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L’Italia è desta
Al 17 marzo i casi registrati di Coronavirus (COVID-19) in Italia sono 31.506, con un andamento ancora in crescita esponenziale. Il numero di decessi è 2503, con un tasso di letalità del 7,9 per cento. L’epidemia sta principalmente colpendo la Lombardia e il resto del Nord Italia, ma sono presenti focolai in tutte le regioni Italiane. Si tratta della peggiore catastrofe sanitaria mai registrata nel nostro Paese e nei Paesi avanzati dalla Seconda guerra mondiale a oggi, con conseguenze drammatiche anche per il contesto economico e sociale.
In questa fase la lotta all’epidemia si gioca su due fronti fondamentali: la riduzione delle interazioni sociali per ridurre la diffusione del virus e il massimo potenziamento possibile delle capacità di risposta del Servizio Sanitario Nazionale a tutti i livelli: dalla medicina generale, chiamata a gestire la maggior parte dei pazienti sospetti, alle unità di cura intensive, in questo momento lo strumento più idoneo per gestire i casi più gravi.
Su entrambi i fronti l’Italia sta dando il meglio di se stessa e le polemiche sui limiti dei decreti del Presidente del consiglio (DPCM) o del rapporto tra Regioni e Stato appaiono più che altro il frutto dell’inevitabile logoramento dello sforzo richiesto a tutte le parti in gioco. Sul fronte delle interazioni sociali, 60 milioni di persone sono a casa, e quando non lo sono, è per necessità sociali e personali, e non per diletto. Inoltre, si sono messe in moto reti familiari e di solidarietà con donazioni e attività di sostegno ai più fragili, con riguardo soprattutto alle persone anziane e sole. Non bisognerebbe dare per scontata una tale disciplina sociale. Per questo motivo sarebbe forse meglio rafforzare i messaggi positivi sulle reazioni dei nostri concittadini e smorzare tutta la comunicazione volta a trovare episodi di trasgressione o violazione delle disposizioni. Stare a casa con la paura di ammalarsi o di perdere il lavoro o semplicemente di guadagnare meno è fonte naturale di ansia.
Anche il fronte del Servizio Sanitario Nazionale sta dando prova di grande maturità: infermieri, medici e altri operatori sanitari sono costantemente in prima linea facendo propri i valori e la missione di professioni volte alla cura degli altri, anche a costo di prendere rischi importanti per la propria vita. Sta tenendo l’organizzazione del sistema, con la sua articolazione istituzionale tra Stato, Regioni e Comuni che, al contrario di quanto spesso si sostiene, è fonte di varietà e ricchezza. Si fa a fatica a credere che un sistema fortemente accentrato avrebbe creato condizioni migliori; avrebbe invece prodotto più distanza dai cittadini e meno motivazione da parte di leader istituzionali e operatori sanitari. Viviamo una situazione estremamente complessa e non è la sicurezza dell’uomo solo al comando che può garantire funzionalità ed efficacia. L’articolazione istituzionale richiede sì capacità di coordinamento e di rispetto dei diversi ruoli, ma l’autonomia è fonte importante di mobilizzazione istituzionale e sociale.
Tuttavia, non possiamo illuderci perché il peggio probabilmente non è ancora arrivato. Non è stato ancora raggiunto il picco epidemico. In particolare preoccupa la situazione di Milano dove l’infezione ha interessato meno casi di altre aree della Lombardia ma dove la contiguità con queste aree e la densità abitativa potrebbe farne un bacino di casi scarsamente controllabile e gestibile. Come d’altronde preoccupa la situazione del resto del Paese dove si spera che la bassa incidenza del virus non rifletta semplicemente un ritardo nella sua diffusione. Qui il messaggio è molto chiaro: occorre continuare a limitare le distanze sociali, sfruttando al massimo le nuove tecnologie, e cercare di vivere al meglio il tempo libero che, anche se per necessità, ci troviamo ad avere.
Una seconda grande preoccupazione è la tenuta del sistema sanitario a fronte della moltiplicazione dei casi positivi. Entrambi i pilastri del nostro sistema sono sotto una straordinaria pressione: da un lato i medici di famiglia che hanno il difficilissimo compito di fare triage in modo da selezionare le modalità più opportune di trattare i pazienti, valutando la serietà delle condizioni patologiche e filtrando l’accesso ai livelli più specialistici di assistenza; dall’altro la rete ospedaliera dove la questione più urgente è la disponibilità di posti letto in terapia intensiva e sub-intensiva. Secondo stime attendibili l’utilizzo dei posti letto disponibili in Regione Lombardia è già satura e solo interventi straordinari possono far fronte ai casi dei prossimi giorni. Su questo lo sforzo da fare è ciclopico: occorre trovare spazi, attrezzature e personale adeguato in tempi record; non riuscire a farlo rischierebbe di provocare decine se non centinaia di morti evitabili. È su questo aspetto che vedremo se le istituzioni ai vari livelli, da quello locale a quello europeo, sapranno essere all’altezza.
Infine, è utile una riflessione più generale sull’economia, intesa del senso più ampio di sistema di trasformazione di risorse per il soddisfacimento dei bisogni delle persone. Ci sono pochi dubbi che il contraccolpo di questa epidemia sarà pesante. Sicuramente serviranno politiche monetarie e soprattutto fiscali (sia sulle entrate sia sulle uscite), ma difficilmente queste politiche potranno contrastare un andamento negativo del PIL. Nell’agenda dovrà quindi entrare il tema di cosa produciamo e consumiamo, in che modo e per chi. A poco più di 10 anni dalla grande recessione ci troviamo di fronte a una situazione simile: una grave crisi sistemica. È tempo di chiederci se il nostro modello economico e le nostre istituzioni pubbliche sono adeguate per i tempi in cui viviamo.
Giovanni Fattore è Professore ordinario del Dipartimento di Analisi delle politiche e management pubblico presso l’Università Bocconi.