E&M

2022/1

Fabrizio Perretti

Saper ascoltare il silenzio: cosa ci dice la great resignation

Da che cosa fuggono i quasi 4 milioni di lavoratori che negli Stati Uniti, a partire dal mese di luglio 2021, hanno deciso di lasciare il proprio lavoro? Da situazioni di disagio, da ambienti di lavoro tossici, da orari di lavoro folli, da condizioni di burnout , ovvero di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale. È come se la pandemia avesse mostrato che quei lavori considerati come desiderabili non erano poi di fatto così appaganti come sembravano o come li avevano raccontati o come volevamo illuderci che fossero. La great resignation , che non riguarda soltanto i lavoratori con salario più basso e con condizioni lavorative meno agiate, ma sta coinvolgendo anche i lavoratori delle fasce medie, nascere da una logica di tipo push, di chi viene spinto fuori da una situazione di discontento e – in fuga – preme verso l’uscita. Da questa situazione le imprese non ne escono bene, o perché non risultano così attraenti come immaginavano nel trattenere i propri dipendenti, oppure perché si scoprono ambienti di lavoro deludenti che si desidera abbandonare.

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Negli Stati Uniti è stata definita la great resignation o big quit. Si tratta della grande ondata di dimissioni dal lavoro che, a partire dal mese di luglio 2021, ha superato la soglia dei 4 milioni[1] e che attraversa, seppure in misura minore, anche l’Europa e soprattutto la Germania e il Regno Unito[2]. La cosa interessante è che non riguarda soltanto i lavoratori appartenenti ai settori più colpiti dalla pandemia (come gli alberghi, i ristoranti o i negozi) o, più in genere, i lavoratori con salario più basso e con condizioni lavorative meno agiate, ma sta coinvolgendo anche i lavoratori delle fasce medie, anche nei settori più avanzati[3], anche in Italia[4].

Questo fenomeno potrebbe essere ricompreso in quella che Hirschman ha definito l’opzione «exit»[5]. L’uscita, insieme all’opzione «voice», rappresenta infatti una delle due alternative che segnalano il cattivo funzionamento di un’organizzazione e il relativo disagio e scontento da parte di chi le esercita. In genere si tratta, soprattutto nel caso dei lavoratori, di opzioni sequenziali: chi non è soddisfatto prima comunica la propria condizione a chi potrebbe eventualmente porvi rimedio (datore di lavoro o sindacati), poi eventualmente prosegue con azioni di protesta o sciopero, infine – se l’opzione «voice» non ha avuto seguito – può eventualmente contemplare l’interruzione del rapporto di lavoro, rassegnare le dimissioni e adottare quindi l’opzione «exit». In questo caso l’opzione risulta però praticabile se esistono delle alternative di impiego. Se queste esistono, non è nemmeno necessario che si ricorra in via preliminare all’opzione «voice». In mancanza di queste, invece, tale opzione diventa l’unica perseguibile.

Se leggiamo l’ondata delle dimissioni secondo questa prospettiva, nel momento in cui gli interventi dei governi hanno supportato il reddito di alcuni lavoratori quando la loro attività lavorativa si è fermata, questi – una volta che la pandemia si è attenuata e l’attività è ripresa – hanno comunque deciso di non rientrare nei posti di lavoro precedenti. Di fronte a un’alternativa di reddito garantito molti hanno cioè deciso di uscire dal mondo del lavoro. Ma questa è un’interpretazione riduttiva e non coglie – se non parzialmente – una porzione del fenomeno. E in ogni caso indica comunque che molte posizioni di lavoro, al di là della retorica del lavoro come componente essenziale della nostra persona e come opportunità di crescita umana e professionale, sono di fatto il frutto di una scelta obbligata e che si abbandona, senza esitazioni, una volta che vi sia la possibilità di farlo.

Nel momento però in cui a lasciare i posti di lavoro non sono i lavoratori più svantaggiati per salario o condizioni lavorative, ma quelli che invece occupano posizioni in apparenza migliori e in settori più avanzati, allora la prospettiva cambia radicalmente. Spesso, infatti, si tratta di persone che decidono di licenziarsi senza avere ancora prospettive certe sul loro futuro, senza avere un nuovo posto di lavoro già in tasca che sostituisca il precedente. Si tratta, naturalmente, di persone che si possono permettere tale situazione. Che possono cioè fare affidamento sui loro risparmi, almeno per un certo periodo di tempo, o che sono disposte ad accettare anche una riduzione del proprio reddito a favore di condizioni di lavoro migliori, in grado di conciliare le esigenze della loro vita familiare e privata. Secondo molti osservatori la pandemia ha modificato le nostre priorità e tali scelte sono il risultato di chi ha deciso di optare per il carpe diem e per la cosiddetta Yolo («You Only Live Once») economy. Poiché si vive una volta sola, è aumentata la propensione al rischio e quindi a cercare nuovi lavori più appaganti o nuovi equilibri lavoro/tempo libero più soddisfacenti.

Questa però è una giustificazione che potremmo definire di tipo «pull»: intravedo cioè la possibilità di qualcosa di nuovo, di migliore, che mi attrae e che cerco di realizzare. La pandemia ci ha cioè permesso di intravedere mondi possibili, di cui non sospettavamo l’esistenza o che non avevamo mai avuto modo di sperimentare. Più che una great resignation quello che stiamo osservando è quindi – come l’ha definito il CEO di LinkedIn Ryan Roslansky – un great reshuffle, un rimescolare le carte con la speranza di avere una mano migliore[6].  Ma se non fosse solo questo? Molti di coloro che si licenziano lasciano, infatti, un lavoro che non piace[7]. Non vogliono cioè spostarsi da una posizione positiva a un’altra posizione ancora più vantaggiosa, bensì abbandonare una situazione negativa. Più che un rimescolio, si assisterebbe – anche nel caso dei lavoratori meno svantaggiati – a una fuga. Da che cosa fuggono? Da situazioni di disagio, da ambienti di lavoro tossici, da orari di lavoro folli, da condizioni di burnout, ovvero di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale. È come se la pandemia avesse mostrato che quei lavori considerati come desiderabili non erano poi di fatto così appaganti come sembravano o come li avevano raccontati o come volevamo illuderci che fossero. La pandemia avrebbe cioè aperto gli occhi di molti, in una sorta di risveglio collettivo da un sogno che era diventato incubo. La great resignation nascerebbe quindi da una logica di tipo push, di chi viene spinto fuori da una situazione di discontento e – in fuga – preme verso l’uscita. Sia in un caso (pull) sia nell’altro (push), le imprese non ne escono bene, o perché non risultano così attraenti come immaginavano nel trattenere i propri dipendenti, oppure perché si scoprono ambienti di lavoro deludenti che si desidera abbandonare.

In entrambi i casi la pandemia ha giocato un ruolo cruciale, ma dovremmo evitare di usarla come deus-ex-machina. Più che la causa è stata più propriamente la scintilla che ha innescato l’incendio. Ma un incendio si sviluppa solo se trova terreno e materiali di combustione idonei che si sono accumulati con il tempo. Se queste situazioni erano già presenti prima della pandemia, come mai non sono emerse? In teoria l’opzione «voice» avrebbe dovuto essere in grado di cogliere questi segnali. Il paradosso è che, rispetto al lavoro fondato sulla manodopera, per i lavori fondati sull’intelletto questa opzione risulta altrettanto limitata. Si tratta infatti di categorie di lavoratori tradizionalmente e strutturalmente poco sindacalizzati, che spesso non possono che affidare le proprie richieste agli strumenti, dove presenti, che le aziende mettono a loro disposizione (per esempio le indagini di clima). Ma questi sono strumenti che rilevano un’esigenza condivisa solo come sommatoria di posizioni individuali, all’interno di un sistema che spesso premia, celebra e incentiva il raggiungimento dei risultati, e quindi inevitabilmente le condizioni di lavoro che ne sono a fondamento. È interessante, infatti, che tali fenomeni di dimissioni abbiano avuto maggiore prevalenza nelle nazioni più avanzate e con tassi di produttività più elevati. Scopriamo così che la produttività tanto esaltata può avere un costo molto elevato, dimenticandoci che – anche in questo caso – non esistono pasti gratis.

L’ondata di dimissioni è stata quindi preceduta in molte imprese da un prolungato silenzio interno. Ed è proprio a causa di questo silenzio che queste stesse imprese – che adesso devono fronteggiare una carenza di lavoratori disposti a ritornare – si sono trovate spiazzate. Perché in assenza di voce, hanno interpretato il silenzio come segnale di lealtà nei loro confronti. E come spesso accade spesso ci si focalizza su una minoranza rumorosa, magari tentando di ridurla al silenzio, invece che concentrarsi su una maggioranza silenziosa, cui riconoscere maggior voce.

 

Il dossier di questo numero è dedicato alla cultura e alle imprese e organizzazioni che la gestiscono. I beni culturali rappresentano un patrimonio fondamentale, soprattutto per un Paese come il nostro, che ne è così ricco. Per preservare tale patrimonio è però opportuno gestirlo correttamente, trovando un equilibrio tra le risorse richieste e la capacità di reperirle, tra la necessità di conservarlo e proteggerlo e nello stesso tempo di renderlo fruibile e accessibile. Una sfida difficile che gli articoli di questo dossier cercano di illustrare fornendo alcuni strumenti ed esempi che possono essere utili nell’affrontarla. Buona lettura! 

 

 

 

 

5

«Quits Levels and Rates by Industry and Region, Seasonally Adjusted», U.S. Bureau of Labor Statistics (consultato nel dicembre 2021).

7

I. Cook, «Who Is Driving the Great Resignation?», Harvard Business Review, 15 settembre 2021.

8

«Le grandi dimissioni: perché dopo il Covid molti stanno cambiando lavoro», L’Economia-Corriere della Sera, 4 ottobre 2021.

9

A.O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States (Vol. 25), Cambridge, Harvard University Press, 1970.

 

10

R. Roslansky, «Navigating the Great Reshuffle», LinkedIn, 9 settembre 2021.

11

«What Quitters Understand About the Job Market», The Atlantic, 21 giugno 2021.