E&M

2021/1

Antonella Agnoli

Il ruolo sociale e culturale delle biblioteche

Le biblioteche pubbliche rappresentano, almeno sulla carta, perfetti luoghi di coworking e spazi fondamentali per il sostegno al lavoro femminile. Vista la recente estensione dello smartworking, le stesse aziende private dovrebbero avere interesse a supportarle offrire ai propri dipendenti valide alternative rispetto al proprio domicilio. Inoltre, per limitare le disuguaglianze educative presenti nel nostro Paese – oggi accentuate dalle conseguenze della pandemia – occorre pensare a forme di collaborazione permanente fra teatri, musei, biblioteche e scuole. Un network in grado di garantire a tutti gli stessi servizi e la stessa formazione.

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Iniziamo dalle donne. Se è vero che questo articolo ha come tema le biblioteche all’interno dei variegati mondi culturali del nostro Paese, per ragioni che diventeranno subito chiare è opportuno partire da quella «metà del cielo» che è contemporaneamente «più» della metà, in termini di popolazione, e «meno» della metà, per quanto riguarda il reddito e la considerazione sociale.

L’impatto del Covid-19 sulle donne è sotto gli occhi di tutti: a causa della chiusura dei servizi essenziali o della didattica a distanza nelle scuole, i mesi di lockdown hanno costretto molte donne a passare più tempo a casa con meno lavoro retribuito e molto più lavoro non retribuito. Per le donne, il rischio di perdere il proprio impiego è stato – ed è tutt’ora – molto più elevato rispetto agli uomini. Come ha rilevato Roberta Carlini a partire da un dossier Istat dedicato all’uguaglianza e all’emergenza sanitaria[1]: «Sono donne il 64,4 per cento delle persone impiegate nell’assistenza sanitaria e l’83,8 per cento nell’assistenza sociale non residenziale, entrambi settori che l’Inail ha classificato al livello di rischiosità più elevato tra i lavori nella pandemia. Su un totale di 1 milione e 343mila donne occupate nei settori della sanità e assistenza sociale, 417mila (quasi un terzo) hanno un figlio di età inferiore ai 15 anni, con le relative difficoltà a occuparsene per la totale o parziale chiusura delle scuole e degli asili»[2].

Secondo una ricerca del centro Genders dell’Università degli Studi di Milano, il maggior carico di lavoro relativo all’assistenza scolastica dei figli è pesato sulle donne (qualcuno davvero si aspettava qualcosa di diverso?). L’«effetto lockdown» ha quasi ovunque consolidato e aggravato gli squilibri di genere esistenti[3].

L’Italia è il Paese nel quale le scuole sono state chiuse prima e più a lungo. Inoltre, le chiusure stop-and-go degli ultimi mesi e il distanziamento forzato dai nonni, per molte famiglie il pilastro della conciliazione tra vita privata e lavorativa, ancora una volta sono gravati essenzialmente sulle donne.

Povertà educativa e dispersione scolastica

Quanto descritto contribuirà ad aumentare gravemente la povertà educativa, già endemica nel nostro Paese e in particolare nel Mezzogiorno. L’ultimo rapporto di Save The Children spiega che ci sarà un «incremento della dispersione scolastica, così come del numero di giovani tagliati fuori da percorsi di studio, di formazione o lavorativi, tutti fenomeni già ben presenti prima dell’arrivo del virus»[4]. E ancora: «Nel nostro Paese quasi uno studente al 2° anno delle superiori su 4 (24 per cento) non raggiungeva le competenze minime in matematica e in italiano, il 13,5 per cento abbandonava la scuola prima del tempo e più di 1 su 5 (22,2 per cento) andava a incrementare l’esercito dei NEET, cioè di coloro che non studiano, non lavorano e non investono nella formazione professionale»[5].

E le biblioteche cosa c’entrano? C’entrano, perché, durante la pandemia, occorrono luoghi sicuri, strutture che siano contemporaneamente di cultura, di creatività e di assistenza. Questi luoghi devono non solo essere potenziati dal punto di vista delle infrastrutture (più WiFi per favore!), ma soprattutto dovrebbero lavorare in collaborazione permanente con le scuole e i musei.

 Moltissime biblioteche italiane hanno buone sezioni per ragazzi, con centinaia di libri che possono essere letti, guardati, stropicciati e anche addentati dai più piccoli. È così difficile immaginare di rafforzare gli organici, di organizzare incontri e letture quotidiane ovviamente con le opportune precauzioni? È davvero impossibile adibire in ogni biblioteca uno spazio ad hoc, gestito da un’operatrice, dove far giocare e leggere i bambini più piccoli? Uno spazio pensato anche per le madri, per garantirgli la possibilità di lavorare a distanza (un lavoro che oggi per loro non è affatto «agile», né «smart»), con una connessione WiFi stabile, magari con una documentazione più ampia e di facile accesso, con la possibilità di scambiare due chiacchiere con qualcuno e, soprattutto, in un contesto in cui non debbano conciliare forzatamente il lavoro d’ufficio con le richieste del figlio o dei figli e senza dover condividere uno spazio angusto con l’altro componente della famiglia.

Nella scorsa primavera la quota di lavoratori italiani che almeno una volta a settimana ha lavorato da casa è aumentata vertiginosamente e, per le donne occupate in coppia con almeno un figlio sotto i 14 anni, la percentuale di lavoro a distanza è arrivata al 26,3 per cento; una condizione che non è sostenibile a lungo. Forse anche le aziende avrebbero interesse a sostenere le biblioteche pubbliche come luoghi di coworking, dove si possa vedere qualcuno, fare una pausa, scoprire un libro o un articolo scientifico più complessi e utili di quanto riportato su Wikipedia; insomma, un luogo che offre condizioni in cui il lavoro dei dipendenti si più produttivo.

Le biblioteche, naturalmente, potrebbero – e dovrebbero – fare ben altro per aiutare le madri con bambini: corsi interattivi di storia e geografia, oppure di lingue; lezioni di scacchi o di cucito; laboratori di ceramica, di falegnameria, di scrittura. L’elenco di quanto fanno le biblioteche scandinave o gli idea store londinesi occuperebbe tutto lo spazio di questo contributo, e forse di più. Soprattutto, le biblioteche potrebbero (o meglio, dovrebbero) diventare punti di riferimento, oasi di cultura in un mondo sempre più ignorante[6].

Il ground zero delle biblioteche italiane

Sembra ingenuo, o quanto meno velleitario, parlare adesso di quanto le nostre biblioteche dovrebbero fare: per loro, l’epidemia da Covid-19 è stata l’equivalente di un’esplosione nucleare, con sale di lettura chiuse, libri da disinfettare, utenti forzatamente tappati nelle loro case, dove magari scoprivano Netflix o chattavano freneticamente con gli amici per tirarsi su di morale. Nel linguaggio della guerra nucleare, ground zero è il punto di esplosione della bomba, l’area di massima distruzione, dove non rimane più nulla. Penso, tuttavia, che proprio dalle macerie tra cui camminiamo possiamo riprendere il cammino.

Per capire meglio la situazione occorre però ricordare che le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono avvenute dopo che il Giappone la guerra l’aveva già persa. E noi, come bibliotecari che da decenni sostengono un modello di biblioteca sociale, inclusiva e attiva, la nostra guerra l’avevamo già persa prima, quando non siamo riusciti a istituzionalizzare un approccio diverso, a ottenere i fondi necessari, ad assumere nuovo personale, a cercare tra i giovani chi fosse esperto di videogiochi o di animazione teatrale, invece che di catalogazione.

È stata una guerra iniziata negli anni Settanta per importare in Italia l’idea della biblioteca pubblica anglosassone: una biblioteca amichevole, priva di barriere, che mettesse al centro delle sue preoccupazioni l’utente. Una battaglia combattuta eroicamente, questo va sottolineato, da bibliotecari che in Lombardia, in Emilia, in Toscana, nelle Marche hanno lavorato ben più di quanto avrebbero dovuto; hanno usato la fantasia, la cultura, l’empatia per trasformare istituzioni di cui ai sindaci e ai presidenti di regione non importava granché. Ma cos’è successo da Roma in giù? Quante sono le biblioteche campane, calabresi, siciliane? Quante ore la settimana restano aperte?

Se andiamo a Torino, a Bologna, a Cinisello, a Pistoia, a Fano troviamo belle biblioteche, bravi bibliotecari, strutture funzionanti: ma nel resto d’Italia? Le biblioteche erano le cugine povere del complesso mondo cultura-spettacolo, e sono state le prime a soccombere. In molte parti d’Italia abbiamo perso. Non dimentichiamo però che le biblioteche belle e funzionanti esistono. A partire da queste esperienze-modello, e dal lavoro fatto in molte città medio-piccole del Centro-Nord, dove la qualità della vita per i cittadini è effettivamente migliorata, possiamo e dobbiamo ripartire.

La primavera scorsa, durante il lockdown ci sono state numerose consultazioni fra teatri, cinema, orchestre, musei perché improvvisamente tutti hanno capito quanto vulnerabile fosse l’intero comparto cultura-spettacolo. A queste riunioni le biblioteche non sono state nemmeno invitate. Eppure il tessuto culturale di un Paese non solo comprende biblioteche e scuole, ma non può neppure immaginarsi funzionante senza queste istituzioni. Occorre dunque pensare a un futuro in cui non ci sia una semplice consultazione fra teatri, musei, biblioteche e scuole: ci vuole molto di più. Occorre una collaborazione permanente, soprattutto con le scuole. Ripetiamolo: i ragazzini chiusi in casa, spesso con una connessione WiFi insufficiente o un semplice telefonino, come recupereranno il tempo perduto? La didattica a distanza è di per sé uno svantaggio: lo è immensamente di più se si svolge in case piccole, senza strumenti adatti, senza genitori capaci di fornire un sostegno. Le disuguaglianze, già molto diffuse prima dello scoppio della pandemia, colpiscono chi già era in difficoltà, e il rischio è che possano aumentare in futuro.

I mondi della cultura non sono tutti uguali

Biblioteche, archivi e musei si sono sviluppati storicamente da radici comuni: tutti erano strettamente legati ai progetti di costruzione degli Stati-nazione nel XVIII e XIX secolo, che richiedevano enti per documentare la cultura nazionale e per istituire procedure amministrative efficienti. Insieme all’istruzione obbligatoria, si tratta di istituzioni legate all’età dell’Illuminismo che aveva bisogno di strutture alternative a quelle della Chiesa per diffondere la conoscenza prodotta. La scienza moderna presupponeva istituzioni in cui gli accademici potessero avere accesso alle opere dei colleghi, contribuendo così a creare un sistema di comunicazione che permettesse rapidi progressi. In alcuni casi, biblioteche e musei sono nati come un’unica organizzazione integrata, per esempio il British Museum era la biblioteca dove Karl Marx ha scritto Il Capitale.

Nel tempo, però, queste istituzioni si sono differenziate, tanto nei modi di funzionamento quanto nei modi di fruizione. I grandi musei sono diventati sempre più attrazioni turistiche mentre gli archivi si sono trasformati in loculi per gli studiosi. Le stesse biblioteche hanno preso strade differenti: aperte, molteplici, accoglienti nel Nord Europa e negli Stati Uniti; concentrate soprattutto sulla conservazione del libro in Italia.

Nel frattempo, la cultura-spettacolo ha trovato innumerevoli piattaforme su cui esprimersi: cinema, radio, televisione, teatri e quant’altro. Ma in questa espansione vertiginosa che ormai coinvolge milioni di lavoratori c’è una bella differenza fra la tranquilla condizione dei dipendenti di musei e biblioteche, sia pure mal pagati e oppressi dalle scartoffie, e quella degli innumerevoli precari: attori, registi, musicisti, giocolieri, blogger, giornalisti senza contratto, borsisti delle università sempre incerti sul rinnovo. Questa varietà di condizioni è una ricchezza ma anche l’origine del pericolo di perdere energie creative insostituibili: chi lavora nello spettacolo in Francia ha lo statuto di intermittant e quindi una piccola protezione salariale e contributiva che in Italia non esiste. Quando gli attori o i musicisti che in qualche modo prima stavano a galla si ritroveranno tutti a emigrare (nel caso migliore) o a consegnare le pizze (nel caso peggiore) che ne sarà delle potenzialità che esprimevano?

In Italia, molti pensano che la cultura non serva a niente, se non a portare turisti nelle città d’arte. Nessuno ignora il palpabile clima di ostilità verso la cultura che si respira in Italia da quasi trent’anni. Oggi sembra quasi che chi semplicemente sa la grammatica o ha studiato Dante debba vergognarsene. Dal 1994 in poi abbiamo visto progressivamente dissolversi alcuni principi che venivano dati per scontati: il valore delle regole costituzionali, della legalità, della dignità umana, della coesione sociale costruita nel dibattito democratico. Oggi abbiamo sotto gli occhi il prezzo di queste sciagurate scelte.

Nello stesso tempo, il lockdown ha risvegliato l’interesse per la cultura, ha portato alla ribalta i problemi delle città d’arte, ha fatto capire la fragilità di settori come il teatro o la lirica. Per la prima volta da anni si sono sentite promesse in merito a interventi strutturali e di ripensamento dei modelli che si erano affermati per decenni. In mancanza di turisti, cosa diventeranno Firenze, Venezia, Pompei?

Ricreare l’ecosistema culturale

La pandemia ha messo in evidenza quello che avremmo dovuto capire da un pezzo: la cultura (nel senso di prodotti letterari, artistici, cinematografici o teatrali innovativi e di qualità) può avere un ruolo sociale solo se esiste un ecosistema che la sostiene. Lasciata alle sole forze del mercato, si trasforma in prodotto di consumo di massa o scompare. La cultura non è petrolio, non sta lì in attesa di essere pompata in superficie e trasformata in royalty. Al contrario, per valorizzarla economicamente occorrono investimenti, infrastrutture, interventi accurati, personale entusiasta e competente. Soprattutto, ha bisogno dello spazio mentale delle persone, della loro capacità e volontà di vivere esperienze ricche e complesse. Di una società che pensa e ama pensare, senza la quale non c’è innovazione, non c’è sviluppo, non c’è via d’uscita dalla crisi.

Musei, biblioteche e scuole sono istituzioni che non si parlano fra loro. Quante biblioteche lavoravano con le scuole, prima del lockdown? E quante pensano di farlo nei prossimi mesi? Quanti sono i bibliotecari che hanno fatto riunioni operative con compagnie teatrali, bande musicali, cori, giovani cinefili, organizzazioni di volontariato, per offrire spazi, cercare soluzioni, attenuare l’impatto devastante della pandemia?

Abbiamo bisogno di ricreare l’ecosistema culturale facendo collaborare intensamente, e in modo permanente, biblioteche, musei, teatri e scuole. Qui sta il ruolo delle biblioteche, che possono essere il luogo dove si attiva l’energia sociale, un’energia di cui il Paese trabocca ma che le istituzioni fanno del loro meglio per comprimere e sterilizzare.

Questa energia può essere sollecitata sia dal basso che dall’alto, nel rapporto con il volontariato ma anche in quello con le aziende e le fondazioni. A Fano, l’imprenditore Corrado Montanari ha messo a disposizione 6 milioni di euro per quella che è stata giustamente battezzata «mediateca Montanari»: possibile che non si possa seguire il suo esempio in altre città? Alcuni anni fa, per celebrare i 100 anni di attività della Navigazione Montanari S.p.A., lo stesso imprenditore decise di lasciare un segno in città e scelse di farlo finanziando la nuova biblioteca e utilizzando per l’intervento di recupero e valorizzazione dell’edificio lo strumento del contratto di sponsorizzazione. Inaugurandola, disse: «Questo è un investimento per il futuro dei nostri giovani. E volete sapere una cosa? L’affare l’abbiamo fatto certamente noi, investendo sul futuro delle nuove generazioni, che così potranno crescere più preparate culturalmente e saranno in grado di competere con il resto del mondo». Il suo esempio potrebbe essere seguito, anche in forma più modesta, usando l’Art Bonus.

In attesa delle aziende, guardiamo ai quartieri, ai circoli Arci, al terzo settore: in Italia un quarto della popolazione ha più di 65 anni. Fortunatamente la grande maggioranza sta bene, è attiva e si tiene in forma grazie alla dieta mediterranea. Sono anziani-giovani che costituiscono una risorsa per trasmettere competenze e abilità a chi ne ha bisogno: non solo ai nipoti, ma anche agli immigrati che conoscono solo il telefonino, alle badanti che stentano a parlare italiano, ai giovani precari che ignorano i loro diritti. Chi va in una qualsiasi biblioteca americana trova ogni giorno decine di volontari che aiutano altre persone, perché la biblioteca ha saputo organizzare le cose in modo che questo sia possibile, anche in tempo di pandemia. Se non lo facciamo ora, quando?

In sintesi

  • Le biblioteche pubbliche rappresentano, almeno sulla carta, perfetti luoghi di coworking e spazi fondamentali per il sostegno al lavoro femminile. Vista la recente estensione dello smartworking, le stesse aziende private dovrebbero avere interesse a supportarle offrire ai propri dipendenti valide alternative rispetto al proprio domicilio.
  • Per limitare le disuguaglianze educative presenti nel nostro Paese – oggi accentuate dalle conseguenze della pandemia – occorre pensare a forme di collaborazione permanente fra teatri, musei, biblioteche e scuole. Un network in grado di garantire a tutti gli stessi servizi e la stessa formazione.
  • La cultura, nel senso di prodotti letterari, artistici, cinematografici o teatrali innovativi e di qualità, può avere un ruolo sociale solo se esiste un ecosistema che la sostiene, con forme di collaborazione tra enti pubblici, aziende private e fondazioni.
1

«Diseguaglianze nell’emergenza sanitaria», Istat, 28 aprile 2020.

2

R. Carlini, «Covid-19 e lavoro: l’impatto negativo sulle donne», IlBoLive Università di Padova, 22 novembre 2020.

3

A tal proposito si veda «Covid-19 fallout takes a higher toll on women, economically and domestically», Eurofound, 3 giugno 2020.

4

«Con gli occhi delle bambine. Atlante dell’infanzia a rischio 2020», Save the Children, 2020.

5

Ibidem.

6

F. Tonello, Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza, Milano, Pearson, 2019.