E&M

2020/5

Fabrizio Perretti

Ampliare l’orizzonte senza pregiudizi

L’attuale direttore di Economia&Management Fabrizio Perretti traccia un bilancio di questi primi 30 anni della rivista e disegna gli scenari e le sfide con cui confrontarsi nel prossimo futuro.

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Il futuro di una rivista come Economia&Management non può che trarre ispirazione e forza dal suo passato e dalle sue radici. Come ricordava Winston Churchill, più sei capace di guardare nel passato, più potrai spingerti nel futuro. Economia&Management nasce come rivista della SDA, la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi. Nasce cioè all’interno di una business school il cui fine istituzionale è la formazione delle cosiddette élite professionali (chi dirige le aziende) e che si trova di fronte al problema di integrare due differenti sistemi sociali, con i relativi modelli culturali e organizzativi: coloro che praticano il management come professione e coloro che studiano le discipline che ne sono alla base.

Un problema non semplice[1], che riguarda appunto l’equilibrio tra applicazione pratica e ricerca universitaria, in cui le imprese sono di fatto i soggetti destinatari dell’attività formativa ma, allo stesso tempo, anche le fonti da cui dovrebbe derivare la conoscenza che viene loro trasmessa. Siamo cioè di fronte a una relazione circolare, in cui la business school ha il ruolo non solo di produrre nuova conoscenza, ma anche di razionalizzare la conoscenza e le esperienze già presenti in alcune organizzazioni e di diffonderle a un pubblico più ampio sia di imprese sia di altri soggetti che interagiscono con queste. La rivista di una business school rientra in questa logica ed è espressione di tali finalità. Lo è ancora di più se, come nel caso della SDA e di Economia&Management, entrambe condividono lo stesso fondatore.

Claudio Dematté è stato estremamente consapevole del difficile rapporto tra pratica e scienza e ne ha sempre ricercato un equilibrio. Se, come ricordato nell’editoriale che abbiamo riproposto in questo speciale[2], il management è più simile all’arte che non alla scienza, questo non significa che l’impresa debba essere studiata solo ed esclusivamente come infinita varietà di casi specifici. È però sempre necessario collocarla in un contesto sociale e istituzionale. Per Dematté, l’impresa non esiste come concetto astratto, universale, astorico e atemporale così come rappresentato dai manuali di microeconomia, ma non può nemmeno essere governata sulla base di prontuari di management (spesso di pubblicistica statunitense) e di regole fisse. Il titolo di un suo editoriale del 1992 – «Paese che vai, impresa che trovi» – testimonia tale impostazione, in cui il soggetto impresa evoca concetti diversi in contesti diversi. Tale diversità non può quindi non riflettersi in prassi manageriali altrettanto distinte che devono cioè «saper interpretare la struttura e la logica che presiedono ai vari sistemi economici: qual è il concetto di impresa vigente, che tipo di legami collegano le imprese, le banche, i mercati finanziari e gli imprenditori; quali i nessi delle imprese fra loro; il ruolo che viene assegnato agli istituti in difesa della concorrenza; quale sistema di relazioni unisce i lavoratori alle aziende; come si rapportano fra di loro le imprese e i pubblici poteri; infine come si forma e come viene mantenuto l’equilibrio fra i diversi interlocutori che convergono in ogni impresa»[3].

Coerentemente con questa impostazione, la rivista ha tradizionalmente privilegiato l’analisi del contesto italiano. Questo non ha però mai significato richiudersi entro i ristretti confini nazionali ignorando le esperienze internazionali. Un tale approccio sarebbe infatti risultato quanto di più distante dall’esperienza dello stesso Dematté che fondò la SDA ispirandosi ai modelli didattici della Harvard Business School di cui era stato testimone diretto e che si è sempre occupato di internazionalizzazione – dei mercati finanziari e delle strategie d’impresa – nella sua attività di docente e di studioso. Focus quindi sul contesto italiano, in quanto scelta di declinazione in termini di pubblico e di interlocutori, ma prospettiva internazionale (non globale) per comprendere contesti diversi cui eventualmente ispirarsi o rifuggire. Poiché la rivista si rivolse alle imprese italiane o che operano in Italia, ha sempre dovuto tener conto della loro specificità sia in termini di dimensione (prevalenza di piccole e medie imprese) sia in termini di tipologia e struttura proprietaria (presenza di imprese familiari e di aziende pubbliche). Tra i suoi compiti iniziali vi è quindi stato quello di diffondere una cultura manageriale all’interno di molte imprese che ne risultavano prive perché non ne avvertivano il bisogno, perché ritenevano fosse frutto della solo esperienza diretta e oggetto di trasmissione ereditaria, oppure perché soggetta a logiche prevalentemente politiche. In quanto espressione di un’istituzione universitaria, la rivista assunse e svolse quindi fin da subito il ruolo pubblico di diffondere la conoscenza e di aumentare il livello di educazione manageriale in soggetti imprenditoriali anche debolmente esposti.

In quanto espressione di una business school all’interno di una università prestigiosa come la Bocconi – prima istituzione in Italia a elevare alla laurea gli studi in campo economico[4]Economia&Management si rivolse però anche alle espressioni più avanzate dell’imprenditoria e della classe dirigente italiana, ma ha sempre cercato di farlo mantenendo la propria autonomia e la propria libertà di giudizio. Se le imprese rappresentano l’oggetto di studio e il pubblico di riferimento, la rivista non voleva infatti essere la rappresentante delle imprese o della classe dirigente nel dibattito pubblico. Negli editoriali di Dematté vi è sempre stata osservazione attenta delle imprese e del sistema economico italiano, ma – come sottolineato da Ferruccio De Bortoli – «mai adesione acritica, abbandono fideistico o cedimento intellettuale»[5]. Anzi, le imprese sono spesso state oggetto di critica, sono state spronate a porsi obiettivi più ambiziosi e di lungo termine. Proprio per il rispetto e l’importanza del ruolo che queste hanno nell’economia e nella società, sono state spesso richiamate ad assumersi la posizione e le responsabilità sociali e politiche che competono a una classe dirigente, intesa non come élite che occupa semplicemente una posizione di vertice nella società, ma che nell’assumere le decisioni che le competono ha sempre piena consapevolezza del concetto di res pubblica, cioè di quel contratto sociale che funga da orientamento e limite ai comportamenti individuali. Le imprese e gli imprenditori dovrebbero quindi assumere il ruolo di classe dirigente e, in quanto tale, credere nella propria missione e nell’accettazione della responsabilità di concorrere a creare uno spazio politico per la società intera.

In Italia purtroppo coloro che hanno ruoli di comando nelle organizzazioni economiche hanno spesso occupato posizioni di élite senza essere classe dirigente. Come già osservava Guido Carli, l’ex governatore della Banca d’Italia e presidente di Confindustria, gli industriali italiani, e più in generale i ceti imprenditoriali, non si sono mai considerati a pieno titolo membri dell’establishment, membri della classe governante. Gli imprenditori italiani non hanno cioè mai considerato lo Stato come cosa propria, come un’organizzazione sociale di cui essi fossero direttamente responsabili – sia pure assieme agli altri gruppi sociali che compongono la comunità – bensì come un soggetto estraneo, dispensatore di servizi, di favori o di «stangate»[6]. E come sottolinea Dematté, «ove manca questo principio sovraordinato, il funzionamento della società è delegato soltanto alle leggi e alla repressione dei comportamenti illegali. Ma non essendo le leggi radicate su valori sociali condivisi, il successo del controllo coercitivo e il suo costo diventano l’uno modesto e l’altro insopportabile»[7]. Nei confronti delle imprese Economia&Management si propose quindi una funzione che potremmo definire «maieutica», aiutarle a ritrovare in sé stesse il ruolo e le responsabilità derivanti dalla loro posizione e importanza economica e, nello stesso tempo, metterle di fronte ad alcuni errori, ai rischi di facili scorciatoie.

Funzione pedagogica, funzione maieutica e funzione critica. Questi sono alcuni dei tratti originari portanti della rivista nei confronti del proprio pubblico e dei propri lettori. L’altra caratteristica fondamentale è indubbiamente il pluralismo e l’apertura sul versante dei contributi e degli articoli pubblicati. Le sfide, siano esse di natura tecnologica, sociale o politica, cui tutti noi, e quindi anche le imprese, siamo sottoposti e partecipi sono tali e tante che «nessuno che abbia senno può pensare di avere risposte esaustive di fronte a cambiamenti così radicali»[8]. Ecco quindi la necessità di aprire al contributo di diversi soggetti, con diverse prospettive, perché «quanto più ci pensiamo, quanto più ne parliamo», tanto più possiamo nutrire la speranza di comprendere tali cambiamenti, di affrontarli e di risolverli positivamente. Economia&Management pur essendo la rivista di una determinata scuola e università non solo ne coinvolge le diverse componenti interne, ma stimola e accoglie contributi esterni da parte di altre istituzioni e università. Il focus non è la SDA e non è la Bocconi ma sono «i problemi del nostro Paese», ed Economia&Management, proprio perché rivista della SDA e della Bocconi, dei valori che ne sono a fondamento e della loro posizione e prestigio nel contesto italiano e internazionale, ha avvertito il dovere di assumere un ruolo di stimolo e di aggregazione che superasse i confini del proprio ateneo.

Queste che ho descritto sono le radici di Economia&Management, o meglio – utilizzando i versi di una famosa poesia di Ungaretti – «questi sono i miei fiumi», le urne d’acqua cui mi sono ispirato nel dirigere questa rivista. Ed è difficile – almeno per me – comprendere se «questa è la mia nostalgia» o una fonte cui attingere anche per il futuro della rivista. Questo passato è sicuramente parte del presente, ma può esserlo anche del futuro? Occupandosi di internazionalizzazione, Dematté si è spesso soffermato sulla dimensione spaziale degli eventi, sull’allargamento dell’ambito di riferimento e sul dilemma che questo fenomeno comporta: rinchiudersi oppure integrarsi in aree più ampie. Se rivolgiamo tale quesito a una rivista come Economia&Management bisogna quindi domandarsi se ha ancora senso focalizzarsi sull’Italia e parlare – in primis – alle imprese che operano nel nostro Paese o se dobbiamo invece allargare gli orizzonti a un pubblico più ampio – europeo o globale – soprattutto quando, oltre alle imprese, anche le stesse business school agiscono e si confrontano (competono?) sempre più in tale spazio allargato e quando la ricerca accademica viene intesa, in quanto scienza, universale. Da una parte vi sono coloro che intendono l’allargamento spaziale come globalizzazione, ovvero uno spazio unico e senza confini, in cui le imprese affrontano le stesse sfide, gli stessi problemi e alle quali il management offre un modello comune. Dall’altra parte vi sono invece coloro che intendono l’allargamento spaziale come combinazione di spazi distinti, in cui i confini si trasformano ma non scompaiono, in cui esiste varietà (e questa ha un valore positivo) e il non riconoscerla implica ritrovarsi hegelianamente nella «notte in cui tutte le vacche sono nere». Anche in questo caso Dematté ha esortato a «evitare conclusioni preconfezionate – come per esempio quella che assume a priori l’esistenza di una tendenza generalizzata e irreversibile vero la globalizzazione – per accertare invece con oggettività e senza pregiudizi la reale dinamica geografica nello specifico campo sotto esame… [in cui] la dimensione locale dell’attività può benissimo coesistere o perfino accentuarsi, pur in presenza di una generalizzata globalizzazione nel resto del sistema»[9]. A distanza di tempo, mi sembra ancora un valido consiglio per il futuro, non solo di questa rivista.

 

 

 

 

 

1

Si veda H.A. Simon, «The business school a problem in organizational design», Journal of Management Studies, 4(1), 1967, pp. 1-16.

2

C. Dematté, «Governo d’impresa: fra arte e professione», Economia &Management, 1(febbraio), 1994, pp. 5-8. Articolo pubblicato alle pp. 8-11 di questo numero speciale dedicato ai 30 anni della rivista.

3

C. Dematté, «Paese che vai, impresa che trovi», Economia &Management, 4(ottobre), 1992, pp. 5-8. 

4

Si veda E. Resti, L’Università Bocconi: dalla fondazione a oggi, Milano, Egea, 2000.

5

F. De Bortoli, Prefazione al volume di C. Dematté, Il mestiere di dirigere. Milano, Etas, 2004.

6

G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Bari, Laterza, 1977.

7

C. Dematté, «La responsabilità politica della classe dirigente italiana», Economia &Management, 2(maggio), 1992, pp. 5-7. 

8

C. Dematté, Prefazione al volume Una cultura per l’impresa, Milano, Etas, 1996.

9

C. Dematté, «Le strategie di internazionalizzazione», 2003, in E. Marafioti e F. Perretti, Strategie di internazionalizzazione, Milano, Egea, 2020.