E&M
1999/2
Indice
Editoriale
Un progetto per affrontare i tre grandi punti deboli dell'economia italiana nell'era post-euro
Fotogrammi
Uova di struzzo a caramelle di cicoria: splendori e miserie dell'azienda familiare all'italiana
Interventi
Management dell’arte o arte del management? Il caso “Settimane Internazionali di Musica d’Insieme”
I piani di stock option fra incentivo fiscale e innovazione della corporate governance
La programmazione operativa della produzione. Evoluzione e prospettive
Un sistema adattivo per il supporto alle decisioni nelle analisi del rischio di credito
Uova di struzzo a caramelle di cicoria: splendori e miserie dell'azienda familiare all'italiana
Scarica articolo in PDFI panni sporchi
di Mario Monicelli
Int: Michele Placido e Mariangela Melato
Italia, 1999
Baci e abbracci
di Paolo Virzì
Int: Francesco Paolantoni e eEdoardo Gabriellini
Italia, 1999
Non capita spesso di incontrare un film che sappia raccontare l’Italia di oggi con la precisione e la lucidità di cui dà prova I panni sporchi di Mario Monicelli. Il vecchio maestro del cinema italiano (84 anni, una sessantina di regie alle spalle) rispolvera per l’occasione il sarcasmo acido e graffiante dei suoi film migliori (I soliti ignoti, Parenti serpenti) e mette in scena con uno sguardo ironicamente smaliziato gli splendori e le miserie di una tipica azienda familiare italiana. La vicenda si svolge a Macerata, in una di quelle zone geografiche che – pur non essendo finite sotto la luce dei riflettori come l’acclamato Nordest – hanno tuttavia conosciuto negli ultimi anni un energico e sorprendente sviluppo economico. È in questa cittadina delle Marche che vivono i Razzi, agiata famiglia di media borghesia imprenditoriale. Grazie alla “cialda del nonno”, una cara meli a digestiva a base di cicoria. brevettata dal nonno farmacista e diffusa presso una clientela limitata ma fedele, la famiglia ha potuto vivere nell’ agiatezza e nella serenità per un paio di generazioni. Ma i tempi cambiano, le riconversioni urgono. E dal momento che non di sola cialda può vivere oggi un’ azienda, ecco che il rampollo più giovane di questa dinasty marchigiana, spinto dal desiderio di emulare lo stile di vita e di management dei grandi imprenditori del Nord, decide di ristrutturare: crea un’intera linea di prodotti alla cicoria, studia una grandiosa campagna di promozione televisiva e compra perfino una squadra di pallacanestro femminile. Suo zio (Michele Placido), che negli ultimi anni ha gestito l’azienda con prudenza e cautela, senza conseguire risultati eclatanti ma amministrando saggiamente un posizionamento di mercato abbastanza solido e remunerativo, è contrarissimo alla strategia del nipote: trova ridicolo lo spot televisivo e giudica avventuristica tutta l’impresa, che rischia – a suo dire – di innescare un meccanismo incontrollabile per una piccola industria locale. Ma è solo contro tutti: dalla moglie (Mariangela Melato) alla madre (Marina Confalone) del giovane e ambizioso innovatore, gli altri membri della famiglia sono concordi nell’idea di tentare il grande salto. Sognano il business, vedono la pubblicità come una risorsa taumaturgica. E ci si buttano a capofitto. Con il risultato che l’azienda crolla in breve tempo e rischia di finire nelle mani di un gruppo di strozzini albanesi.
C’è un fondo di caustico moralismo nello sguardo con cui Monicelli racconta i suoi ennesimi “parenti serpenti”, stigmatizzando l’ingordigia e l’avidità dei vari membri della famiglia e spalmando pennellate di vetriolo sulla smania di emulazione che li induce a scimmiottare i comportamenti e gli stili dei più noti esponenti del grande capitalismo familiare all’italiana. Ma c’è anche una precisione non comune nel raccontare i meccanismi economici e psicologici con cui una solida azienda familiare si autodistrugge, non reggendo al delicato passaggio della ristrutturazione strategica e gestionale. Morto il nonno, i Razzi si ritrovano a farsi la guerra tra di loro. Tra invidie e gelosie, la lotta per la leadership si risolve in un’ecatombe collettiva. Non solo: un approccio feticistico al marketing, celebrato fideisticamente come magico risolutore di tutti i problemi, spinge i membri della famiglia a bruciare una quantità spropositata di risorse nella pubblicità e nella promozione, senza nessuna indagine preliminare né sulle dinamiche del mercato né sulle capacità di penetrazione del prodotto (che nello spot promozionale viene chiamato non a caso, fellinianamente, Cicoraz). Certo: quella raccontata da Monicelli è una famiglia di lunatics. Nei suoi membri sembra di poter cogliere a tratti, oltre che una forma congenita e irredimibile di stupidità autodistruttiva, anche l’eco di certi grandi personaggi della letteratura, dall’avaro di Molière all’inetto di Gogol. Non c’è ambizione realistica, nello sguardo dell’ anziano cineasta. Ma c’è la voglia di riproporre un cinema che castigat ridendo mores: abile nel mettere alla berlina i tic e le manie della provincia italiana, Monicelli finisce per scovare i limiti di un capitalismo che non sempre riesce a trovare il giusto equilibrio fra una tradizione ormai obsoleta e un’innovazione troppo spesso avventata e ricalcata per inerzia su modelli non sempre adeguati (e quasi mal sufficientemente collaudati). È un po’ quel che accade anche nel film del giovane Paolo Virzì Baci e abbracci, dove tre ex -operai rimasti disoccupati tentano di diventare imprenditori impiantando un allevamento di struzzi in un vecchio casale della val di Cecina, ma si ritrovano poi a passare il Natale ansiosi e preoccupati, nella vana attesa di un “salvifico” assessore che dovrebbe liberarli dal tormento dei creditori e dei debiti da saldare. Anche i protagonisti di Baci e abbracci sono votati dunque al fallimento, come i membri della famiglia Razzi. Ma non è misoneismo pregiudiziale, quello che emerge da entrambi i film. Non è diffidenza nei confronti del rischio né eccesso di cautela prudenziale di fronte alle ipotesi e ai progetti di innovazione. È piuttosto una presa d’atto, diretta e senza fronzoli, di ceni limiti oggettivi della cultura imprenditoriale italiana. Il Monicelli di I panni sporchi ci dice ad esempio che i tempi sono cambiati. Che l’arte di arrangiarsi non funziona più. E che non basta uno spot in Tv per trasformare una piccola azienda familiare in una grande impresa di dimensioni nazionali. Forse, da questo punto di vista, I panni sporchi finisce per tornare ad essere, paradossalmente, un “film realista” un’operetta “morale” dal tono aspro ma dall’ animo sincero, che segna il definitivo congedo da una visione imprenditoriale e da una filosofia aziendale che hanno fatto davvero il loro tempo, e che anche in Italia, ormai, non funzionano più.