E&M
2019/3
Indice
Editoriale
Dossier: capitale (troppo) umano
Dossier: lo scenario
Dieci anni di mutamenti per il mondo del lavoro
Luci e ombre della gig economy
Dossier: recruiting e selezione
La selezione tra meritocrazia e disuguaglianze
Dossier: carriera
Fare carriera in Italia: vecchi percorsi, nuove tensioni
Dossier: istituzioni e rappresentanza
Visual readings
Servizi finanziari
Speciale 30 Anni di Economia & Management
Sui disastri la campana suona per tutti
Il punto non è trovare un singolo colpevole, ma far sì che ciascuno abbia presente il proprio ruolo
Ogni volta che si verificano disastri o incidenti riconducibili ad attività umane seguono inevitabilmente alcune domande: perché si è verificato l’incidente? Di chi è la responsabilità? Che cosa si deve fare affinché non si ripeta? Due eventi recenti hanno riportato l’attenzione su questi interrogativi e ci invitano ad alcune riflessioni. Procediamo con ordine.
Il primo riguarda i due disastri aerei – prima in Indonesia (29 ottobre 2018) e poi in Etiopia (10 marzo 2019) – che hanno coinvolto il colosso americano Boeing e il suo modello 737 Max 8. In seguito a questi incidenti molti Paesi e linee aeree hanno deciso di vietare e sospendere l’utilizzo di tale aeromobile e, in diversi casi, di cancellare gli ordini di acquisto esistenti. Boeing ha subìto, sia in termini economici sia di reputazione, conseguenze negative. Per le 346 vittime dei due disastri e per le loro famiglie si è trattato sicuramente di una tragedia. Di chi è la colpa? Non rientra sicuramente nel nostro ruolo, né tantomeno nelle nostre capacità, rispondere a tale domanda. Nel caso specifico, le attenzioni e le «accuse» sono state rivolte non a eventuali errori da parte dei piloti, ma a errori di progettazione del software di volo e dei relativi sensori. Le diverse commissioni di inchiesta accerteranno in futuro le responsabilità di ciascuno. Quello che per noi è interessante comprendere è invece il contesto entro il quale gli eventuali errori che hanno condotto a questi incidenti si sono verificati.
Diverse inchieste giornalistiche hanno evidenziato come l’intero progetto 737 Max di Boeing sia avvenuto in un contesto esterno di intensa concorrenza con il rivale Airbus e come questo abbia generato un clima organizzativo interno di estrema pressione al conseguimento degli obiettivi[1]. Quando, nel 2011, Boeing apprende che American Airlines, suo cliente esclusivo, intende effettuare un ordine per centinaia di nuovi aerei a basso consumo di carburante prodotti dalla rivale Airbus, cerca di reagire. Invece di costruire un nuovo modello (cosa che avrebbe richiesto circa una decina d’anni), l’azienda statunitense decide di aggiornare il modello 737 esistente, cercando di limitare le modifiche rispetto alle precedenti versioni così da evitare alle compagnie aeree di spendere milioni di dollari per una formazione aggiuntiva dei piloti.
Il progetto 737 Max prenderà avvio in breve tempo e il primo aeromobile verrà consegnato in cinque anni. Nel tentativo di recuperare il ritardo con Airbus, il ritmo di lavoro sul 737 Max – in base alle testimonianze raccolte presso i dipendenti attuali o passati di Boeing – si fa frenetico. Di fronte a scadenze molto strette e a budget più contenuti e vincolanti, agli ingegneri viene richiesto di presentare progetti e disegni tecnici in tempi estremamente ridotti (circa la metà) rispetto ai ritmi lavorativi normali; quando qualcuno di questi abbandona il progetto, i manager sono costretti a rimpiazzarli velocemente con altro personale proveniente da altri reparti.
Molte persone coinvolte nella costruzione, test e approvazione del sistema software hanno descritto un approccio a compartimenti stagni, ognuno dei quali si concentrava su una piccola parte dell’aereo. Il processo li lasciava così senza una visione più ampia e, sulla base di tali informazioni incomplete e di ipotesi errate, molti finivano per prendere decisioni critiche, e in definitiva pericolose, influenzando la progettazione, la certificazione e la formazione.
I pubblici ministeri e le autorità di regolamentazione stanno valutando se lo sforzo di progettare, produrre e certificare il modello 737 Max sia stato affrettato, inducendo Boeing a sottovalutare rischi cruciali per la sicurezza e la necessità di un nuovo addestramento per i piloti. Si tratterebbe in questo caso di errori in parte connaturati alla complessità del progetto, a cui si sommano le decisioni di architettura organizzativa determinate da condizioni di rivalità esterna e di fortissime pressioni competitive sui tempi e sui costi. Un mix altamente pericoloso che si sarebbe poi dimostrato una vera e propria bomba destinata a esplodere.
Secondo alcune inchieste giornalistiche non si tratterebbe però solo di un contesto organizzativo progettato non correttamente, in cui il personale, pur se sottoposto a pressioni più intense, non ha cioè percezione di commettere errori. In diversi casi si sono avute testimonianze di manager che hanno dichiarato di essere stati spinti a coprire i ritardi e di dipendenti che sono stati oggetto di ritorsioni per aver segnalato problemi o violazioni. In questo caso non si tratterebbe quindi di un sistema che è inconsapevole dei propri limiti e dei propri errori, bensì di un sistema che decide pericolosamente di coprirli[2].
E qui veniamo al secondo evento, cui accennavo all’inizio: la recente miniserie televisiva Chernobyl, prodotta da HBO e Sky e acclamatissima dalla critica. La serie televisiva racconta i fatti drammatici dell’esplosione nucleare di Chernobyl nell’aprile 1986, del disastro che ne è conseguito e dei tentavi di coprire o minimizzare le informazioni sull’incidente. Nonostante le evidenti differenze – ci troviamo nell’Unione Sovietica comunista e non nel sistema capitalistico americano, all’interno di una centrale nucleare dello Stato e non in un’impresa che compete su un mercato globale – i contesti e le dinamiche organizzative presentano molte analogie. Nell’ultima puntata della serie, quella in cui si cerca di far luce sulla catena di errori che ha provocato l’incidente, si evidenzia come, in un contesto di rivalità tra due potenze mondiali, la pressione ad adottare un modello di reattore (con finalità anche militari) più economico, ma anche molto meno sicuro, unita alla necessità di rispettare tempi stretti di consegna e collaudo – cui si collegano, a cascata, le prospettive di carriera di diverse persone – abbiano creato le condizioni per il disastro che si è verificato.
In entrambi i casi ci troviamo cioè di fronte a sistemi che, oltre a essere sottoposti a intense pressioni esterne, sono caratterizzati da dinamiche interne di potere – anche invisibili – altrettanto gerarchiche e coercitive. Le organizzazioni infatti, per quanto aperte, non sono mai semplicemente dei sistemi tecnici di coordinamento delle attività. Sono sempre «burocrazie» in senso weberiano, ovvero sistemi di potere, di privilegio e di dominio[3], ma non necessariamente di responsabilità. Gradazioni e intensità diverse esistono certamente, ma non ne cambiano la natura di fondo.
Chi è quindi il responsabile di questi disastri? Sono le imprese o le organizzazioni che, come ha evidenziato Diane Vaughan nel suo studio sull’esplosione del Challenger[4], sono contraddistinte dalla cosiddetta «normalizzazione della devianza», ovvero una cultura che, se adottata, spinge quasi inconsapevolmente ad assumere comportamenti e pratiche sempre più rischiosi verso una deriva catastrofica? O sono invece i soggetti esterni – i clienti o i concorrenti rivali – che obbligano di fatto le imprese all’adozione di tali comportamenti devianti? O ancora, forse sono entrambi e quindi «tutti», il che equivale a dire «nessuno» come nel famoso romanzo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani (nell’originale inglese And Then There Were None), in cui tutti i possibili sospetti muoiono e nessuno sembra colpevole?
Il punto non è trovare un singolo colpevole, ma far sì che ciascun soggetto abbia presente il proprio ruolo e le responsabilità sociali e morali delle scelte che ne conseguono. In molti casi non è cosa semplice. Spesso dietro a esiti tragici vi è anche la cosiddetta «banalità del male» che Hannah Arendt ha descritto nel caso della Shoah e che studiosi di management hanno osservato nel caso delle imprese[5]. Vi sono cioè anche decisioni da parte di persone in buona fede, inconsapevoli del significato delle proprie azioni. Ricordarcelo è importante, così come è importante nelle organizzazioni dare, a tutti coloro che vedono un problema, la possibilità di alzare le mani, di fare un fischio, di lanciare l’allarme e, se necessario, anche di fermare l’intero processo. Ma questo richiede coraggio, non solo da parte dei singoli individui, ma soprattutto da parte delle imprese.
In una scena, sempre tratta da Chernobyl, i due protagonisti responsabili di risolvere l’emergenza devono cercare tre volontari per una missione molto rischiosa, potenzialmente suicida: entrare in un ambiente altamente radioattivo, vicino al reattore esploso, per aprire alcune valvole in modo da impedire un disastro ancora più grave. Uno dei due responsabili – lo scienziato – nel descrivere la situazione a un gruppo di tecnici e operai, fa presente che ciascun volontario riceverà uno stipendio annuale molto elevato e avanzamenti di carriera. Di fronte alle perplessità del gruppo, l’altro responsabile – il politico – interviene dicendo che i volontari lo faranno semplicemente perché deve essere fatto, altrimenti milioni di persone moriranno e perché nessuno può farlo al posto loro. Si offriranno volontari non per ottenere vantaggi individuali, ma perché è la cosa giusta da fare, perché questo è ciò per cui hanno sempre lottato e ogni generazione deve essere pronta a sacrificarsi per il benessere collettivo. Ed è dopo questo discorso che tre mani si alzano nella stanza.
Si tratta naturalmente di una sceneggiatura, ma evidenzia un punto importante: non servono (e non dovrebbero servire) incentivi economici per fare la cosa giusta e per avere coraggio. Don Abbondio, ne I promessi sposi, afferma che «il coraggio uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Forse è vero, non se lo può dare da sé, soprattutto se è lasciato solo. Ecco perché le imprese, ma in generale tutte le organizzazioni, dovrebbero adottare una prospettiva collettiva e assumersi le proprie responsabilità, non solo in caso di errori, ma soprattutto nell’evitarli. Come ha scritto John Donne, in un famoso verso, nessun uomo è un’isola, ma è parte di un tutto. Non chiediamoci quindi per chi suona la campana. Suona per ciascuno di noi, e suona anche per le imprese.