E&M
2021/1
Indice
Editoriale
Dossier. Introduzione
Dossier. Imprese e scenario globale
Agenda 2030: l’appuntamento che riguarda tutti
La centralità della governance aziendale
I rating ESG: amarli o odiarli?
Dalla competizione alla collaborazione
Dossier. Prospettive alternative
La decarbonizzazione e le sfide di Big Oil
Focus. Introduzione
Quale città per la cultura, quale cultura per la città di domani
Focus. Città e cultura
Città creativa verso l’evoluzione della specie
Visual readings
Pubblica amministrazione
People management
Sales management
Cost management
Le imprese (ir)responsabili
Nel corso degli ultimi anni si è affermata una visione che ha progressivamente spostato l’attenzione delle imprese dagli azionisti (shareholder) ai portatori di interesse (stakeholder), sia dentro (per esempio i lavoratori) sia fuori le imprese (per esempio la società civile). Le imprese si sono cioè assunte responsabilità e finalità aggiuntive rispetto a quelle puramente economiche, estendendo il loro raggio d’azione ad attività direttamente o indirettamente collegate al proprio business, andando in parte ad affiancare le funzioni proprie dello Stato. Tuttavia, i leader aziendali e i manager non possono prendere il posto degli amministratori pubblici, perché lo Stato non è un’impresa e non può essere trattato come tale.
Sono passati cinquant’anni da quando il premio Nobel Milton Friedman scrisse che «esiste una e una sola responsabilità sociale delle imprese: utilizzare le proprie risorse e impegnarsi in attività finalizzate ad aumentare i propri profitti rispettando le regole del gioco, vale a dire impegnarsi in una concorrenza aperta e libera senza inganni o frode»[1]. In sintesi, le imprese si occupino di profitti e che il resto sia lasciato ad altri soggetti. Negli ultimi decenni questa visione è stata progressivamente abbandonata. In un recente sondaggio[2] solo il 15 per cento dei rispondenti condivide la posizione di Friedman, con alcune differenze significative tra i rappresentanti delle imprese (11 per cento) e gli investitori (24 per cento). Si tratta, in ogni caso, di una posizione di minoranza. Nel tempo si è infatti affermata una visione che ha progressivamente spostato l’attenzione dagli azionisti (shareholder) ai portatori di interesse (stakeholder), sia dentro (per esempio i lavoratori) sia fuori le imprese (per esempio la società civile). Le imprese si sono cioè assunte responsabilità e finalità aggiuntive rispetto a quelle puramente economiche, estendendo il loro raggio d’azione ad attività direttamente o indirettamente collegate al proprio business.
Questo passaggio è stato indubbiamente stimolato e favorito dalle rivendicazioni dei movimenti sociali e civili. Si pensi all’ambientalismo e alle politiche green adottate da molte imprese, oppure al movimento dei diritti civili nei confronti dei soggetti discriminati (donne, LGBTQ+, minoranze etniche ecc.). Sotto la pressione dei consumatori e dei propri dipendenti, le imprese hanno quindi fatto proprie alcune cause sociali, in molti casi prima ancora che tali istanze venissero accolte dai singoli Stati e dalla legislazione vigente. Sono inoltre sempre più numerosi gli esempi di attivismo da parte degli stessi amministratori delegati (per esempio Tim Cook di Apple e Howard Schultz di Starbucks) che intervengono personalmente nel dibattito su alcuni di questi temi, con posizioni forti e nette che impegnano direttamente le imprese di cui sono alla guida. Ci troviamo quindi di fronte a un paesaggio molto diverso da quello immaginato da Friedman. Le imprese non sono solo soggetti economici, ma vengono considerate soggetti sociali a pieno titolo, «cittadini» che hanno una responsabilità diretta nei confronti della società a cui appartengono (la cosiddetta CSR o corporate social responsibility). E come tali le imprese sono ormai ampiamente riconosciute e il grado di fiducia nei loro confronti (pari a 57 per cento in Italia) è superiore alle organizzazioni non-governative (49 per cento) e allo Stato (41 per cento)[3].
Nonostante la fiducia nelle imprese, molti percepiscono comunque un divario tra i propositi evidenziati dalla comunicazione aziendale e le azioni conseguenti. Solo il 13 per cento ritiene infatti che vi sia piena coerenza tra la responsabilità sociale dichiarata e quella effettiva, mentre il 43 per cento pensa che non ve ne sia alcuna[4]. Tale posizione è stata espressa anche da esponenti delle stesse imprese. A questo riguardo risultano ancora illuminanti – a più di dieci anni dalla sua scomparsa – le affermazioni di Anita Roddick, la fondatrice di The Body Shop, una delle imprese che per prime e più di altre ha fatto della responsabilità sociale un imperativo aziendale: «Penso che la CSR non stia funzionando. È stata oggetto di conquista da parte delle grandi multinazionali della consulenza e della comunicazione. Si tratta infatti di un’immensa opportunità di business. Quando questo movimento di responsabilità sociale delle imprese è nato e ho avuto occasione di contribuirvi direttamente, si trattava di una prospettiva alternativa che metteva insieme intellettuali progressisti, manager, filantropi e soprattutto movimenti sociali. Si trattava di un’architettura completamente diversa da quella attuale in cui il focus era sulla società e come potevamo parteciparvi responsabilmente come imprese, e non su come la responsabilità sociale fosse opportunità di business per queste. La verità di cui nessuno vuole discutere è che se la responsabilità sociale si frappone al profitto, le imprese privilegiano sempre il secondo»[5].
Si tratta quindi di una semplice e opportunistica costruzione di facciata? Non necessariamente. I rapporti annuali di tutte le imprese hanno ormai una sezione dedicata alla CSR in cui vengono descritte molte azioni lodevoli che vengono concretamente intraprese. Il problema è che si tratta di singole iniziative la cui direzione può anche essere quella giusta, collettivamente però non si riescono a fare significativi passi avanti e i problemi rimangono. Alcuni ritengono che la causa risieda nel sistema complessivo nel quale siamo attualmente bloccati. Qualsiasi cambiamento che facciamo avviene all’interno di questi confini ed è quindi limitato[6]. Non si tratta di una posizione originale, ma la novità è che questa emerga all’interno dei soggetti che sono espressione di questo sistema e che vi occupano posizioni di elevata responsabilità. Già Marx aveva sottolineato come il capitalismo rappresenti un sistema economico e sociale che sfugge al controllo degli stessi capitalisti, essi stessi prigionieri (anche se indubbiamente più privilegiati dei proletari) di una struttura che hanno contribuito a edificare. La novità è che adesso sono le stesse imprese e coloro che le guidano ad avere preso consapevolezza di questa situazione.
In un recente sondaggio realizzato a livello globale[7] il 56 per cento delle persone (il 43 per cento negli Stati Uniti, il 61 per cento in Italia) ritiene che il capitalismo crei più danni che benefici. Risulta quindi quanto mai attuale la necessità di riconsiderarne l’architettura e il funzionamento. Il problema, come ha sottolineato il teorico radicale inglese Mark Fisher, è che l’ideologia dominante ha diffuso la convinzione che non esista alternativa all’attuale sistema[8]. Come si può quindi cambiare qualcosa in mancanza di altre opzioni? Il fatto che le imprese si sostituiscano allo Stato in termini di responsabilità sociale non è forse la direzione corretta. Il punto fondamentale non è infatti il comportamento individuale delle singole imprese, ma i risultati che si ottengono collettivamente. E la collettività è rappresentata dallo Stato e non – come anche sottolineato da un recente numero dell’Economist[9] – da imprese e da amministratori che non sono eletti e che pertanto non possono legittimamente rappresentarla. In molte nazioni, la classe politica e amministrativa può anche non essere stata all’altezza del ruolo, ma la soluzione è avere politici e personale amministrativo migliori. I leader aziendali e i manager non possono infatti prendere il loro posto, perché lo Stato non è un’impresa e non può essere trattato come tale. Forse Friedman non aveva torto: che le imprese si preoccupino di fare quello per cui sono state create, nel rispetto delle regole che sono e devono essere imposte da altri soggetti. E se volessero essere responsabili nei confronti della società dovrebbero – invece di sostituirsi allo Stato, di delegittimarlo e di smantellarlo – sostenerlo affinché sia sempre più efficace. Perché – parafrasando il verso di una canzone – lo Stato siamo noi, nessuno si senta escluso nella sua costruzione e partecipazione, nemmeno le imprese. È dalla collaborazione congiunta tra diversi soggetti che possono svilupparsi nuove prospettive e risultati promettenti. A questo riguardo, i temi della sostenibilità e della corporate sustainability, oggetto del Dossier di questo numero, ne costituiscono un interessante banco di prova. Buona lettura!
«The social responsibility of business is to increase its profits», New York Times Magazine, 13 settembre 1970.
«Covid-19 and inequality: A test of corporate purpose», Harvard Law School Forum on Corporate Governance, 24 ottobre 2020.
Si veda in proposito la posizione di Paul Polman, CEO di Unilver dal 2009 al 2019, in F. Perretti, «La sfida della complessità», Economia&Management, 2020/1.