legate al tema del controllo: «Che cosa staranno facendo le persone?», «Dove saranno? », «Avranno capito il mio messaggio? », «Rispetteranno i tempi? ».
Da questa indagine emerge la richiesta di trovare strumenti di valutazione della prestazione che, in un contesto mutato, garantiscano al capo il controllo (ossessivo e continuo) dell’operato del lavoratore, per sopperire alla sua assenza sul luogo di lavoro. Infatti, benché oltre la metà dichiari che il lavoro sia portato a termine, e un ulteriore 28 per cento definisca il proprio gruppo come altamente produttivo, i manager intervistati ammettono di avere qualche difficoltà a gestire lavoratori in modalità agile: emerge sia il desiderio di controllare le attività del collaboratore, non fidandosi completamente, sia la poca dimestichezza con i nuovi strumenti digitali, che li fa sentire inadeguati aumentando il livello di stress e di controllo, generando un circolo vizioso. Anche ai tempi del lockdown per molte organizzazioni la principale barriera alla diffusione del lavoro agile è legata alla cultura del controllo, così come ci riportano i commenti dei lavoratori che hanno partecipato all’evento MINE «Smart working: stiamo davvero lavorando agilmente?» organizzato da SDA Bocconi School of Management lo scorso 6 aprile 2020.
«Mi relaziono di frequente con il tipico manager vecchio stampo che vuole il controllo della persona».
«Non ritenete che attraverso lo smart working si potrà meglio comprendere chi tra le varie risorse occupate sappia lavorare con autodisciplina, metodo e in team seppur da remoto?”
«A mio avviso si rende necessario implementare strumenti per i capi al fine di rafforzare il cambiamento culturale e far sì che il lavoro agile possa essere considerato una grande opportunità».
«Ritengo che i vincoli posti alla diffusione del lavoro agile verranno abbandonati progressivamente all’aumentare del numero di millenial in azienda; un approccio culturale basato sulla ricerca di flessibilità e di coinvolgimento del lavoratore porterà a ripensare i modelli attuali».
«Chi riesce ad apprezzarlo e a trarne vantaggi, sia dal lato del manager sia da quello del lavoratore, capisce che la situazione migliore è quella basata sulla fiducia e la responsabilità professionale».
[1] Commento rilasciato durante l’evento MINE «Smart working: stiamo davvero lavorando agilmente?» organizzato da SDA Bocconi School of Management lo scorso 6 aprile 2020.
[2] «Perché, proprio ora, è necessario riflettere sull’identità», E&M Plus, 21 aprile 2020; «Per favore, non chiamiamolo “smart working”», E&M Plus, 29 aprile 2020.
[3] «Smart working? La Cgil: “Così è lavoro fordista dentro le mura di casa. Va regolato con i contratti”», La Repubblica, 18 maggio 2020.
[4] K. Eikenberry, W. Turme, The Long Distance Leader, Soundview Executive Book Summaries, 2018.