E&M

2020/5

Vincenzo Perrone

Essere interessanti in modo rigoroso

Vincenzo Perrone è stato direttore di Economia&Management dal 2004 al 2013, in questa intervista ripercorre alcune delle tappe fondamentali della sua direzione e del suo sogno di rendere questa rivista uno strumento di sostegno allo sviluppo economico del Paese.

Scarica articolo in PDF

Vincenzo Perrone è stato direttore di Economia&Management dal 2004 al 2013 e, come ricordava spesso, «lo sono diventato improvvisamente e in occasione di un giorno particolarmente triste, quando Claudio Dematté è prematuramente scomparso». Ma era a fianco del fondatore fin dall’inizio di questa avventura editoriale, nel 1988, prima come membro del comitato editoriale e poi come vicedirettore. Lo slogan che aveva scelto per caratterizzare la sua linea editoriale quando assunse la direzione della rivista – «l’interessante proposto e sostenuto in modo rigoroso» –, rappresenta in fondo la cifra del suo modo di pensare e operare, visibile, tra l’altro, già nei tantissimi contributi autoriali che arricchiscono l’archivio di Economia&Management. Professore di Organizzazione aziendale, è uno dei massimi esperti italiani di comportamento organizzativo, ruolo per certi versi austero, come, tra gli altri, il prorettorato alla ricerca che ha ricoperto alla fine del primo decennio di questo secolo; ma anche sperimentatore di forme espressive e di divulgazione, intessute spesso di spirito corrosivo.

Lei è stato protagonista della storia di questa rivista, che l’ha vista di fatto impegnato per quasi un quarto di secolo. Anzi, lei è un po’ la storia di Economia&Management. Con la grande ironia che la caratterizza, che effetto le fa questa suggestione? 


Il primo, il più scontato, è quello di sentirsi vecchio. Ho fatto in tempo a fare lezione con i lucidi e le lavagne luminose, a elaborare dati con i mainframe a schede e a comunicare per la prima volta con un mio collega oltre oceano usando Bitnet, che è stato un po’ il papà di internet. Ricordo ancora l’emozione di attendere la risposta a un messaggio, guardando lampeggiare per lunghi minuti il prompt luminoso su uno schermo completamente nero. Era il tempo in cui le riviste venivano comprate (anche dalle aziende), collezionate, lette e usate. Oggi le cose sono molto diverse e sono cambiate in fretta. Ma il tempo che passa, quando passa in un posto vivo e stimolante come la redazione di Economia&Management, ti arricchisce e ti cambia abbastanza da renderti capace di surfare l’onda di quello che arriva, in equilibrio sulla tavola di quello che sai e di quello che sei. La storia, poi, siamo noi, dice una canzone famosa. La nostra rivista è sempre stata il risultato di un lavoro collettivo dove se ho avuto un merito è stato quello di circondarmi di persone valide. Come Fabiola Mantegna, la segretaria di redazione che aveva cominciato a seguire la rivista con Claudio e ha continuato con me. O i miei talentuosi vicedirettori, un paio dei quali sono poi diventati rettore della Bocconi. Ma ogni persona del comitato di redazione ha sempre dato il massimo perché fossimo orgogliosi di quello che mandavamo in edicola. Visto che in quegli anni Economia&Management si poteva trovare anche lì.

Fare e diffondere cultura manageriale: quali ritiene siano state le evoluzioni (o anche le involuzioni, se si può dire così) che hanno scandito gli ultimi 30 anni? 

 

Cultura manageriale è un’espressione impegnativa, come del resto questa domanda. Può essere un programma di lavoro, come lo è stato per me alla direzione della rivista. Tutto quello che ho fatto è stato cercare davvero di fare cultura, di allargare gli orizzonti, di sperimentare, per esempio puntando sulla multidisciplinarietà, sulla contaminazione, sull’apertura al mondo e persino sul sense of humor con le rubriche affidate a esperti della Cina, ben prima che diventasse la problematica potenza che è oggi, o a comici arguti come Tarasso. Il rischio che spesso si corre è invece che la stessa espressione diventi un ossimoro dove un termine contraddice l’altro. Accade quando i manager si limitano alla tecnica e alla conservazione dello status quo. Quando smettono di interrogarsi sul perché di quello che fanno e sul per chi, e si limitano a interessarsi al cosa e al come. Quando credono di sapere quanto basta per amministrare e non fanno più la fatica di imparare quello che serve per crescere come persone, come aziende e come Paese. Oggi fare impresa in Italia è molto difficile e richiede un impegno zen, che spesso ruba molto alla vita privata di chi fa il manager o l’imprenditore. Se non si aprono la mente e il cuore all’ampiezza e alla profondità della cultura – oltre ad aprire negozi, uffici e conti in banca – è difficile avere successo e, soprattutto, durare.

Da esperto di comportamento organizzativo a 360 gradi – in un articolo di qualche anno fa apparso su Il Giorno, si faceva riferimento al suo interesse anche per gli aspetti inconsci e irrazionali del comportamento umano – come ha visto modificarsi nel tempo questo ambito? Quali, quanto e come i fattori «trasformazionali» hanno inciso sulle persone?

 

Se si guarda alle donne e agli uomini, a come pensano, a come si comportano e alle emozioni che provano, non possiamo dire che molto sia cambiato nel tempo. Altrimenti non ci spiegheremmo le paure, l’odio, le distorsioni cognitive e la sofferenza psichica che ancora oggi ci caratterizzano come individui e come popoli. Il nostro lato oscuro è ancora lì e quello che possiamo fare per dominarlo è riconoscerlo e accoglierlo come una parte di noi che possiamo trasformare in energia pulita, non distruttiva. L’ambiente sembra sfidare sempre di più i nostri limiti piuttosto che aiutarci a crescere nei nostri punti di forza. Se ho capito bene cosa intende con fattori «trasformazionali», penso che la tecnica rischi di non essere più dipendente da noi ma di dominarci (impresa già riuscita al danaro e alla finanza). Insieme al problema dell’identità sociale, delle appartenenze che utilizziamo per definire chi siamo, sono due questioni che avranno forti ripercussioni sul nostro benessere come individui e come specie. Penso che per affrontarle al meglio dovremo dare sempre più spazio alla ricerca di un senso e di un significato profondi in noi, nella nostra rete di relazioni, nelle nostre imprese e nel pianeta che ci ospita. Vedo segni di ripresa di un interesse verso una dimensione spirituale dell’essere e del fare che trovo interessanti e utili in vista delle strette che dovremo ancora superare.

In un editoriale del 2006, fedele al suo stile, lei indicava tra i compiti della rivista quello di contribuire al rilancio del Paese, auspicando che rigore e leggerezza fossero non solo «una nostra aspirazione editoriale o un ossimoro irraggiungibile, ma un modo nuovo di coniugare il genio italico, lieve e immateriale (proprio quello che serve nell’economia avanzata di oggi) con un maggior senso di responsabilità». È ancora un auspicio applicabile al difficile passaggio storico che stiamo vivendo, guardando anche aldilà dei compiti che una rivista può e deve contribuire ad assolvere? 

 

Ipercritico come sono, resto sempre stupito quando scopro di avere detto qualcosa che trovo intelligente e interessante anche oggi. Spero che i neuroni continuino a girare bene come apparentemente facevano nel 2006. Coniugare rigore e leggerezza penso sia una sfida essenziale soprattutto per noi italiani che siamo portati a scegliere la seconda in spregio al primo, giudicato una cosa da parrucconi o da frugali tristi nordici. E invece, se per esempio guardiamo alla gestione dell’attuale pandemia, occorre davvero osare mescolarli insieme questi due ingredienti, che sembrano usciti da una delle lezioni americane di Calvino. Una comunicazione accorta e basata su informazioni verificate dovrebbe evitare di spacciare sia la droga della paura sia quella dell’incoscienza. Usare creativamente le risorse che abbiamo dovrebbe evitarci di spendere quello che stiamo prendendo in prestito in quantità da overdose, e che cambierà in peggio la vita nostra e dei nostri figli, forse molto di più di quanto faranno le ferite che il virus lascerà nel corpo di chi visita. Imparare che i semafori rossi non sono Dio (altra citazione cantautorale), ma che è comunque una buona idea rispettarli e obbedire alle regole che tutelano la nostra sicurezza, ci renderà più capaci di gestire la complessità senza farcene travolgere. Le regole servono a limitare il potere dei forti e dei ricchi e a sottrarci al loro egoistico arbitrio. Le regole sono la base di quella cosa fragile e preziosa che un gruppo di noi centinaia di anni fa ha chiamato democrazia. Non c’è persona, azienda o Paese che può mettere mano al proprio futuro se non pensa che sia propria la responsabilità di farlo. Smettendo di cercare intorno e lontano – dalla casta ai poteri forti passando per le case farmaceutiche e Bruxelles – i responsabili di tutto ciò che nella nostra vita e nella nostra società non va. Per cambiare il mondo e per renderlo sperabilmente migliore, ognuno di noi dovrebbe iniziare col mettere a posto la propria casa o il proprio ufficio, la propria via o la propria città. Responsabilità eticamente fondata nel micro e un progetto sostenibile condiviso dal maggior numero possibile di persone nel macro. Se dovessi guidare oggi una rivista pensando di farne, come pensavo allora, uno strumento di sostegno dello sviluppo economico e sociale di un Paese, penso che proverei a mettere in caratteri a stampa questi due pezzetti di un bel sogno. Sono sicuro che troverei di nuovo lettori disposti a mettersi in cammino con me.