E&M

2020/5

Claudio Dematté

Governo d’impresa: fra arte e professione

In questo editoriale, uscito nel 1994 sul numero 1 di Economia&Management , il fondatore della rivista affronta il tema del governo dell’impresa come equilibrio tra arte e scienza. In questo editoriale ritroviamo non solo l’impostazione e la filosofia di Dematté, ma anche uno dei suoi principali insegnamenti: che gestire imprese significa comprendere l’agire collettivo e bisogna affidarsi non solo alla ragione, ma anche al sentimento e alla passione.

Scarica articolo in PDF

Claudio Dematté ha scritto circa 90 editoriali: in tutti i numeri della rivista, dalla fondazione per diciassette anni fino alla sua morte improvvisa. Come da lui stesso ricordato, si trattava di «un appuntamento periodico che, appena mantenuto, già preme e assorbe per delineare il tema successivo»[1]. Sceglierne uno tra questi è molto difficile, anche perché Dematté ha affidato a tali scritti le riflessioni che derivavano dalla sua attività di docente, di studioso e di manager con una prospettiva non limitata all’orizzonte della stretta attualità ma con l’intento programmatico di «mettere a fuoco i grandi cambiamenti che scaturiscono dalla dinamica dei piccoli e grandi eventi-attori di tutte le specie che popolano il mondo». Catturare tale complessità in un unico esemplare è quindi impossibile e invitiamo i lettori a leggere nel nostro archivio anche gli altri editoriali. Dovendo sceglierne uno – e uno soltanto – vi proponiamo il seguente, uscito sul numero 1/1994 della rivista, sul governo dell’impresa come equilibrio tra arte e scienza. In questo editoriale ritroviamo non solo l’impostazione e la filosofia di Dematté, ma anche uno dei suoi principali insegnamenti: che gestire imprese significa comprendere l’agire collettivo e bisogna affidarsi non solo alla ragione, ma anche al sentimento e alla passione. Un insegnamento prezioso che, come ci ha spesso ricordato, non si applica solo alle imprese.

 

Quasi un’arte, più che una professione: questa sembra essere la natura della funzione di governo. Anche del governo di un’impresa. Affermare che è quasi un’arte inquieta chi lavora nell’accademia e nel mondo della ricerca: più che una valorizzazione dell’attività appare come una diminuzione. Un qualche cosa di non studiabile, di non generalizzabile, di non ripetibile. Quindi qualcosa di non scientifico. Perciò qualcosa non degno di quel mondo che presume di trovare legittimazione solo se coltiva la scienza.

La verità è invece un’altra: dire che il governo è un’arte – o che il governo è anche arte – significa riconoscere la complessità della funzione e la sua non riducibilità dentro schemi fissi. Non significa affatto negare la sua studiabilità; né significa arrendersi di fronte alla infinita varietà dei casi specifici, escludendo la possibilità di prevedere, alla luce dell’analisi delle esperienze passate, percorsi probabili. Significa piuttosto ammettere che le variabili che intervengono attorno ai problemi di governo sono talmente numerose e le loro interrelazioni così complesse da non potere utilizzare le leggi della meccanica per individuare l’esito atteso.

L’essenza dell’arte di governo

Per governare occorre scoprire e costruire giorno dopo giorno le condizioni che rendono possibile la sopravvivenza e lo sviluppo di un’organizzazione. Alcune di queste condizioni sono definibili quasi come leggi biologiche: sono le leggi che consentono all’organizzazione di mantenere legate a sé le risorse critiche di cui essa abbisogna.

Fra queste ci sono le leggi dell’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale. Esse definiscono i termini da soddisfare per ottenere l’apporto all’impresa del capitale necessario. Ricerche ponderose sono state svolte per definire il costo del capitale: ovvero, se osservato dalla prospettiva opposta, il rendimento che occorre offrire a chi apporta questo fattore della produzione nelle diverse configurazioni di rischio che assume l’impresa.

Alcune di queste «quasi leggi» arrivano al punto di individuare con un buon grado di plausibilità anche le combinazioni ottimali di capitale di rischio e di capitale di credito che assicurano le migliori condizioni di equilibrio nelle diverse configurazioni di impresa.

Purtroppo la ricerca del punto di equilibrio complessivo di un’impresa comporta un’opera ben più articolata che quella di trovare le condizioni di soddisfazione rispetto a uno dei suoi interlocutori (nel caso appena visto, dei finanziatori). Ogni organizzazione, ogni impresa è un organismo che scambia con più soggetti risorse diverse: da alcuni riceve lavoro e li ricambia con salari e soddisfazioni d’altra natura; da altri riceve materie prime in cambio di pagamenti presenti o futuri; ad altri cede prodotto in attesa di ricavi; da altri ancora riceve licenze, permessi o quant’altro è necessario per operare secondo norma.

Ogni scambio è un atto di negoziazione. In quanto tale è anche un atto di confronto, nel corso del quale si misurano i rispettivi punti di convenienza e il potere contrattuale. Ogni atto di scambio ha un valore positivo o negativo non in assoluto, ma in funzione dell’esito che avranno tanti altri atti che vengono compiuti per portare a compimento l’intero processo produttivo. Non è quindi possibile sapere con certezza a priori se un acquisto avrà apportato valore o ne avrà detratto: dipende dall’uso che si farà del bene acquistato e dall’esito del finale atto di vendita.

Poiché la gestione si compone di una miriade di singoli atti di acquisto, di innumerevoli azioni di trasformazione, di diverse operazioni di vendita, ognuna delle quali concorre a formare il risultato complessivo, l’arte del governo consiste nel fornire a ciascuna persona che interviene nel processo i punti di riferimento per comporre in modo armonico le proprie scelte in modo da ottenere – alla fine del processo – una piena soddisfazione per tutti coloro che hanno partecipato a esso.

La convenzione vuole che si consideri positivo l’esito che vede il formarsi di un profitto almeno sufficiente per soddisfare i portatori di capitale di rischio. L’esito è giudicato ancora più positivo se ha dato luogo a un profitto ancora maggiore di quanto atteso dagli azionisti. Le ragioni per le quali tutta l’attenzione – nel valutare la qualità della gestione – è concentrata sulla remunerazione del capitale di rischio deriva dalla forma nella quale questo fattore partecipa al processo produttivo: il suo compenso non è predefinito, ma è ciò che residua, dopo avere remunerato gli altri fattori che convenzionalmente si presumono soddisfatti con quanto loro riconosciuto.

Per una valutazione più completa occorrerebbe invece verificare se il risultato di profitto non sia stato raggiunto sacrificando i compensi di fattori della produzione altrettanto critici per lo sviluppo dell’impresa. Il test ultimo dovrebbe dunque essere quello dell’equilibrio nei confronti di tutti coloro che partecipano direttamente o indirettamente al processo d’impresa.

Ecco sorgere un concetto di equilibrio: un concetto difficile e forse anche troppo vago per prestarsi a una trattazione rigorosa, pur trovando la sua culla nel cuore dell’economia.

In realtà affermare che la questione essenziale è riuscire a mantenere un punto di equilibrio verso tutti i soggetti che compongono l’organizzazione o che concorrono alla sua sopravvivenza, anche se esterni, significa ritornare al concetto di scambio.

Mantenere un punto di equilibrio significa conservare intatte le possibilità di continuare negli scambi anche per il futuro, grazie al fatto che il risultato di quelli fin lì realizzati viene considerato di soddisfazione per i soggetti che li hanno intrapresi. Significa – in altri termini – che si è riusciti a offrire, sui vari mercati di approvvigionamento e di sbocco sui quali l’impresa è impegnata, condizioni pari o migliori a quelle di equilibrio.

Tutti coloro che operano nel concreto sanno tuttavia che i mercati non sono perfetti: sanno che molti degli scambi nei quali l’impresa si trova impegnata sono vischiosi, con l’una o l’altra parte parzialmente o interamente prigioniera, al punto da essere costretta ad accettare anche condizioni al di sotto dell’equilibrio di mercato. Si pensi alla posizione di certi fornitori, strutturati per servire uno specifico cliente e nell’impossibilità di trovare rapidamente sbocchi alternativi per essersi posti come terzisti specializzati. Ma si pensi anche alla posizione di lavoratori che potrebbero avere prospettive di impiego più convenienti, ma solo accettando spostamenti che vedono sorgere costi di sradicamento.

In queste condizioni di mercato imperfetto il test di buon governo non si può fermare alla verifica se siano stati ottenuti profitti adeguati: deve anche accertare se per ottenere questo risultato non si siano create delle situazioni che potrebbero poi portare al distacco dall’impresa di fattori di produzione non soddisfatti di quanto loro riconosciuto nel corso del processo, ma preziosi per lo sviluppo dell’impresa.

Il governo di impresa come costruzione di nuove combinazioni e di nuovi equilibri

In realtà il governo di impresa è anche di più di quanto detto fin qui: certamente è la ricerca del punto di equilibrio simultaneamente con tutti i soggetti che intervengono in una forma o nell’altra nell’attività dell’impresa. Ma è anche – nella versione più imprenditoriale – la ricerca continua di nuove e più profittevoli occasioni di trasformazione e di scambio.

In tale prospettiva è l’individuazione di qualche cosa che prima non esisteva: un bisogno nuovo, una diversa combinazione produttiva, un nuovo fattore della produzione, un qualcosa che alteri alla radice le condizioni di scambio abituali, creando nuove prospettive. In quest’ottica, il governo di impresa non è la costruzione di un punto di equilibrio a condizioni date, ma è piuttosto la rottura di vecchi equilibri per costruirne di nuovi. Non a caso sono sorti negli ultimi anni filoni di riflessione che sottolineano questo aspetto della buona gestione: questo rincorrere in continuazione nuovi punti di equilibrio sempre più avanzati rispetto a quelli sui quali sono attestati i concorrenti.

Alcuni studiosi arrivano a estremizzare le loro posizioni negando che l’arte di governo sia la ricerca dei punti di equilibrio, ma piuttosto quella dei vuoti di mercato: quei punti di domanda insoddisfatti sui quali non si è ancora formato un mercato. Altri affermano che l’essenza del governo di impresa consiste nel costruire in continuazione nuove competenze e nuove sfide: le sole in grado di scoprire nuovi bisogni, di proporre nuovi prodotti, di inventare nuove combinazioni produttive, di mobilitare le energie verso nuovi equilibri.

Una lettura più attenta consente di evitare la dicotomia estrema, per riconoscere che l’arte di governo è l’una e l’altra cosa assieme: è mantenere l’equilibrio sui mercati già formati e al tempo stesso scoprire nuove prospettive di scambio che risiedono proprio là dove nessuno prima aveva trovato la scintilla per fare sorgere la convenienza reciproca.

Abbiamo visto che la funzione di governo era già complessa quando si trattava di individuare i punti di equilibrio simultaneo su diversi mercati già configurati. Che cosa si può dire quando questa comporta anche la costruzione di nuove occasioni di scambio, tendendo nuovi fili fra mercati dei fattori e mercati dei prodotti, grazie a nuove combinazioni produttive e alla costruzione di nuove competenze?

L’unica cosa che si può dire è che essa acquisisce una dimensione aggiuntiva che la allontana dalle attività meramente tecniche per proiettarla in altre direzioni.

La funzione di governo di fronte alla non calcolabilità a priori degli esiti ultimi

Se l’esercizio della funzione di governo ha le caratteristiche sopra descritte, viene conseguente interrogarsi sulla possibilità di predefinire nel momento delle scelte il risultato ultimo a cui esse condurranno. Ciò equivale a chiedersi se gli imprenditori e coloro che hanno la responsabilità di governo di una intera impresa inneschino – all’atto di ogni singola scelta – un processo che esplori l’effetto della stessa fino alle sue ultime conseguenze.

Più ancora: se ogni scelta venga valutata alla luce delle molte altre scelte che si dovranno compiere per dare compimento all’intero ciclo produttivo. In breve ci si chiede se sia «calcolabile», costruibile e prevedibile la risultante finale, oppure se essa non sia niente altro che il condensato inconsapevole di una sequenza di scelte disgiunte: un frutto quasi casuale, senza il merito di essere stato costruito con intelligenza.

Il quesito non è senza rilievo: dalla risposta dipende la possibilità di costruire attorno all’attività di governo un sistema di ricerche e di formazione. Da essa dipende la trasmissibilità delle conoscenze che scaturiscono dallo studio delle esperienze in capo a persone che si accingono ad assumere responsabilità di governo. Ma da essa dipende anche la possibilità per chi governa di apprendere nell’esercizio stesso della funzione, traendo dall’esperienza «leggi» e «sensibilità» che migliorano l’esercizio futuro. Una riflessione approfondita sulla questione suggerisce che se il governo di un’impresa è quanto detto fin qui esso si compone o si scompone almeno in due operazioni:

  • quella del calcolo puntuale del punto di equilibrio sui singoli mercati di approvvigionamento o di sbocco o verso altri singoli interlocutori cruciali per la vita d’impresa;
  • quella della valutazione dell’equilibrio complessivo statico, ma soprattutto dinamico.

Per quanto riguarda il primo tipo di operazioni sussistono difficoltà note e già accennate. Esistono anche tecniche talvolta raffinate per individuare la soluzione: basta pensare ai sistemi di segmentazione, alle tecniche di pricing, ai calcoli di ottimizzazione del carico degli impianti, ai sistemi di controllo del costo del capitale.

In breve, vi sono – e sono in continuo miglioramento – tecniche capaci di «assemblare» i vari elementi che influenzano un processo per valutarne la risultante.

Trattando questioni che sono parti di un sistema più generale queste tecniche non possono presumere di dare soluzioni indipendenti dal disporsi del resto. Quindi sono intrinsecamente imperfette. Ma hanno la possibilità di approssimare l’esito delle scelte sulle quali intervengono; per lo meno riescono a indicare lo spettro di soluzioni possibili alla luce degli stati alternativi del resto del sistema.

Non sorprende che su questo fronte siano fiorite le ricerche e che qui si adagi la maggior parte delle discipline manageriali. Da questa attività scaturiscono idee e tecniche che attrezzano quanti si accingono a svolgere funzioni di direzione partendo – com’è giusto che sia – dal presidio di una specifica funzione aziendale.

Ma l’arte di governo non si esaurisce in questo. Non si esaurisce in questo «calcolo» nemmeno per quanto riguarda le singole scelte, se è vero – com’è vero – che il problema non consiste solamente nel trovare punti di equilibrio con situazioni date, ma anche di costruire nuove combinazioni produttive capaci di generare valore per tutti i soggetti che ne vengono coinvolti.

In tale caso, anche l’esercizio di una specifica funzione – e non solo quello del governo complessivo – richiede la prefigurazione di realtà nuove attorno alle quali applicare il «calcolo» del punto di equilibrio. In breve, richiede preliminarmente una visione, cioè un atto non scientifico, ma creativo sul quale esercitare poi la disciplina della valutazione.

Va da sé che questo elemento creativo dell’attività di governo è presente in massimo grado là dove occorre non solo trovare la risposta a specifici quesiti funzionali, ma costruire e valutare l’equilibrio complessivo d’impresa. In questo caso occorre prefigurare lo stato possibile di tutte le variabili in campo; occorre mentalmente ipotizzare il loro diverso combinarsi; occorre infine calcolare la risultante delle diverse combinazioni.

Non può sfuggire che il compito appare di fattura tale da fare dubitare sulla sua «calcolabilità». Esso equivale alla soluzione di complessi sistemi di equazioni dopo che sia stato immaginato il dispiegarsi delle innumerevoli variabili coinvolte e le loro interrelazioni. Modelli di pianificazione integrata, tecniche di system dynamics, strumenti di simulazione sono stati ideati e sperimentati per dare a questa attività una strumentazione che la sottragga almeno in parte alla apparente indeterminabilità.

Non pare nemmeno il caso che si provi a saggiare la complessità del governo di impresa visto nella sua funzione dinamica e imprenditoriale: là dove non si vuole semplicemente trovare un punto di equilibrio rispetto a una realtà già esistente, ma piuttosto costruire nuove realtà e nuovi punti di equilibrio.

Non pare nemmeno il caso, perché emerge con tutta evidenza che si tratta di una attività dove si combina l’arte della prefigurazione e quella del calcolo complesso.

Quanto detto mette in evidenza alcuni punti sui quali occorre riflettere. Anzitutto il fatto che l’attività di governo si esercita a vari livelli e con diversi gradi di ampiezza. In secondo luogo che essa è a tutti i livelli un insieme di «calcolo» e di creatività. In terzo luogo che essa non è certo esercitabile con l’esclusivo uso delle tecniche, ma che queste le sono di supporto fondamentale. Infine che proprio per questa natura, l’arte di governo è una funzione non solo tecnica.

Poiché gli esiti ultimi sono il frutto di una miriade di attività di creatività e di calcolo di tutti i soggetti coinvolti nell’attività di impresa, la sua essenza ultima è la creazione di un contesto dentro il quale questo insieme di attività si compone armonicamente potenziando al massimo sia la creatività sia la capacità di valutare la compatibilità delle singole posizioni rispetto all’equilibrio generale.

1

Le citazioni sono tratta da C. Dematté, Una cultura per l’impresa, Milano, Etas, 1996.