E&M

2020/5

Guido Corbetta

Conoscenza come fattore di competitività

Giudo Corbetta è stato direttore di Economia&Management dal 2014 al 2017, in questa intervista ripercorre alcune delle tappe fondamentali della sua direzione sottolineando l’importanza della formazione (dello studio e della lettura) per i manager di oggi.

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Guido Corbetta è stato direttore di Economia&Management nel triennio 2014-2017, ma con la rivista ha avuto a che fare anche ai tempi della direzione del fondatore, Claudio Dematté, come membro del comitato editoriale. Accademico con una spiccata attenzione, per formazione e convinzione, al mondo aziendale, ricorda che Dematté gli ha insegnato il rigore nella ricerca e la passione per la crescita degli studenti e delle aziende, oltre a una serie di solidi valori come il rispetto per le persone, la lealtà nei rapporti interpersonali e la faticosa ricerca della verità in tutte le situazioni. E sempre Dematté gli ricordava che la primaria missione di Economia&Management fosse pubblicare articoli che contenessero idee, modelli e strumenti utili per coloro che lavorano nelle e per le aziende: imprenditori, manager, lavoratori, professionisti, consulenti, sindacalisti, policy maker. 

Lei è considerato tra i fondatori di quell’area di competenza, nell’alveo della strategia aziendale, chiamata family business. Il suo nome è associato alla prima cattedra convenzionata nella storia della Bocconi (e non solo), risalente al 2003. E proprio recentemente è stato insignito di un riconoscimento internazionale che la colloca tra i 100 esperti più influenti al mondo in questo ambito. Da questo osservatorio privilegiato, come inquadrerebbe i fattori evolutivi nel settore family business, non solo in Italia, degli ultimi 30 anni? 

 

Tutto il sistema delle imprese, in Italia e anche in altre aree del mondo, è molto cambiato in questo periodo così lungo. Si è trasformato radicalmente l’orizzonte geografico che, almeno fino a pochi mesi fa, era diventato globale. La pandemia legata al Covid-19 potrebbe portare i Paesi a riflettere con più attenzione alle relazioni, anche economiche, tra di loro, ma ritengo impossibile che il livello di globalizzazione torni ai livelli di 30 anni fa. 

L’impatto delle nuove tecnologie ha radicalmente modificato tanti settori. E non faccio riferimento solo alle tecnologie della comunicazione o ai social media. Visitando le fabbriche delle produzioni più antiche, come per esempio la metallurgia, è evidente lo sforzo che, grazie alla tecnologia, è stato compiuto per renderle più sicure, con minori difettosità, più efficienti. 

Ma soprattutto sono cambiate alcune convinzioni nella gestione aziendale, in particolare nelle imprese italiane. Penso al mantra del «piccolo è bello». Il sistema industriale italiano, con le dimensioni ridotte delle singole imprese e alcune reti – la cooperazione, i distretti –, sembrava un punto di forza del Paese grazie alla sua flessibilità. Purtroppo, questo slogan ha attratto molti imprenditori e anche alcuni ricercatori. Così facendo, però, si sono indebolite le imprese perché la piccola dimensione non consente i processi di accumulo tecnologico, di conoscenza e finanziario che ormai sono diventati essenziali per competere con successo nel mondo. Con specifico riferimento alle imprese familiari, mi pare che negli ultimi decenni sia stata anche superata la convinzione dell’«impresa povera e famiglia ricca». Questo modello, già criticato ai tempi proprio da Claudio Dematté e da me in una ricerca sulle imprese familiari[1], considerava positivo per le imprese che molte delle risorse finanziarie venissero dal sistema bancario sotto forma di debito. Questa convinzione ha indebolito nel Paese una cultura dell’equity, oggi tanto preziosa per sostenere crescite dimensionali significative.

Se dovesse indicare, in un’ideale bussola per i «naviganti nel mondo del management», i 4 punti cardinali essenziali per un fruttuoso rapporto tra università e impresa, quali sceglierebbe? 

 

Le università sono un luogo di produzione e di diffusione della conoscenza. Il primo punto è che si aprano le porte. Le porte delle università per le aziende interessate e le porte delle aziende per le università, sia in termini di condivisione di ricerca sia di rapporti con gli studenti. Il secondo elemento importante è la necessità che questo scambio avvenga anche per gli executive interessati. Sull’esempio di altre importanti business school del mondo, come Harvard, la SDA Bocconi ha avviato qualche anno fa un programma DBA (Doctorate in Business Administration) riservato agli executive che vogliano approfondire le conoscenze sui metodi di ricerca. Il successo di tale prodotto è stato immediato. Il terzo elemento riguarda il fatto che, con uno sforzo comune, le università e le imprese devono competere a livello internazionale. Il sistema universitario italiano negli ultimi vent’anni ha realizzato uno sforzo importante per aggiornare in tal senso i metodi di ricerca, la formazione, le faculty. Le imprese, in particolare le più grandi e internazionalizzate, possono contribuire non poco ad accelerare e diffondere questo processo. Penso infine a un ultimo elemento: le imprese possono aiutare le università a sviluppare i sistemi necessari per raggiungere alti livelli di efficienza. Sono convinto che un sistema efficiente migliori anche la propensione a fare ricerca, smontando quelle rendite di posizione che oggi le università non possono più permettersi.

Per essere interessanti (e utili, aggiungerei) per le persone che lavorano nelle e per le aziende, che tipo di conoscenza va prodotta e diffusa? 

 

Questo è un tema centrale. Da quando ero studente della Bocconi, accademici di rango come Masini, Coda, Dematté, Brunetti e Airoldi sono stati per me degli esempi: per loro la prima caratteristica che la conoscenza deve avere è la sua rilevanza, la sua utilità per un miglioramento della competitività di breve o di medio-lungo termine delle imprese e delle altre istituzioni rilevanti per un Paese. Dobbiamo mantenere vivo questo anelito senza il quale l’università non risponderebbe a uno degli elementi essenziali della sua missione, quello della formazione dei e delle giovani. In secondo luogo, va prodotta una conoscenza di frontiera. Spesso le persone che lavorano nelle e per le imprese sono schiacciate sull’operatività e hanno poco tempo per alzare lo sguardo verso il futuro non immediato. Faccio un esempio. Per decenni le imprese si sono concentrate sull’obiettivo della massimizzazione del valore economico. I ricercatori più avveduti anche in quei decenni proponevano riflessioni su altri obiettivi tipici dell’impresa, cercando di promuovere una cultura della sostenibilità, dello shared value. Oggi finalmente anche nelle imprese questo tema si è diffuso, ma senza quei ricercatori che hanno seminato ricerche di frontiera ciò non sarebbe avvenuto o sarebbe avvenuto con una minore pervasività. Questo esempio, mi porta a un terzo elemento che ritengo importante: la produzione di un pensiero anticonformista. Se tutti i docenti e i manager si fossero appiattiti sulla cultura della massimizzazione del valore economico oggi le imprese sarebbero molto meno abili a governare le relazioni con gli stakeholder.

Visto che lei è stato uno dei protagonisti della storia di Economia&Management, quale contributo ritiene che la rivista abbia prodotto e possa produrre rispetto alle conoscenze di strategia aziendale in generale e di family business in particolare? 

 

Claudio Dematté era un docente di strategia aziendale. Il primo articolo italiano sulla successione nelle aziende familiari fu pubblicato su Economia&Management[2]. Per valutare il contributo dato a questi studi basta entrare nell’archivio digitale della rivista. Guardando al futuro ritengo che sia importante continuare a valorizzare i contributi dei ricercatori interessati a questi temi, magari cercando di spingerli a produrre conoscenza sulle best practice seguite in tanti casi aziendali di successo. Nei prossimi anni, le imprese italiane dovranno realizzare strategie più impegnative in termini di M&A, alleanze strategiche, riassetti organizzativi, riassetti proprietari. Una rivista come Economia&Management dovrà continuare a produrre conoscenze utili per gli imprenditori e i manager che dovranno realizzare questi processi.  

Nel triennio di direzione di Economia&Management ha avuto modo di svolgere un’ulteriore attività, oltre a quella di docente e alle esperienze non accademiche legate alla presenza in diversi Consigli di Amministrazione. Che cosa ha significato per lei?


È stata un’esperienza di grande interesse anche se non priva di difficoltà. La principale è legata ai rischi che si corrono, anche di tipo penale e civile. Tutto sommato, però, sono esperienze che mi sento di proporre anche ai colleghi più giovani. È una via utile per scoprire quali siano i problemi davvero rilevanti per le imprese. Ed è anche un modo per contribuire allo sviluppo delle imprese, una responsabilità che deve caratterizzare i ricercatori delle discipline economico-aziendali. 

1

C. Dematté, G. Corbetta, I processi di transizione delle imprese familiari, Milano, Mediocredito lombardo, 1993.

2

G. Corbetta, P. Preti, «La successione nelle aziende familiari», in Economia&Management, 2, 1988, pp. 123-125.