E&M

2021/1

Giuseppe Morici Stefano Pogutz

Quando la marca trasforma la catena del valore

Oggi chi fa il mestiere del CEO si occupa di sostenibilità ogni giorno, in ogni decisione che prende e in ogni azione che svolge: dalla gestione delle fabbriche all’innovazione, dalle risorse umane alla comunicazione. Ogni azienda dovrebbe fondarsi su un purpose unico, dato dall’integrazione del proprio purpose e dal social purpose. Questa integrazione fra missione economica e sociale determina un modello di gestione chiaro verso un futuro sostenibile; un modello alla ricerca costante di equilibrio fra valore condiviso con il consumatore, la società e il pianeta, dove a emergere su tutti è il valore dell’autenticità. La sfida alla sostenibilità si può vincere solo se si è in grado di fare sistema tra le imprese e le principali ONG in difesa dell’ambiente e delle persone. Da questo confronto nascono momenti di scambio di know-how, di relazioni, di comprensione dei fenomeni e piani di lavoro condivisi e concreti.

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Da diversi anni Rio Mare è impegnato nel preservare l’ecosistema marino, un impegno etico per le generazioni future, ma anche indispensabile a garantire la sostenibilità del proprio modello di business. In collaborazione con le principali organizzazioni ambientaliste, fra le quali Greenpeace, e grazie a una partnership trasformativa con il WWF, sono stati avviati diversi programmi per l’adozione di pratiche di pesca più sostenibili e per la tracciabilità di filiera, in conformità agli standard oggi più accreditati, quali per esempio il Marine Stewardship Council.

Rio Mare, marca leader in Europa nel mercato del tonno, è diventato campione della sostenibilità, trasformando radicalmente la propria catena del valore: dalle materie prime alla produzione, fino al rapporto con i consumatori finali.

Giuseppe Morici, oggi a capo di Bolton Group, multinazionale italiana che gestisce un portafoglio con più di 50 marche (Rio Mare, Simmenthal, Borotalco, Neutro Roberts, Collistar Omino Bianco, UHU) in diversi settori (alimentare, cura della persona e cosmetica, cura della casa e adesivi), ci racconta come la protezione delle risorse naturali e l’attenzione ai temi sociali siano elementi vitali per ogni business e in che modo un leader aziendale possa incidere nel percorso verso una società più sostenibile.

 

Per un’impresa, che cosa significa affrontare la sostenibilità oggi? E in che cosa è diverso rispetto al passato?

 

Il significato della sostenibilità e il modo in cui le imprese operano in questo ambito sono cambiati profondamente nel tempo. In un passato neppure troppo lontano molti imprenditori responsabili” affrontavano la sostenibilità con un atteggiamento filantropico, quasi risarcitorio. La responsabilità sociale si manifestava con interventi sociali e culturali, del tutto apprezzabili, ma quasi sempre estranei al modello di creazione di valore dell’azienda, in cui poco o nulla cambiava. È stata la crescita costante della sensibilità ambientale a mettere al centro del dibattito l’impresa e le sue attività e a determinare così una svolta. La sostenibilità, che a me piace molto chiamare come fanno i francesi durabilitè (durabilità), perché rende molto l’idea di quale sia l’obiettivo finale degli sforzi, oggi incide profondamente sul business model dell’azienda. Non ha nulla di risarcitorio-compensativo ma pone al centro il futuro e la ricerca di equilibrio fra l’attività imprenditoriale e le esigenze della società e del pianeta. Di conseguenza, sono cambiati i mestieri della sostenibilità. Ieri i manager della responsabilità sociale erano figure per la comunicazione esterna e le relazioni pubbliche. Oggi chi si occupa di sostenibilità entra nelle imprese e mette le mani nei suoi gangli strategici e operativi, dalle fabbriche all’innovazione, dal recruiting alla pubblicità. Si può ben dire che chi si occupa oggi in azienda di sostenibilità fa in sostanza il mestiere del CEO.

 

Si parla molto di «purpose» e di «autenticità». Perché questi fattori sono sempre più importanti nel determinare il successo delle imprese?


Chiariamo innanzitutto che ogni impresa ha un purpose, che ne sia o meno consapevole e indipendentemente dalla sostenibilità. Il purpose è il «fuoco sacro» che ha spinto il fondatore a creare l’azienda ed è spesso legato al prodotto da questi ideato. Al purpose, che a volte purtroppo si perde nella memoria delle aziende, si è affiancato più di recente il «social purpose», una delle dimensioni fondamentali della responsabilità sociale. Credo che riconoscere l’esistenza di questi due purpose sia uno snodo fondamentale nell’evoluzione della responsabilità sociale dell’impresa. Sono convinto che il migliore servizio che un’azienda possa rendere alla società sia quello di allineare i due purpose in un unico scopo. Questa missione unica determina un modello di gestione chiaro verso un futuro sostenibile; un modello alla ricerca costante di equilibrio fra valore condiviso con il consumatore, la società e il pianeta. Quando invece i due purpose sono stratificati e differenti, il rischio è di mantenere separata la sostenibilità dalla vita dell’azienda e di limitare gli interventi a iniziative di filantropia, che da sole non hanno il potere di trasformare il nostro futuro e di salvaguardare le risorse del pianeta. Nei casi peggiori poi, il disallineamento dei purpose può generare greenwashing, in quanto l’impresa non è in grado di generare un vero cambiamento della propria attività.

Allineare il purpose non è un esercizio facile, ma è un processo potente che attiva energie, risorse intellettuali, morali ed economiche e, quando riesce, l’azienda diventa davvero campione del cambiamento sociale, senza dimenticare il suo ruolo economico. È, quest’ultimo, un aspetto importante di cui non bisogna vergognarsi: se l’impresa non è solida, profittevole, non investe, non dà lavoro, non è, e non può essere, un’impresa sostenibile. La solidità economica è il presupposto per sviluppare il proprio ruolo sociale.

È in questo allineamento dei due purpose che risiede secondo me l’autenticità di un’impresa: un valore fondamentale in un mondo che, grazie alle interazioni digitali e ai social media, è sempre più trasparente. In un’azienda che si identifica in un purpose unico e integrato fra missione economica e sociale, tutti operano coerentemente verso questo scopo. Chiunque faccia l’esercizio di mettere in controluce il profilo delle persone che lavorano in azienda, del management, della proprietà, dei prodotti, riconoscerà gli stessi tratti di autenticità.

 

In un momento storico difficile come quello attuarle, la crisi generata dal Covid-19 sembrava poter mettere in secondo piano temi come la lotta al cambiamento climatico, l’equità e l’uguaglianza di genere. Invece, per molti stakeholder – cittadini, policy maker, investitori – la sostenibilità è diventata ancora più centrale e importante. Secondo lei per quale motivo?


Come ho avuto modo di dire recentemente in un convegno organizzato dal WWF, le acque pulite di Venezia e i caprioli nelle vie delle città o i cieli puliti della Cina, così come quelli della Pianura Padana, durante il primo lockdown, hanno interrogato ciascuno di noi. Il pianeta ha reclamato attenzione. Non intendo con questo minimamente sminuire né dare una lettura romanzata della terribile tragedia che si è abbattuta su di noi. Credo però che non possiamo più ignorare i guasti sulla società e l’ambiente causati dal nostro modello di sviluppo. In tempi non sospetti, in un convegno presi la parola con un intervento che intitolai: «E se ci fermassimo tutti?». Affermai con grande veemenza che la nostra routine non aveva più molto senso, e occorreva recuperare il significato profondo del nostro mestiere di leader aziendali. Credo che la crisi globale del Covid-19 abbia accelerato molti trend già in atto e abbia reso più profondo il dibattito interno alle aziende sul tema della sostenibilità. E questo è avvenuto perché tutti noi abbiamo capito che non si tratta di aggiustare le cose, o migliorarle. Si tratta di cambiare modello. Quello ereditato dai nostri padri non va più bene. Noi lo abbiamo capito. Forse i nostri figli ne inventeranno un altro. Se noi gliene lasceremo la possibilità.

Spesso vediamo leader e imprese che scendono in campo per sostenere cause sociali e ambientali (si pensi a Tim Cook, sui temi LGBT o razziali; Paul Polman su ambiente e clima; Emmanuel Faber, su alimentazione come diritto, OGM e salute). Qual è la sua opinione su questa militanza «quasi politica»? È questo un modo valido ed efficace per rendere il capitalismo più sostenibile ed equo? È funzionale alla creazione di valore?

 

Premetto che per me la politica è la forma più alta di servizio civile che si possa rendere alla propria comunità. Credo però che guidare un’azienda sia un mestiere diverso. Anche condurre una comunità aziendale complessa e multinazionale comporta una responsabilità quasi politica, ma è una responsabilità che rimane interna all’azienda. I valori che ispirano l’organizzazione ne indirizzano i comportamenti e influenzano la vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone (i nostri dipendenti, i consumatori, i fornitori ecc.). I CEO hanno sì una responsabilità civile e quasi politica, ma credo che ce l’abbiano innanzitutto dentro la loro azienda. Preferisco – come CEO – prima di prendere posizione pubblica su un tema di rilevanza sociale, aver fatto di tutto, ma proprio di tutto, affinché quello stesso tema sia vissuto dentro la mia azienda in ogni suo angolo. I CEO parlano coi fatti, non con i tweet. E se proprio devo scegliere un attivismo, diciamo che all’attivismo politico dei CEO preferisco l’attivismo sociale delle marche.

 

Partendo dalla sua esperienza di leader e CEO, quali sono le sfide più difficili per cogliere le opportunità legate alla sostenibilità? Quali stakeholder sono più resistenti al cambiamento? Quali più favorevoli?


Io sono un CEO fortunato, perché ho sempre lavorato in contesti in cui il bene sociale veniva perseguito con onestà intellettuale e buona fede. In questi contesti, il problema principale in tema di sostenibilità ambientale, per esempio, non sono i costi, come molti, con pregiudizi anti-industriali, immaginano. Il problema è spesso legato alla fattibilità. Trovare le materie prime sostenibili molte volte non è un fatto di volontà ma di fattibilità.

Anche riuscire a industrializzare prodotti con nuove materie prime o di confezionamento più sostenibili, spesso non è questione di volontà ma di tecnologia. Quindi c’è anche un tema di sistema e di infrastrutture che deve essere affrontato.

Non ho mai incontrato stakeholder resistenti. Ho incontrato molte persone di buona volontà impegnate a rendere possibile ciò che all’inizio sembra impossibile. È il mestiere dell’innovatore, che richiede spesso visione, caparbietà, rischio e fatica. Stavolta lo dobbiamo applicare alla sostenibilità. Tutto qui.

 

Sappiamo che molto spesso l’impatto ambientale e sociale dei nostri prodotti e servizi dipende dalle azioni lungo la value chain (dalla filiera di fornitura ai comportamenti di consumo). Con Bolton Food avete insistito molto per una trasformazione sostenibile della filiera. Quali sono state le mosse vincenti? Quali quelle ancora da fare?

 
A mio avviso sono state due le mosse vincenti di Rio Mare e degli altri brand internazionali del gruppo nel settore del tonno: la prima è essere stati, più di dieci anni fa, membri fondatori della International Seafood Sustainability Foundation (ISSF). Questa NGO, sostenuta oggi dalle aziende leader mondiali del settore della pesca e dalle più rinomate fondazioni, è oggi il punto di riferimento globale nell’industria del tonno in termini di sostenibilità. La ISSF si avvale del supporto e della conoscenza del WWF e dei migliori scienziati e biologi marini. Questa organizzazione ha, nella scienza e nella ricerca, con un budget annuo di oltre 10 milioni di dollari, il suo punto di forza.

La seconda mossa che ha rafforzato la leadership di Bolton sul tema della sostenibilità, è legata alla decisione di stringere partnership strategiche con stakeholder rilevanti: prima con WWF, sul versante ambientale, e ora con Oxfam[1], sul versante sociale.

Queste due mosse hanno aperto verso l’esterno le porte della nostra organizzazione. Grazie a queste scelte abbiamo dimostrato interdipendenza con i nostri partner e umiltà, il contrario dell’autoreferenzialità. Quel che vogliamo risolvere sono problemi globali, giganteschi. Pensiamo di poterlo fare da soli? E se quel che vogliamo veramente è aiutare la società e il pianeta ad affrontare le sfide del presente, pensiamo che la nostra strategia di sostenibilità possa essere competitiva? No. Deve essere inclusiva, perché solo insieme possiamo sperare di farcela: «Partnership is our leadership».

Resta ancora moltissimo da fare. La sostenibilità delle attività di pesca non è una meta che si raggiunge una volta per tutte. È una sfida quotidiana nei quattro angoli del pianeta e garantire la compliance di tutte le attività per una pesca sempre più sostenibile è uno sforzo ciclopico. E poi c’è l’impatto ambientale delle fabbriche, il packaging, la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani lungo la filiera. La sostenibilità è un percorso. Questo non serva da alibi, perché più lungo il percorso, più determinato deve essere il passo con cui intraprenderlo.

 

In che modo le partnership con organizzazioni come WWF e Oxfam possono aiutare un’impresa nella strada verso la sostenibilità?

 

Le principali ONG, come WWF e Oxfam, sono consapevoli che per cambiare profondamente le cose occorre fare sistema e fare le cose insieme alle aziende, non contro. Le organizzazioni più attente non si mettono in posizione di ostile, ma aprono tavoli di confronto. Da questo confronto nascono momenti di scambio di know-how, di relazioni, di comprensione dei fenomeni e piani di lavoro condivisi e realistici. Le ONG sono partner critici ma collaborativi, ci aiutano nell’identificare potenziali aree di rischio sociale e ambientale, condividono con noi best practice ed esperienze già maturate in altri ambiti con altre aziende, ci suggeriscono partnership scientifiche per risolvere problemi tecnici. Hanno quindi un duplice ruolo di pungolo e di osservatori critici, ma sono anche contributori e facilitatori del cambiamento e, soprattutto, monitorano costantemente i nostri progressi.

Un’azienda come la nostra, che si pone obiettivi ambiziosi in tema di sostenibilità, ha bisogno di confrontarsi con tutti coloro che sono impegnati nello stesso obiettivo, e le ONG hanno interesse, come noi, a percorrere questa strada insieme.

 

Bolton Group e un’azienda che ha molti brand e opera in molti settori, quali sono le tre sfide principali di oggi e di domani?

 

Mi piacerebbe che, come grande realtà industriale italiana nel mondo, Bolton Group riuscisse a portare avanti una visione equilibrata dell’economia, una visione umana dell’economia, in cui questa, come ha fatto per secoli, fosse al servizio dell’uomo e non viceversa.

Questa visione è fortemente condivisa da tutto il Board del gruppo e in particolare da Marina Nissim, nostra chairwoman, che da tempo si è fatta promotrice e portavoce di un nuovo modello di sviluppo, in grado di integrare la crescita del gruppo con la condivisione del valore.

Davanti a noi abbiamo tantissime sfide per essere all’altezza delle aspettative di questa ambiziosa missione: la prima è preservare le risorse del pianeta e quindi la sostenibilità delle nostre materie prime e dell’attività di pesca; la seconda è la sostenibilità ambientale delle nostre confezioni; la terza è la giustizia sociale lungo le nostre filiere produttive.

Le aziende industriali, quando si sono sviluppate nelle loro dimensioni attuali, hanno sottratto milioni di persone alla miseria e agli stenti di una campagna che ora idealizziamo, ma le cui condizioni di vita erano spesso al di sotto degli standard minimi di civiltà. Ecco, ora alla fine di questa fase dello sviluppo industriale, dobbiamo ritornare alla missione sociale delle nostre imprese: dare lavoro e dignità. E, in un’epoca in cui avere un lavoro dignitoso non è più una cosa ovvia, per noi di Bolton Group, e con questo intendo esprimere la volontà del Board e di tutte le persone del Gruppo, deve tornare a essere una priorità. E non solo negli angoli del mondo in cui abbiamo operazioni industriali molto lontane e dove gli standard locali sono poco sviluppati, ma anche qui da noi in Italia.

In sintesi

  • Oggi chi fa il mestiere del CEO si occupa di sostenibilità ogni giorno, in ogni decisione che prende e in ogni azione che svolge: dalla gestione delle fabbriche all’innovazione, dalle risorse umane alla comunicazione. La sostenibilità pervade tutti i gangli dell’impresa e ne condiziona tutte le attività.
  • Ogni azienda dovrebbe fondarsi su un purpose unico, dato dall’integrazione del proprio purpose e dal social purpose. Questa integrazione fra missione economica e sociale determina un modello di gestione chiaro verso un futuro sostenibile; un modello alla ricerca costante di equilibrio fra valore condiviso con il consumatore, la società e il pianeta, dove a emergere su tutti è il valore dell’autenticità.
  • Per affrontare le sfide della sostenibilità, più che le resistenze e i pregiudizi di alcuni, è importante risolvere i problemi legati alla fattibilità tecnologica e organizzativa di alcune operazioni (per esempio nel trovare materiali a minor impatto ambientale). È un tema di innovazione e di infrastrutture. 
  • La sfida alla sostenibilità si può vincere solo se si è in grado di fare sistema tra le imprese e le principali ONG in difesa dell’ambiente e delle persone. Da questo confronto nascono momenti di scambio di know-how, di relazioni, di comprensione dei fenomeni e piani di lavoro condivisi e concreti. 
1

Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) è una confederazione internazionale di organizzazioni non profit che, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo, si dedica alla riduzione della povertà globale. Per maggiori informazioni sulla sede italiana dell’associazione si rimanda al sito https://www.oxfamitalia.org/.