E&M

2023/1

Alessia Amighini

L’internazionalizzazione della moneta cinese

Mai come in questi mesi gli investitori stanno ritirando i capitali dal mercato finanziario cinese. Le ragioni sono molteplici e vanno dalla situazione economica al contesto normativo cinese, fino alla crisi geopolitica. In questa situazione si inserisce la peculiare politica monetaria cinese, che da più di un decennio, pur mantenendo un serrato controllo finanziario entro i confini nazionali, cerca di esportare il renminbi per trasformarlo da moneta domestica a valuta internazionale.

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Continua e si aggrava il deflusso netto di capitale dalla Cina. Negli ultimi mesi, secondo i dati dell’Istituto di Finanza Internazionale (IIF), gli investitori stranieri hanno venduto le loro azioni e obbligazioni cinesi per un controvalore di oltre 17 miliardi di dollari, un massimo storico. Questo sell-off, trainato principalmente dagli elevati investimenti cinesi in uscita, anche negli anni della pandemia, segue quasi due anni consecutivi di deflussi netti di portafoglio, incluso il quarto trimestre del 2021, con un deficit del conto capitale e finanziario di 320,60 miliardi di dollari, secondo quanto riporta l’Amministrazione statale dei cambi cinese. L’obbligazionario ha sofferto maggiormente: i dati del governo cinese mostrano un ritiro record degli investitori stranieri pari a 5,5 miliardi di dollari di titoli di stato cinesi a febbraio, la più grande riduzione mensile mai registrata, secondo la China Central Depository and Clearing, seguita da un nuovo massimo di oltre 8 miliardi di dollari a marzo.

Figura 1 Flussi netti di capitale dalla Cina, in miliardi di dollari

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Fonte: tradingeconomics.com.

Dunque, dopo aver aumentato rapidamente la loro esposizione tra il 2014 e il 2018, ora gli investitori stanno abbandonando la Cina in un modo che non ha precedenti, considerando che l’ultima volta che la Cina aveva sperimentato una simile fuga di capitali era tra il 2015 e il 2017 e che in tale occasione aveva richiesto pesanti controlli di capitale per arrestare il deflusso. L’IIF ha parlato di vera e propria fuga di capitali «senza precedenti» da parte degli investitori esteri, soprattutto perché durante questo periodo non ci sono stati deflussi simili da altri mercati emergenti.

Si noti che, al contrario, secondo i dati del Ministero del Commercio cinese gli afflussi di investimenti diretti esteri in Cina hanno raggiunto il livello record di 173 miliardi di dollari nel 2021, con un aumento del 20 per cento rispetto all’anno precedente, e questo perché il mercato interno cinese, sebbene cresca a ritmi inferiori al passato, è enorme.

Crisi economica e instabilità geopolitica

Le motivazioni di questa fuga sono principalmente quattro: due interne, due internazionali.

Innanzitutto, le prospettive di crescita economica interna si sono deteriorate nel primo trimestre del 2022. Sebbene il dato aggregato sul trimestre sia stato accolto come ampiamente positivo (4,8 per cento rispetto al 4,4 per cento atteso), in realtà il mese di marzo ha visto il consumo molto indebolito rispetto allo stesso mese del 2021. Ed è marzo il mese più significativo tra i primi tre dell’anno, perché i primi due mostrano sempre una forte e vivace stagionalità dovuta al Capodanno cinese. Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente tagliato le sue previsioni di crescita per la Cina al 4,4 per cento, dal 4,8 per cento, citando i rischi della rigida politica «Covid zero» di Pechino. Il dato è ben al di sotto della previsione ufficiale della Cina, che si attesta al 5,5 per cento circa. La politica «Covid zero» ha peggiorato le prospettive di crescita, e l’allargamento in corso dei lockdown, da Shanghai a Pechino, ha reso consapevoli gli investitori esteri che la pandemia in Cina è tutt’altro che sotto controllo.

Una seconda motivazione interna riguarda il contesto regolamentare e normativo, che in Cina è tutt’altro che trasparente e prevedibile. Gran parte dell’attuale sfiducia degli investitori nelle prospettive che il paese diventi davvero attrattivo sul fronte finanziario può essere ricondotta all’ampio giro di vite normativo sul settore privato, che è stato scatenato dal presidente Xi Jinping nel 2020. C’è il timore che il governo continui quest’anno a porre un freno a settori che vanno dall’istruzione alla tecnologia. Una serie di regole svelate lo scorso luglio ha essenzialmente chiuso l’industria dell’istruzione privata, un business da 120 miliardi di dollari, mettendo decine di migliaia di aziende fuori mercato. Un’altra decisione dei regolatori di vietare DiDi – la più grande app di corse in vettura con autista del paese – pochi giorni dopo la sua IPO negli Stati Uniti ha stupito gli investitori internazionali ed è costata cara. Il giro di vite ha portato a un forte sell-off delle azioni cinesi in tutto il mondo.

Passando alle ragioni esterne, la più importante è certamente il rialzo dei tassi di interesse altrove, soprattutto negli Stati Uniti, che rende la Cina un posto poco attraente dove investire. E le aspettative sul differenziale non possono che aumentare, visto che la Federal Reserve ha già annunciato nuovi rialzi e viceversa la People’s Bank of China (PBoC) non potrà che mantenere una politica espansiva, date le condizioni della domanda. All’inizio di ottobre 2022, i rendimenti dei titoli di stato cinesi a 10 anni sono scesi sotto i rendimenti del Tesoro USA per la prima volta in 12 anni.

Secondo Preqin, società londinese di analisi dei dati sugli investimenti, nel primo trimestre del 2022 i fondi americani che investono in Cina hanno attratto solo 1,4 miliardi di dollari, in calo del 70 per cento rispetto al trimestre precedente. Un altro sondaggio di Bain & Company ha invece mostrato che i fondi di private equity focalizzati sulla Grande Cina hanno attratto 28 miliardi di dollari in nuovi finanziamenti per la seconda metà dello scorso anno, in calo del 54 per cento rispetto al primo semestre, poiché gli investitori globali sono sempre più preoccupati per l’incertezza politica ed economica del mercato cinese.

Infine, sul fronte geopolitico, il protrarsi della guerra in Ucraina e l’inasprirsi delle sanzioni contro la Russia, in un contesto di «amicizia sconfinata» di quest’ultima con la Cina, hanno aumentato la probabilità che in futuro anche la Cina possa essere colpita da sanzioni, per lo meno in maniera indiretta. Soprattutto anticipando le pressioni che nel 2023 Pechino eserciterà su Taiwan per favorire il candidato filocinese in occasioni delle primarie, il che potrebbe riaprire le tensioni in Asia orientale. A riprova dell’importanza di questo elemento geopolitico, di recente si sono intensificati i deflussi di portafoglio anche da Taiwan.

Il renminbi verso l’internazionalizzazione

La conseguenza immediata della fuga degli investitori, lo yuan al proprio minimo da sei mesi contro il dollaro americano, non potrà compensare le aspettative in calo sull’andamento dell’attività economica in Cina, perché la maggior competitività di prezzo da un lato non è più un motore per l’export cinese e dall’altro rende più costose le importazioni di tecnologia e conoscenza che alla Cina servono ancora in misura massiccia.

In questo contesto, come procede la politica cinese di rendere il renminbi una valuta internazionale? Il renminbi a tutt’oggi è una valuta non convertibile, che cioè non circola liberamente al di fuori dei confini cinesi. L’internazionalizzazione del renminbi è un obiettivo del governo di Pechino almeno dal 2009. A oggi l’impatto di questa strategia è misurato non tanto dalla portata ancora limitata delle riforme del settore valutario e finanziario cinese, ma semplicemente dalla forte crescita dell’uso della valuta cinese per i pagamenti degli scambi internazionali della Cina: attualmente circa il 25 per cento di queste transazioni, rispetto a meno dell’1 per cento nel 2009. Secondo i dati regolarmente pubblicati dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (SWIFT), il renminbi è sesto nella classifica delle monete maggiormente utilizzate nei pagamenti internazionali, con una quota pari all’1,6 per cento. Si tratta di una quota estremamente modesta, se paragonata a quella del dollaro (40,6 per cento) e dell’euro (33,3 per cento). Tuttavia, mercati abbastanza liquidi e diversificati per il renminbi esistono ora a Hong Kong, Londra, Singapore e nella maggior parte dei centri finanziari internazionali di tutto il mondo.

Nonostante tali progressi, il renminbi è evidentemente ancora una moneta in divenire e non una vera e propria valuta internazionale. Non è affatto una «grande moneta» come il dollaro, il cui utilizzo si estende oltre l’ambito delle transazioni internazionali. Se è vero, parafrasando il premio Nobel per l’economia Robert Mundell, che «le grandi nazioni possiedono grandi monete», la mancanza di una vera e propria moneta – e quindi la necessità di utilizzare il dollaro nella maggior parte delle transazioni internazionali – limita le possibilità della Cina nell’utilizzare le notevoli risorse finanziarie di cui dispone per realizzare i propri obiettivi economici e politici. La mancanza di una valuta che circoli internazionalmente e che riduca la dipendenza della Cina dal dollaro indebolisce il paese sia nelle relazioni internazionali bilaterali sia in quelle multilaterali. Per questo motivo la Belt and Road Initiative (BRI) include anche il pilastro della cooperazione finanziaria, in sinergia con gli altri obiettivi dell’iniziativa.

Dal 2009 la Cina è il più grande esportatore del mondo e nel 2019 il commercio estero rappresentava oltre il 35 per cento del suo Pil. Ogni giorno la Cina esporta in media per un controvalore di quasi 8 miliardi di dollari, e importa per quasi 6 miliardi di dollari. Dunque, ogni giorno la Cina deve gestire una massa enorme di liquidità in dollari e convertirli in renminbi, poiché l’uso del renminbi come mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore è volutamente limitata dalle autorità cinesi.

Il grande avanzo commerciale che la Cina ha registrato sin dalla metà degli anni Ottanta ha comportato una complessa gestione monetaria e valutaria, nonché una forte dipendenza finanziaria e politica dal dollaro. La volontà di mantenere una ristretta convertibilità del renminbi e i controlli di capitale (per evitare che fuggano dal Paese in cerca di migliori opportunità di impiego) restringono la circolazione della valuta nazionale al di fuori della Cina. Perciò le autorità monetarie cinesi, che non vogliono rinunciare alla stabilità di un sistema finanziario e valutario protetto, si ritrovano in estrema sintesi a dover incoraggiare l’uso del renminbi all’estero.

Nei suoi primi anni di vita, la BRI ha offerto un’occasione a favore dell’internazionalizzazione del renminbi: attraverso l’aumento del commercio e degli investimenti nei Paesi partner ha fatto aumentare in modo significativo la domanda di renminbi al di fuori dei confini nazionali e ha in tal modo creato le condizioni per estenderne la circolazione all’estero. L’aspetto più interessante di questa strategia è la modalità, estremamente innovativa e ingegnosa, con cui la Cina intende far circolare il renminbi nel mondo: un sistema di convertibilità controllata fondato su depositi di renminbi in una rete di banche di vari Paesi e, più di recente, attraverso l’emissione di una valuta digitale che possa essere usata anche nei pagamenti internazionali.

La cooperazione e il sostegno finanziario rientrano tra i pilastri fondamentali della BRI. Secondo il governatore della PBoC, Yi Gang, rispetto al futuro della connettività finanziaria, oggetto del secondo Belt and Road Forum tenutosi a Pechino nel 2019, la Cina ha compiuto grandi progressi in materia di sostegno finanziario dato alla BRI.

In primo luogo, le istituzioni finanziarie cinesi hanno fornito l’equivalente di più di 440 miliardi di dollari per la BRI, tra cui oltre 320 miliardi di renminbi convogliati attraverso i canali preposti alla circolazione estera del renminbi. Il mercato dei capitali cinese ha fornito oltre 500 miliardi di renminbi in finanziamenti azionari per le imprese interessate. Inoltre i Paesi e le imprese aderenti alla BRI hanno raccolto più di 65 miliardi di renminbi emettendo «Panda Bond» nel mercato cinese, cioè titoli obbligazionari denominati in renminbi, emessi da emittenti con sede al di fuori della Repubblica Popolare Cinese.

In secondo luogo, i servizi finanziari sono diventati più sofisticati. Alla fine del 2018, 11 banche cinesi hanno aperto 76 filiali in 28 paesi aderenti alla BRI e circa 50 banche in 22 paesi della BRI hanno attività commerciali in Cina. Esse forniscono una più ampia varietà di prodotti e servizi finanziari, tra cui credito, garanzie, sottoscrizione di obbligazioni, fusioni e acquisizioni, gestione del rischio, compensazione e così via.

In terzo luogo, la cooperazione internazionale si è approfondita. La PBoC ha firmato accordi bilaterali di swap in valuta locale con 21 banche centrali di Paesi della BRI. I meccanismi di cooperazione interbancaria nella BRI hanno lavorato costantemente per migliorare il dialogo tra istituzioni finanziarie, tra cui l’Associazione Interbancaria Cina-CEEC (Central and Eastern European Countries) e l’Associazione Interbancaria SCO (Shanghai Cooperation Organization). Il governatore della PBoC ha inoltre dichiarato che l’apertura del settore finanziario cinese può svolgere un ruolo nel sostenere e promuovere la BRI, in quanto lo sviluppo e l’apertura del mercato obbligazionario in valuta locale mobilitano efficacemente il capitale a lungo termine. Un maggiore utilizzo della valuta locale contribuisce poi a ridurre i rischi di cambio e di disallineamento valutario. Insomma, non solo la connettività finanziaria sostiene lo sviluppo regolare e sostenibile della BRI, ma la BRI stessa richiede un sistema di investimento e di finanziamento aperto e basato sul mercato, che la Cina dichiara di voler realizzare.

Quale politica monetaria

Due sono le strade lungo le quali Pechino sta cercando di favorire l’ascesa del renminbi allo status di valuta internazionale. Da un lato, le autorità cinesi utilizzano la leva della dimensione e della potenza dell’economia cinese per incoraggiarne l’uso nelle transazioni bilaterali con l’estero, sulla base di una sua presunta convenienza rispetto a qualunque valuta di Paesi terzi, in particolare del dollaro. Dall’altro lato, l’uso internazionale del renminbi è perseguito per effetto coercitivo, sebbene indiretto, derivante dalla grande influenza economica della Cina sulle economie di molti paesi del mondo, che si traduce in potere politico di persuasione.

In un modo o nell’altro, il renminbi deve essere reso più attrattivo per i potenziali utenti. In breve, deve essere reso competitivo. Al momento, di tutti i fattori che concorrono a far emergere una domanda internazionale di renminbi (oltre a quella motivata dalla necessità di regolare il commercio bilaterale con la Cina) è la dimensione economica a spiccare come asso nella manica. L’economia cinese è già un gigante – la seconda più grande del mondo – e in un altro decennio potrebbe superare gli Stati Uniti. Il Paese è ora anche il leader mondiale delle esportazioni e il secondo più grande mercato per le importazioni, il che crea un notevole potenziale per le esternalità di rete. Più di cento Paesi considerano oggi la Cina come il loro più importante partner commerciale. Sono invece quasi totalmente assenti tutti gli altri fattori, tra cui spicca l’insufficiente sviluppo del mercato finanziario interno.

Il governo cinese da qualche anno sta cercando di realizzare un’internazionalizzazione gestita del renminbi facendo leva sulla convenienza e sulla persuasione, in due ambiti: il commercio estero e la finanza. Nel commercio estero sono stati avviati accordi di currency swap con banche centrali estere per facilitare l’uso del renminbi come mezzo di pagamento. A una lettura superficiale, l’obiettivo contingente degli accordi di swap è quello di avere un’assicurazione contro il tipo di rischi che potrebbero derivare da un’altra crisi finanziaria globale. La disponibilità di finanziamenti in renminbi in caso di emergenza offrirebbe ai partner commerciali cinesi un’utile copertura contro qualsiasi futura crisi di liquidità. Ma le strutture sono anche progettate per fornire renminbi, quando lo si desideri, da utilizzare nel commercio bilaterale su base più regolare, per fornire un incoraggiamento indiretto all’uso commerciale della valuta cinese. A livello privato, infatti, le normative sono state gradualmente alleggerite per consentire la fatturazione e il pagamento di un maggior numero di transazioni commerciali in renminbi, evitando le tradizionali valute di fatturazione come il dollaro. Più direttamente, a partire dal 2009, Pechino ha gradualmente ampliato la gamma delle transazioni commerciali che possono essere regolate in renminbi, promuovendo ulteriormente l’uso della valuta da parte dei non residenti.

L’altro ambito è la finanza internazionale. L’accento è stato posto sullo sviluppo di mercati attivi per i depositi in renminbi e sulle obbligazioni denominate in renminbi, principalmente «offshore» a Hong Kong, l’ex colonia della corona britannica che dal 1997 è una «regione amministrativa speciale» della Cina. Come vedremo in seguito, Hong Kong è una componente fondamentale della strategia valutaria e finanziaria della RPC che ha servito finora come firewall finanziario, permettendo a Pechino di restare efficacemente isolata dall’instabilità della finanza internazionale, pur dovendo movimentare quotidianamente un’immensa mole di dollari derivanti dai pagamenti del commercio con l’estero.

A oggi la pista del commercio ha visto molti più progressi rispetto a quella della finanza. La «Lunga Marcia» del renminbi è iniziata alla fine del 2008, quando la PBoC iniziò a negoziare una serie di accordi di swap di valuta locale per fornire, quando necessario, finanziamenti in renminbi ad altre banche centrali da utilizzare negli scambi con la Cina. Sei anni dopo erano stati firmati patti con oltre venti economie, tra cui importanti attori come Argentina, Australia, Brasile, Gran Bretagna, Indonesia, Russia, Singapore, Corea del Sud, Svizzera ed Emirati Arabi Uniti. Le dimensioni dei singoli swap variano notevolmente, da appena 700 milioni di renminbi (circa 110 milioni di dollari) per l’Uzbekistan e due miliardi di renminbi (322 milioni di dollari) per l’Albania a 360 miliardi di renminbi (58 miliardi di dollari) per la Corea del Sud e 400 miliardi di renminbi (65 miliardi di dollari) per Hong Kong. Il totale delle agevolazioni ammonta a circa 2,7 trilioni di renminbi (435 miliardi di dollari).

Finora l’uso è stato prevalentemente locale. Ben l’80 per cento degli scambi commerciali stabiliti in renminbi si è svolto tra la Cina continentale e Hong Kong. Ma la fatturazione in renminbi si sta gradualmente diffondendo e si prevede un ulteriore sostanziale aumento dell’utilizzo della valuta a fini commerciali negli anni a venire. I risultati sul fronte finanziario, invece, seppur non trascurabili, sono stati meno impressionanti. Per la maggior parte Pechino ha proceduto con cautela, contando molto sullo status speciale di Hong Kong come regione amministrativa speciale. Con la propria valuta e i propri mercati finanziari, Hong Kong offre un utile laboratorio offshore per sperimentare innovazioni che la leadership non è ancora pronta a introdurre «onshore» sulla terraferma. Il modello è a dir poco inusuale: mai prima d’ora un governo aveva cercato deliberatamente di sviluppare un mercato offshore per la propria valuta, pur mantenendo un rigoroso controllo finanziario in patria.