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Il discorso del re. Leadership e inadeguatezza
Con l’aiuto di un geniale logopedista di origine australiana, re Giorgio VI d’Inghilterra riesce a vincere la balbuzie e a diventare un bravo comunicatore radiofonico. La storia di questa sua vittoria sulla paura di comunicare è il tema centrale del film di Tom Hooper Il discorso del re .
Il discorso del re
Regia: Tom Hooper
Interpreti: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter
Gran Bretagna/Australia, 2011
Un re balbuziente. Negli anni trenta doveva risultare quasi impensabile. Come un podista senza piedi, un pianista senza dita, un pilota senza mani. Perché negli anni trenta – gli anni della radio e della propaganda totalitaria diffusa alle masse via etere – la voce era lo strumento primo di esercizio del potere, così come il Corpo del Capo lo sarebbe diventato successivamente nell’era della televisione. Negli anni trenta, Hitler e Mussolini arringavano le folle con la voce, e scatenavano processi di identificazione feticista con il Capo facendo circolare la loro voce dentro i canali disponibili in base alle tecnologie mediatiche dell’epoca. In un contesto simile, tanto più grave doveva risultare la balbuzie di re Giorgio VI d’Inghilterra, duca di York, secondogenito di re Giorgio V, poco considerato dal padre ma anche poco amato dalla corte e dal popolo inglese proprio per la sua risaputa difficoltà nell’articolare le parole.
Il film Il discorso del re, diretto da Tom Hooper e interpretato con sublime adesione al personaggio da un superlativo Colin Firth, racconta come re Giorgio VI, con l’aiuto di un bravo logopedista d’origine australiana (Geoffrey Rush), dai metodi poco ortodossi ma molto efficaci, abbia saputo vincere la sua cronica balbuzie nervosa, arrivando a pronunciare alla radio il suo discorso più bello: quello in cui incita gli inglesi alla lotta contro gli orrori della Germania nazista. Prezioso come un prodotto di alta sartoria, recitato come solo gli attori di scuola inglese sanno fare, rilassante e rassicurante come il tè alle cinque in un buon salotto confortevole e accogliente, Il discorso del re racconta la storia di un uomo che prima di vincere la guerra contro il Terzo Reich ha dovuto vincere la battaglia contro se stesso e contro i suoi limiti. E, tuttavia, può essere visto anche come una metafora del rapporto fra istruttore e allievo, o come una parabola sui modi attraverso cui un leader (o un aspirante tale) può superare i suoi eventuali handicap di partenza.
Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.
S.S. La vicenda del duca di York, che per diventare re d’Inghilterra deve prima recuperare un gap e dimostrare di saper garantire l’efficienza performativa richiesta dal nuovo ruolo, mi ricorda molto da vicino quel processo – ben descritto dalla teoria organizzativa – per cui una persona che sale di ruolo, abbandonando una posizione di livello inferiore per una di rango superiore, si trova spesso a soffrire, nel passaggio, di un gap di competenze.
È il cosiddetto “principio di Peter”: si scala di carriera quando si è al massimo livello di incompetenza. Cioè quando si è molto bravi a svolgere i compiti del ruolo precedente, ma con lacune, anche importanti, nel ruolo successivo. Questo gap di competenze apre una “incongruenza di ruolo”, perché l’individuo all’inizio non ha tutte le capacità per ricoprire la posizione in modo efficace. Saranno poi il tempo e la pratica on the job che aiuteranno a colmare il fabbisogno. Oppure si dovrà far ricorso alla formazione per dotare l’interessato delle skill che gli mancano.
G.C. Verissimo. Il caso del duca che diventa re – e che diventa re in tempi non pianificati, all’improvviso, per un evento non previsto – si collega perfettamente a questo modello teorico, anche se in questo caso al potenziale re mancano non competenze analitiche, sociali o professionali, bensì la capacità di public speaking, che sappiamo essere un elemento fondamentale nel repertorio comportamentale e performativo del massimo rappresentante di un’istituzione nazionale. Un re che ha un rapporto irrisolto con la parola è come un calciatore che elabora una relazione fobica con la palla…
S.S. Lo sottolinea argutamente la battuta del logopedista alla moglie del duca, quando le dice: “Se balbetta, è meglio che si cerchi un altro mestiere”. La stessa moglie, del resto, aveva scelto di sposare il duca ben consapevole del fatto che la balbuzie inibiva ab origine ogni possibile ipotesi di ascesa al trono. “Non volendo io svolgere ruoli da prima donna – dice a un certo punto la signora – ho sposato te perché balbettavi ed ero certa che non avresti mai avuto ambizioni regali.”
G.C. Invece la consapevolezza della propria inadeguatezza genera nel personaggio un profondo sconforto, unito a vere e proprie crisi di panico. Detto con un gioco di parole: Sua Altezza sente di non essere all’altezza. Sente di essere inferiore al suo compito, e inferiore a suo padre Giorgio V, abilissimo comunicatore radiofonico. E il film di Tom Hooper è efficacissimo nel drammatizzare proprio le défaillances della voce del sovrano, quei prolungamenti di suoni, quelle sillabe ripetute involontariamente, quegli improvvisi e devastanti silenzi…
S.S. Direi che il film è molto efficace anche nel mettere a fuoco il percorso di riscatto intrapreso dal re. Vediamo chiaramente, per esempio, come all’inizio, a salvarlo dalla depressione e dal terrore dell’insuccesso, provveda per fortuna la moglie, il cui sostegno risulta decisivo nello spingerlo e motivarlo nella battaglia per vincere ed eliminare il timore di essere inadeguato. Ma il punto di forza del film sta nella lucidità con cui mette a fuoco la figura del logopedista, che è poi formatore, educatore, consulente e coach, tutto insieme.
Per riuscire nel suo compito, entra addirittura nella sfera privata del re, nella psicologia più primitiva del cliente, di fatto diventandone amico.
G.C. Certo. È un formatore che deve inizialmente costruire un territorio di fiducia, di pariteticità di rapporti (“chiamami Lionel, io ti chiamerò Barney”), di spoliazione delle incrostazioni formali e cerimoniali che normalmente riguardano le caste nobiliari. Un formatore che si conquista la stima del suo assistito grazie ad atteggiamenti rigorosi (“Mio il campo, mie le regole”) e non servili. Ma anche grazie agli atteggiamenti non canonici che assume durante le sue singolari sedute di terapia del linguaggio. Penso, per esempio, a quando invita re Giorgio VI a sfogarsi dicendo parolacce. O quando infrange il protocollo guidando Sua Maestà fra spasmi, rilassamenti vocal-muscolari e acrobatici esercizi di fonazione…
S.S. In fondo, Il discorso del re è la storia di un personaggio che si libera della paura di comunicare. Che impara a vincere la soggezione di quel gigantesco microfono, minaccioso e incombente, su cui – non a caso – si apre il film. E che è un po’ il simbolo novecentesco dell’ubiquo primato della comunicazione.