E&M

2019/2

Fabrizio Perretti

Celebrare gli eroi: limiti e distorsioni dei premi aziendali

Introdotti come incentivi per generare lealtà, possono finire per incoraggiare forme di competizione e discriminazione deteriori

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Una parte fondamentale della nostra vita sociale si fonda sul bisogno universale di avere il rispetto, la stima e l’approvazione delle persone che ci circondano. I premi e i riconoscimenti pubblici sono alcuni degli strumenti in grado di svolgere questa importante funzione sociale. Inizialmente riservati ad ambiti non contrattuali e a campi estranei a logiche commerciali (lo sport, la cultura, il valore civile e militare), i premi e i riconoscimenti pubblici di varia natura si sono diffusi sempre più anche nelle aziende nei confronti dei loro dipendenti. Così come testimoniato dalle foto e dagli elenchi di «impiegati del mese» che molte imprese celebrano e affiggono nei propri luoghi di lavoro o dai premi che vengono periodicamente conferiti in determinate occasioni aziendali, i riconoscimenti pubblici si sono trasformati da strumenti riservati a situazioni «non ordinarie», per segnalare comportamenti o risultati «eccezionali», a meccanismi permanenti del mondo del lavoro «ordinario»[1].

Forse perché percepiti come strumenti apparentemente semplici da introdurre e poco costosi da implementare (una foto, una targa, una semplice cerimonia all’interno delle diverse manifestazioni o occasioni aziendali), questi tipi di programmi hanno avuto una notevole diffusione, senza che molte aziende fossero pienamente consapevoli degli errori di «traduzione» rispetto alle situazioni e agli ambiti tradizionali in cui tali riconoscimenti hanno avuto origine e delle distorsioni che questi possono creare negli ambienti di lavoro in cui vengono adottati. In un recente studio si è infatti osservato come l’introduzione di un premio per la puntualità degli addetti di una lavanderia abbia non solo generato comportamenti opportunistici, ma abbia persino inciso negativamente sulle prestazioni di quelli che – prima che il programma venisse istituito – erano gli addetti più puntuali. Questi ultimi ritenevano infatti ingiusto considerare come degno di riconoscimento chi aveva modificato il proprio comportamento secondo una logica puramente strumentale anziché ritenere la puntualità come una qualità che dovrebbe sottrarsi a tale calcolo[2]. Introdotti intenzionalmente per aumentare la motivazione dei dipendenti, la loro identificazione nei confronti degli obiettivi aziendali e, in ultima analisi, le loro prestazioni, questi strumenti si possono cioè rivelare altrettanto potenti nell’indurre comportamenti ed effetti indesiderati. Risulta quindi necessario comprendere le funzioni e i meccanismi sociali che ne sono alla base.

I premi e i riconoscimenti formali conferiti a singoli individui si caratterizzano come annunci pubblici il cui scopo è quello di comunicare a un gruppo più o meno ampio di persone l’importanza ed il prestigio di una determinata attività. Si tratta cioè di elementi segnaletici, il cui valore economico – se presente – è esiguo o marginale, ma il cui valore simbolico può essere molto elevato. Non tutte le attività o i contesti sociali si prestano all’introduzione di questi riconoscimenti. Come sopra ricordato, tradizionalmente essi hanno trovato applicazione in ambiti extra-economici (i premi sportivi, letterari, artistici o in ambito scientifico, i riconoscimenti al valore civile o militare) – non soggetti cioè a relazioni contrattuali e che anzi rifiutano una tale finalità. Le attività degne di attenzione e di riconoscimento devono infatti avere un valore e un significato per l’intera collettività e non devono essere svolte in un’ottica strumentale: non solo in termini di riconoscimenti materiali, ma anche per quel che concerne il valore simbolico intrinseco al riconoscimento in quanto tale. Il premio, in quanto segnale di prestigio, deve cioè essere un esempio per la collettività e non un incentivo individuale: così come non si compie un atto di valore per ottenere un beneficio materiale, non si dovrebbe esercitare cioè un’attività con lo scopo di vincere un premio.

Su quest’ultimo punto bisogna però distinguere quelle attività in cui il premio e il riconoscimento pubblico sono parte integrante ab origine del loro svolgimento e ne costituiscono il risultato finale, come le competizioni sportive, da quelle in cui il riconoscimento non è previsto ex ante, come per esempio un premio letterario o i premi Nobel. Mentre nel primo caso le attività si svolgono all’interno di una competizione consapevole che determinerà vincitori e/o gradi diversi di prestigio (medaglie d’oro, d’argento e di bronzo), nel secondo caso i vincitori o gli eventuali concorrenti non partecipano, prima di svolgere la loro attività, ad alcuna competizione esplicita. Chi scrive un articolo o un libro, fa una scoperta scientifica o compie un atto eroico scopre solo ex post se la sua attività è stata degna di onorificenze. Questa non è cioè inserita, prima di essere svolta, in un meccanismo che determinerà necessariamente una misurazione o valutazione della prestazione e l’assegnazione di un riconoscimento finale.

Nel momento in cui le aziende introducono premi o strumenti formali di riconoscimento pubblico, la cui assegnazione è frutto di regole e criteri ben precisi oggetto di misurazione e valutazione esterni (la puntualità, gli obiettivi di produzione, la soddisfazione dei clienti ecc.), adottano di fatto il modello «sportivo» della competizione esplicita, trasformando i propri dipendenti in «concorrenti» e inserendo lo svolgimento di alcune attività all’interno di una prova agonistica. Per coloro che considerano il riconoscimento pubblico più vicino al modello «artistico-scientifico», l’introduzione del modello competitivo rischia di essere percepita come una contraddizione profonda, in cui si celebrano come «eroi» quelli che sono semplici vincitori di una gara e la cui vittoria, a differenza delle competizioni sportive, si celebra e si esaurisce esclusivamente al proprio interno, tra giudici e partecipanti.

L’altro rischio dell’adozione di tale modello «sportivo» nelle imprese è la premiazione del «singolo», sia esso un individuo o un team. In tutti i meccanismi di riconoscimento pubblico la funzione è quella di distinguere il singolo dagli altri (ex pluribus, unum), di renderlo visibile e oggetto di ammirazione. Ma nello sport questi «altri» in competizione, siano essi individui o squadre, sono tra di loro «estranei», non appartengono cioè alla stessa organizzazione. Le imprese si fondano invece su attività in comune, il singolo dipendente non solo è inserito in diversi gruppi o team di lavoro, ma beneficia e/o risente delle attività svolte dagli altri suoi colleghi in strutture e/o reparti diversi. I risultati del singolo non possono essere raggiunti a prescindere dal contesto più ampio in cui emergono. Per quanto individuali, i risultati sono sempre collettivi. Non riconoscerlo non solo è non veritiero ma, premiando il singolo, è anche ingeneroso nei confronti degli altri. Pur svolgendo un’importante funzione sociale, nella pratica quotidiana non sono gli «eroi» i soggetti che contribuiscono maggiormente al nostro benessere, bensì le persone che occupano posizioni ben più modeste.

Introdotti come incentivi simbolici per generare, attraverso il riconoscimento pubblico, quei comportamenti fondamentali per le imprese, quali la fedeltà e la lealtà (il cosiddetto commitment), che gli incentivi economici non sono in grado da soli di produrre, i premi rischiano di creare più danni che benefici. Anche in questo caso è utile osservare alcuni contesti di riferimento, come per esempio la famiglia o gli amici, in cui questi meccanismi formali di competizione non sono stati adottati perché considerati come socialmente inappropriati e pericolosi per la stessa stabilità di tali formazioni sociali. Confondere il campo dell’identità con quello dell’utilità è infatti estremamente pericoloso. L’identità attorno alla quale un soggetto collettivo si costituisce e si riconosce non può essere il risultato di un comportamento strategico o di un calcolo di utilità, ma nemmeno di meccanismi di competizione e di discriminazione simbolica. Come ci ricorda Adorno, «è come se una felicità che è il prodotto di un calcolo non fosse il contrario della felicità»[3].

 

L’identità e la felicità rappresentano anche i temi che contraddistinguono l’anno 1969, oggetto di questo dossier. Rispetto agli anni precedenti, di sviluppo materiale e di benessere economico, la fine degli anni Sessanta è contraddistinta da nuove pulsioni, da nuove aspirazioni. Il conflitto, che aveva sicuramente contrassegnato il 1968 e che si prolunga con l’autunno caldo del 1969, si articola in nuove richieste, creando nuovi spazi collettivi di identità e di rivendicazione (Woodstock, la lotta per i diritti degli omosessuali, la libertà sessuale). Lo stesso sbarco sulla Luna rappresenta non solo il risultato di una sfida tecnologica, bensì il confronto tra due sistemi economici e politici in competizione, che rimarcano profondamente le proprie differenze identitarie. In questo mondo in cui, per citare un altro esponente della Scuola di Francoforte come Erich Fromm, ci si focalizza di più sull’essere che non sull’avere, si creano quei contesti identitari che, in anni più recenti, si trasformeranno (si pensi al settore della marijuana) anche in spazi di opportunità economiche e di sfruttamento commerciale. Buona lettura!

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Secondo il rapporto WorldatWork (2017) l’88 per cento delle principali aziende del Nord America adotta quelli che vengono definiti recognition programs. Di queste circa l’80 per cento utilizza strumenti basati su premi e ricoscimenti (per esempio, certificati o targhe) che vengono resi pubblici attraverso eventi aziendali o annunci tramite newsletter, social media e altri strumenti di comunicazioni interni. Il rapporto è disponibile online: https://www.worldatwork.org/dA/d0815e4c41/trends-in-employee-recognition-2017.pdf.

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T. Gubler, I. Larkin, L. Pierce, «Motivational spillovers from awards: Crowding out in a multitasking environment», Organization Science, 27(2), 2016, pp. 286-303.

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T.W. Adorno, Minima Moralia, Torino, Einaudi, 2015, p. 63 (ed. or. 1951).