E&M

2011/4

Giuseppe Soda

Se l’impresa intercetta i movimenti sociali, il processo vince sul prodotto

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Incrociando in un decennio almeno due grandi crisi internazionali, la discussione sui principi in grado di assicurare competitività e lunga vita alle imprese si è spesso arenata su questioni apparentemente inestricabili come l’annoso dilemma innovation versus commoditization, così come definito dal guru del MIT Michael Cusumano (2010). L’idea di fondo del dilemma è che mentre i prodotti dovrebbero incorporare una dose sempre più massiccia di innovazione (e quindi anche di costi dell’innovazione), nel contempo la globalizzazione e l’indebolimento dei regimi di protezione della proprietà intellettuale trasformano rapidamente in commodity le innovazioni. Sovente il processo di commoditization è talmente veloce da non lasciare tempo sufficiente per recuperare gli investimenti realizzati per innovare. Allora il dilemma dei manager è se rimanere alla finestra aspettando di cavalcare le onde della commoditization, magari delocalizzando le fasi di generazione del valore in contesti low-cost, oppure trovare la forza (e le risorse) per tentare di fare surf sulle onde più avanzate dell’innovazione e sfruttare vantaggi di prima mossa.

Nei corsi di strategia delle università o delle business school, intere legioni di studenti vengono sottoposte alla retorica di questo dilemma o allo studio di casi che dimostrano il successo delle scelte dell’uno o dell’altro tipo. Il dilemma è spesso risolto attraverso l’idea (e qualche evidenza empirica) che le imprese con successo siano quelle che riescono a fare entrambe le cose: innovare di continuo e sfruttare al massimo le innovazioni realizzate. Non è un caso che queste imprese eccellenti siano definite ambidestre, mentre con ambidestrismo (ambidexterity) si indicano le capacità che permettono alle imprese di continuare sia a innovare sia a sfruttare al massimo le innovazioni. Michelangelo e Leonardo da Vinci erano entrambi ambidestri e forse, almeno secondo una discutibile corrente di pensiero, anche Maradona. In ogni caso, si tratta di una virtù molto rara. Ma è davvero poi così importante essere ambidestri o risolvere il dilemma? Mentre gli studiosi di strategia aziendale si arrovellano nella domanda, la realtà corre e qualcosa di diverso pare muoversi. Lontano dai dibattiti e dalla ricerca accademica, alcuni importanti cambiamenti hanno iniziato a produrre effetti al punto che in futuro potranno diventare nuove sfide per il management e la competitività. Si tratta di cambiamenti che incrociano le profonde modificazioni nel sentimento collettivo e nei comportamenti di consumo generate dai movimenti sociali globali come quelli sulla sostenibilità, il commercio solidale o la salvaguardia ambientale. Questo editoriale di Economia & Management ha l’obiettivo di descrivere alcuni cambiamenti e provare a delinearne i potenziali impatti sulle imprese. Nella riflessione che lo ha alimentato sono stati cruciali due racconti, due casi che è utile ripercorrere per inquadrare il tema.

Racconto uno

Il direttore commerciale della SAIB, azienda che produce pannelli truciolati – un bene largamente impiegato nell’industria del mobile e nell’edilizia – stava salendo sull’aereo Catay Pacific che l’avrebbe portata a una fiera di settore a Taiwan accompagnata da una discreta dose di scetticismo. D’altro canto, la profonda crisi dei mercati che si affacciano sul Mediterraneo seguita alle rivolte popolari non lasciava molte altre strade per recuperare i clienti e il fatturato estero perso. I trasporti verso l’Asia sono molto convenienti, visto che arriva in Occidente molta più merce di quella che torna indietro. Tuttavia, in questa industria il prodotto è uniforme in tutto il mondo, le strategie di differenziazione di fatto non esistono e il made-in non aggiunge in sostanza alcun valore al prodotto. In sintesi, parliamo di prodotti che possono rappresentare un esempio scolastico di commodity. Certo, il campionario di soluzioni commerciali e servizi pre-post vendita con cui viaggiava il direttore commerciale era più che agguerrito, ma in un campo dove le differenze tra produttori si riducono sovente al solo prezzo. Lo scetticismo scomparve quasi subito solo a vedere la fila di clienti allo stand della fiera. La frase che disvelava l’interesse dei clienti fu pronunciata quasi subito da un importante rivenditore con sede nella capitale Taipei: “Non ci interessa quello che fate, lo stesso prodotto possiamo comprarlo da chiunque, ma ci piace molto come lo fate”. Per comprendere il senso della frase pronunciata dal cliente taiwanese è necessaria una breve parentesi storica sui produttori italiani di pannello truciolare. La scoperta della tecnologia che consentiva la produzione dei pannelli aveva velocemente avviato negli anni sessanta una nuova industria, trasformando artigiani del legno o del compensato in industriali. Le aziende italiane nate dalla nuova tecnologia erano moltissime (più di quaranta) e crescevano lungo il Po e le altre grandi aree golenali in ragione della coltivazione del pioppo che rappresentava la materia prima principale. L’industria del pannello alimentava la crescita della seconda più importante industria dei mobili d’Europa. A livello di sistema, lo sviluppo dei grandi distretti del mobile in Brianza, Veneto, Marche e Toscana era alimentato da questa eccellente capacità industriale. Nel frattempo, negli altri paesi, specie nell’Europa centro-settentrionale, nascevano grandi gruppi industriali anche per la maggiore quantità di materia prima disponibile. Col tempo la materia prima divenne il vero grande vincolo dell’industria e le aziende italiane si trovarono in una posizione di svantaggio. Da questa difficoltà nacque un’intuizione che oggi possiamo rileggere con le parole della sostenibilità ambientale, ma che allora aveva una ragione principalmente industriale. L’intuizione consisteva nell’utilizzo di legno proveniente dalla raccolta differenziata o da materiale destinato a finire nelle discariche (residui delle costruzioni, cassette della frutta, bancali, potature nelle città ecc.). Il fatto di non utilizzare legno che proveniva direttamente dal taglio delle piante costringeva le aziende a innovare in profondità il processo produttivo includendo a monte della produzione non solo nuovi processi di acquisizione della materia prima, ma soprattutto processi di trasformazione molto sofisticati per la pulitura del legno da tutti i residui utilizzati nell’impiego precedente e quindi l’eliminazione di metalli, vetro, sabbia, vernici. L’ingegno italiano aveva portato alla produzione di tecnologie per svolgere queste fasi a monte del processo produttivo in senso stretto. In questo modo, il legno destinato a finire nelle discariche (e successivamente a essere bruciato nelle centrali) rientrava miracolosamente nel ciclo produttivo in un processo virtuoso. I produttori italiani sono stati i primi a comprendere questa grande potenzialità. Nel tempo, questa peculiarità si è istituzionalizzata con le certificazioni come la FSC (Forest Stewardship Council) che segnalano la provenienza del legno utilizzato non da foreste ma da materiali di recupero o da coltivazioni. Tuttavia, malgrado alcune innovazioni incrementali sul prodotto, dal punto di vista del dilemma considerato in precedenza il prodotto resta una commodity. Aver immaginato e sviluppato un processo che prevede l’uso del legno che proviene dalla raccolta non ha modificato le caratteristiche del prodotto, lo ha però riempito di contenuti e significati nuovi legati alla sostenibilità. Ciò per cui i produttori di mobili taiwanesi mostrano tanto interesse non è il prodotto in sé, ma la storia che racconta e il significato simbolico che racchiude. Come loro stessi dichiarano, com’è prodotto e non cos’è. Naturalmente l’interesse dei produttori taiwanesi (e in previsione cinesi) di mobili non è casuale. L’isola è un ottimo esempio di gestione del ciclo dei rifiuti, con una propensione individuale alla differenziazione che è vicina al 100% della popolazione e un tasso di riciclaggio dei rifiuti che nel 2008 era del 42%, meglio di Francia, Giappone, Regno Unito e USA.

Racconto due

Negli ultimi due anni, con i consumi al palo, gli italiani hanno speso più di tre miliardi di euro in un anno per l’acquisto di prodotti a “chilometro zero”. Secondo i dati Coldiretti si tratta di acquisti effettuati almeno una volta dal 41,4% dei consumatori italiani. Le motivazioni all’acquisto ci dicono che il 71% dei consumatori è spinto dall’autenticità del prodotto (Stima Coldiretti-SWG 2008). Se si prova a riflettere con attenzione sul significato del termine “autentico”, si tratta di un attributo che va ben oltre le caratteristiche organolettiche e funzionali del singolo prodotto e che ne rivela l’origine, il modo e il “mestiere” di chi l’ha realizzato, il radicamento nelle identità territoriali e culturali. L’acquisto di un prodotto di filiera corta è forse l’esempio più evidente di interesse dei consumatori per un concetto di processo piuttosto che di prodotto. Il processo di filiera corta modifica il ruolo degli attori coinvolti, crea visibilità e spazio al produttore che riconquista un ruolo attivo nel sistema agro-alimentare, è gradito al consumatore che acquista non solo gli elementi funzionali o di gusto del prodotto ma le sue componenti narrative: da dove viene, come è stato fatto, chi l’ha fatto. Inoltre, sempre secondo i dati presentati nel 2010 in occasione della Giornata mondiale dell’ONU dedicata all’Ambiente, l’acquisto nella filiera corta garantisce un risparmio medio del 30% nel prezzo d’acquisto a parità di qualità.

 

I due racconti hanno messo in evidenza come dal dilemma innovazione-commoditization si possa uscire con modalità alternative dalla scelta netta o dalla complessa ambidexterity. La lezione che si ricava è che non occorre necessariamente continuare a produrre (e a investire) in innovazioni radicali dei prodotti, ma è possibile agire modificando le filiere che li generano per inglobare in esse nuovi elementi di valore. Il processo diventa così un ambito di sperimentazione che va al di là della messa a punto operativa o della ricerca dell’efficienza. Nei casi raccontati il processo rivisitato incrocia nuovi elementi che aggiungono valore e generano elementi competitivi distintivi. In entrambi i racconti, il valore del brand o della marca associati a uno specifico produttore (che ancora alimentano gli sforzi di marketing di una parte rilevante delle imprese) diventa marginale rispetto al valore percepito dal cliente. Il brand che richiama il prodotto è sostituito da un concetto di “certificazione” che descrive il processo con cui il prodotto è realizzato e arriva fino al consumatore. Nel caso del pannello truciolare il prodotto resta lo stesso, le sue componenti chimico-fisiche sono identiche, le tecnologie di produzione in senso stretto sono identiche, ma cambia la storia che racconta e ci dice: “io sono fatto con legno che non viene dal taglio degli alberi ma dalla raccolta differenziata”. Questo elemento non muta il prodotto, ma aggiunge una straordinaria componente di valore in un contesto di attenzione per la sostenibilità ambientale e la tutela delle foreste. Allo stesso modo, un etto di prosciutto San Daniele acquistato da un produttore locale, che da generazioni fa quel mestiere con metodi artigianali e distribuito in un farmer-market che taglia tutta la filiera non significa necessariamente che il prodotto sia migliore o più buono di quello realizzato dalla marca, ma che incorpora elementi narrativi, antropologici e culturali che aggiungono un’importante quota di valore che il consumatore è oggi in grado di riconoscere.

Si potrebbe obiettare che molte volte nella storia, anche in quella recente, si è assistito a grandi trasformazioni competitive generate dall’innovazione nei modelli di produzione e distribuzione, ossia nei processi. Si pensi, a solo titolo di esempio, all’avvento dei modelli giapponesi lean nella produzione delle auto, al movimento della qualità totale, al successo del modello integrato e fast-reactive di produzione e distribuzione di Zara nel contesto dell’abbigliamento, che sino all’arrivo prepotente del gruppo spagnolo era dominato dall’idea che il modello vincente fosse quello flessibile e reticolare.

Esiste, però, un nuovo elemento più rilevante comune ai due racconti e che è molto importante perché da esso derivano il valore e le opportunità per le imprese. In entrambi gli esempi il vantaggio competitivo dipende in larga misura dall’attenzione che su quelle specifiche componenti di processo hanno posto alcuni movimenti sociali. Essi rappresentano reti di interazioni prevalentemente informali, basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano collettivamente attorno a tematiche all’origine in conflitto rispetto a paradigmi dominanti. Sostenibilità, salvaguardia delle foreste, riduzione delle emissioni di C02, movimenti del cibo biologico, vegetarismo, filiera corta, fair-trade, salvaguardia della biodiversità, movimenti di identità territoriale, riscoperta delle radici sono tutti esempi di movimenti sociali legati in qualche modo ai due racconti e al vantaggio competitivo connesso a determinati modi di produrre e vendere. I movimenti sociali nascono con carattere antisistemico, si sviluppano all’inizio come reti di individui, ampiamente supportate dalla tecnologia, svolgono una funzione identitaria, rappresentano una mobilitazione collettiva finalizzata al cambiamento. Una parte di questi movimenti tende nel tempo a uscire dai confini della rete sociale e i valori proposti diventano trend culturali e sociali, modificano il costume, agiscono sui modelli educativi (si pensi all’educazione alimentare nelle scuole), si trasformano in movimenti politici. Il grande sociologo James Coleman (1990) intuì che l’ipotesi per cui ai sentimenti d’insoddisfazione verso il sistema debbano necessariamente seguire rivolte sociali e conflitti acuti ridimensiona la portata dei movimenti collettivi verso semplici aggregazioni temporanee di individui, ignorando le dinamiche che portano il semplice agire individuale a manifestarsi a livello macro e a generare modifiche talvolta profonde nella società. I movimenti che abbiamo descritto sono oggettivamente protagonisti del mutamento del sistema, in un certo senso rappresentano attori collettivi e razionali, propositivi e organizzati per scopi molto precisi. I nuovi movimenti sociali si costituiscono come un’organizzazione reticolare, fluida, aperta, che richiede una partecipazione inclusiva e su basi non ideologiche. Grazie a questi modelli organizzativi e alle tecnologie, movimenti sociali nati in contesti territoriali precisi si trasformano rapidamente in movimenti transnazionali (Rucht 2007).

Nello spazio di trasformazione dei movimenti sociali in veri e propri trend sociali dominanti, le imprese possono inserirsi provando a modificare i propri processi per sviluppare modi di produzione e distribuzione che rispecchiano e rispondono ai valori e alle richieste dei movimenti sociali. Si tratta di uno spazio amplissimo che produce peraltro effetti positivi sulla reputazione e la legittimazione delle imprese, certamente più positivi di qualche bilancio di sostenibilità discusso in qualche tempio della finanza. Il tema qui non è quello della responsabilità sociale dell’impresa, bensì l’idea di intercettare il potenziale di sviluppo che si cela dietro le trasformazioni sociali, che è cosa molto diversa.

In conclusione, sono almeno due le implicazioni che è possibile derivare da questi fenomeni. In primo luogo, l’enfasi sul processo invece che sul posizionamento competitivo dal punto di vista del prodotto implica una riconsiderazione profonda della filiera produttiva e distributiva, al fine sia di incorporare gli elementi di valore che generano differenziazione rispetto ai concorrenti su “come” si produce, sia di rendere efficaci i controlli che consentono di ridurre rispetto al concetto di valore proposto ai clienti (si pensi, per esempio al tema della sicurezza alimentare). In secondo luogo, il management deve monitorare con attenzione le innovazioni, le idee e le pressioni generate dai movimenti sociali, rammentando che le tecnologie amplificano l’impatto dei movimenti e la velocità con cui si diffondono nella società.

Le idee innovative non nascono solo nei laboratori di ricerca e sviluppo delle imprese (quando ci sono), ma anche da una relazione più attenta e aperta ai venti delle grandi trasformazioni nella società, anche quando a breve sembrano solo delle brezze passeggere.

Riferimenti bibliografici

Si veda il pdf allegato.