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La Cina che è anche un po’ in tutti noi
Esiste la tesi che della Cina non si dovrebbe scrivere mai, perché si tratta storicamente di un Paese dove il sistema coesiste sempre con ciò che può mutarlo e nel momento in cui lo si descrive è già cambiato. Sulla Cina si è invece scritto molto e le numerose descrizioni oscillano spesso tra due estremi: quello fondato sull’equivoco della Cina lontana, «misteriosa», incomprensibile, inspiegabile; e quello invece di una Cina vicina, che possiamo interpretare con le categorie e le logiche che sono a noi familiari e dove «siamo Chinesi a nostro modo anche noi»[1].
Se le descrizioni e le analisi sulla Cina si distinguono in merito alla distanza da cui la osserviamo e la giudichiamo – spesso o troppo lontana o troppo vicina – tutte mettono però in evidenza le medesime contraddizioni che in essa convivono. Da una parte un sistema autoritario/totalitario fondato sulla dittatura del Partito Comunista. Dall’altra l’ultimo (?) baluardo dell’attuale sistema capitalista, polo fondamentale e strenuo difensore della globalizzazione economica. Una società della «grande armonia», descritta come serbatoio di «promettenti saggezze», ma nello stesso tempo anche tanto discussa, tanto criticata e dipinta a tinte fosche come uno dei peggiori incubi del nostro futuro.
Se in questi estremi si rispecchia l’asiatica dialettica di «yin» e «yang», dove il bene contiene sempre un po’ di male e viceversa, si annida anche il rischio dell’orientalismo descritto da Edward W. Said[2]. Dobbiamo cioè scontare il tradizionale atteggiamento occidentale di dominio imperialista e di discriminazione culturale. Nello stesso tempo, dobbiamo però fare attenzione a non ricadere nell’estremo opposto e a ricercare necessariamente nell’«altro» la descrizione del nostro mondo, come nel celebre brano de Le città invisibili di Calvino, in cui Marco Polo confessa al Gran Kan che in fondo tutte le descrizioni delle città cinesi che ha visitato non sono altro che differenti versioni della sua Venezia. Spesso l’occidente considera infatti la Cina come un mezzo per proiettare all’esterno anatemi che si porta nel cuore o per trasferire all’interno delle proprie passioni una serie di fantasmi politici che non gli appartengono.
La Cina è in cambiamento. Lo è da sempre. I cinesi, attraverso il Partito, sono nello stesso tempo attratti e respinti dal cambiamento. Si chiedono continuamente se possono cambiare, se cambieranno, che cosa accadrà se cambieranno. Già nel 1861, Carlo Cattaneo osservava che «chi reputa immobile la China, se consulterà le istorie, la vedrà in agitazione continua»[3]. La Cina, ancora oggi, sembra sospesa tra tradizione e dinamismo, tra ciò che volevano essere e quello che sono diventati. Quello che si definisce, e per certi versi lo è ancora, «un Paese in via di sviluppo» è stato attraversato da una crescita e da un progresso senza confronti. Eppure, come osservava l’insigne sinologo Marcel Granet, i numeri non sono che emblemi, in cui i cinesi si guardano bene dal vedere i segni astratti e cogenti della quantità[4]. Nella sua fatica per crescere e per cambiare, in Cina è importante l’equilibrio tra «quantità» e «qualità». La crescita («prendere i pesci») non deve cioè mai rischiare di «prosciugare lo stagno», di cui l’«antico e glorioso Partito» è il solo e unico guardiano.
Sotto la guida di Xi Jinping, il Partito (e la Cina per antonomasia) sta cercando di recuperare quell’equilibrio che – a torto o a ragione – ritiene di aver perso in questi decenni di crescita. Un modello di sviluppo cioè che se non controllato (accettandone anche un rallentamento della crescita), rischia di esporre lo stesso comunismo cinese, che la Cina ha tentato di costruire e che ha gelosamente coltivato e difeso, a una crisi, se non al fallimento. E quando il futuro è incerto e a rischio la Cina guarda al suo passato. Se la pandemia ha riportato il Paese a una fase di isolamento esterno, tipica del periodo maoista, l’ascesa e il trionfo di Xi Jinping hanno caratterizzato il recupero di posizioni pedagogiche e messianiche tipiche della rivoluzione culturale cinese. Durante quest’ultima l’obiettivo era però quello di «bombardare il quartiere generale» rappresentato dallo stesso Partito, in questo caso è invece il Partito ad attaccare e a non tollerare ulteriormente che in Cina il profitto privato e le oligarchie economiche che si sono create vadano oltre un certo limite (il caso della «scomparsa» di Jack Ma, fondatore e CEO di Alibaba, ne è l’esempio).
In Cina si ripropone così la fondamentale contraddizione del capitalismo tra lo sviluppo quantitativo e la degradazione qualitativa (del lavoro e dell’ambiente) e, contemporaneamente, si testa la capacità del socialismo cinese di tenere insieme benessere collettivo e aspirazioni individuali. Questo raro e unico insieme rappresenta il cosiddetto «sogno cinese» (Zhōngguó Mèng), lo slogan lanciato da Xi Jinping a partire dal 2013. Negli Stati Uniti, unico altro Paese al mondo ad avere ideali nazionali espressi in termini onirici, lo scrittore John Steinbeck aveva già messo in evidenza la fragilità del «sogno americano», dove senza limiti né confini è difficile sapere dove mettere e conservare la propria felicità[5]. La Cina ha invece ribadito la necessità e la priorità di marcare limiti e confini alle libertà individuali e d’impresa in modo evidente e senza esitazione.
Se una società la si giudica con lo stesso metodo che ha scelto per essere giudicata, sarebbe sbagliato misurare la Cina col metro dei consumi e delle libertà individuali occidentali. Come già ricordava sul finire del Settecento l’imperatore cinese Ch’ien Lung in una lettera al re inglese Giorgio III: «Noi siamo profondamente diversi da voi e non potremmo accettare il minimo trapianto della vostra civiltà nella nostra. Non diamo nessun valore alle cose che voi ci offrite». Aggiungeva però: «Io ho un solo scopo e un solo dovere: tenere lo scettro dell’ampio mondo, mantenere un perfetto governo, adempiere i doveri dello stato»[6]. Si tratta in questo caso di un principio che vale tuttora nella Cina contemporanea. Lo slogan della «società armoniosa» (hexie shehui), introdotto nel 2004 dai leader Hu Jintao e Wen Jiabao, è diventato ufficialmente il simbolo della nuova dottrina politica elaborata dal Partito Comunista Cinese e il cavallo di battaglia nel processo di costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi. La pandemia e le recenti proteste sembrano però indicare che gli stessi cinesi non siano più disposti ad accettare le limitazioni imposte, osando addirittura criticare apertamente il loro leader e lo stesso Partito.
Le proteste di piazza – «incidenti di massa», nell’eufemismo ufficiale – non sono rare in Cina. Tendono però ad avere un focus locale: contro la corruzione dei quadri, l’accaparramento delle terre o l’inquinamento. Per la prima volta dal 1989, emerge ora un’espressione nazionale di malcontento nei confronti del governo di Pechino. Slogan come «Xi Jinping, dimettiti!» o «Partito Comunista, dimettiti!» erano impensabili fino a quando non sono stati pronunciati. Nessuna delle manifestazioni ha raggiunto i numeri di piazza Tiananmen 33 anni fa, e stanno già svanendo mentre lo stato di polizia si mette in marcia. Solo il tempo ci dirà se e quanto questa recente agitazione modificherà la tradizionale e apparente immobilità del Partito.
Secondo Granet, il popolo cinese ha un istinto gregario, che più che sulla rigida subordinazione si fonda sul rispetto della gerarchia, e insieme ha anche un temperamento anarchico, che tende però all’ordine. In questo sentimento si rispecchia la legge della massima integrazione che regola ogni rapporto in Cina: fallire insieme, oppure crescere insieme. È questa la vera sfida della Cina con sé stessa. Ma è in parte anche la nostra. Osservare la Cina è infatti un viaggio dentro noi stessi, in cui si corre il rischio di scoprire anche cose che non avremmo voluto conoscere e in cui il destino potrebbe essere quello di dover scegliere ciò che forse non vogliamo.
[1] C. Cattaneo, «La China antica e moderna», Il Politecnico, X, fasc. 56, 1861, p. 223.
[2] E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2002.
[3] Cattaneo, op. cit., p. 221.
[4] M. Granet, Il pensiero cinese, Milano, Adelphi, 1971.
[5] J. Steinbeck, La valle dell’Eden, Milano, Bompiani, 2014.
[6] Si veda L. Bertuccioli, La letteratura cinese, Firenze, Sansoni, 1968.