E&M

2020/4

Fabrizio Perretti Maurizio Landini

Impresa-lavoro: pari dignità e una progettazione comune

La pandemia ha reso evidenti le fragilità e le profonde disuguaglianze che caratterizzano l’attuale sistema economico. Al tempo stesso, si è aperto un processo che richiede un cambiamento profondo, cioè la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese. Dopo 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, è venuto il momento di definire un nuovo statuto che garantisca a tutti stessi diritti e stesse tutele, indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro che si ha.#Mai come adesso – per il livello di investimenti di cui c’è bisogno, e per il grado priorità di questi – un ruolo di indirizzo, di regolazione e, in alcuni casi, anche di intervento diretto da parte dello Stato è imprescindibile: dalla necessità di garantire la banda larga e una connessione di rete a tutto il Paese al sostegno per il welfare, in primis alla sanità pubblica e all’istruzione.

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Nella contrapposizione capitale-lavoro, quest’ultimo sembra essere stato, negli ultimi anni, la parte sconfitta. E questo come conseguenza di attacchi che provenivano non solo dal capitale, ma anche dalla politica, sia di destra sia in alcuni casi anche di sinistra. Lei condivide questa analisi?

 

Si può dire che in questi anni abbia vinto o prevalso un’idea in cui il mercato doveva essere libero e non avere alcun vincolo sociale. Questo ha determinato una fortissima precarizzazione del lavoro, che credo sia il problema più grosso da affrontare: la precarietà è davvero una lesione sia della dignità umana sia un elemento che rompe la coesione sociale. Questa logica preminente ha provocato una svalorizzazione del lavoro proprio perché è cambiato anche il capitale. Tra le forme diverse di capitalismo è prevalsa infatti quella più orientata a dare valore alla finanza, rispetto a una che garantisse il ruolo sociale dell’impresa. Questi due elementi, aiutati anche dal processo di apertura dei mercati, la cosiddetta globalizzazione, hanno favorito la libertà di circolazione dei capitali senza alcun controllo, mettendo in competizione miliardi di persone divise tra chi non aveva diritti sul lavoro e quanti invece ne avevano.

Tutto questo è avvenuto senza che vi fosse alcuna regola, senza che la libera circolazione di capitali fosse soggetta a controlli. In tal senso, la costruzione di paradisi fiscali ne è un risultato tangibile. Questo non solo ha modificato i rapporti di forza tra capitale e lavoro, ma ha sicuramente svalorizzato il ruolo di quest’ultimo rendendone difficile la rappresentanza. Il fatto che l’affermazione di una tale cultura abbia prevalso – diventando un pensiero unico che ha attraversato anche forze politiche che in linea teorica avrebbero dovuto rappresentare punti di vista diversi – credo che sia un problema vero. Se penso alle riforme del mercato del lavoro in questi ultimi vent’anni – e mi riferisco alla Germania, alla Francia e all’Italia – si è trattato in molti casi di riforme sbagliate e onerose per i lavoratori, fatte anche da governi o da forze politiche che raccontavano di voler rappresentare il lavoro. Penso che la rottura che si è determinata tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica sia un tema da affrontare al più presto, in quanto fattore fondamentale per la tenuta della coesione sociale. Questa globalizzazione – una globalizzazione non dei diritti ma della finanza – ha determinato una competizione senza precedenti tra le persone, che per vivere hanno bisogno di lavorare. E questo in alcuni casi ha abbassato il livello della qualità del lavoro, della qualità dei prodotti e anche della qualità sociale, aumentando a dismisura le diseguaglianze. Al punto che oggi non solo chi ha un pensiero di rappresentanza del lavoro, ma anche chi ha un pensiero di mediazione tra il capitale e il lavoro, si pone il problema di come cambiare un modello di sviluppo che ha aumentato troppo le diseguaglianze sociali. In alcuni casi, anche chi pensa di difendere il mercato si interroga su come intervenire per rimediare alle distorsioni e alle fragilità che questo modello ha determinato. In questo senso credo che quello che è avvenuto con la pandemia sia, da un certo punto di vista, paradigmatico.

 

Lei pensa quindi che sia in atto un riorientamento del sistema capitalistico, cioè che il sistema abbia consapevolezza di aver oltrepassato un limite? Pensa inoltre che anche il sistema politico stia reagendo in tal senso?

 

Secondo me è stato fatto ancora troppo poco. Credo che oggi si debba ristabilire la centralità della persona e del lavoro, non inteso unicamente come diritto al lavoro, ma anche come mezzo per la realizzazione della persona e come strumento per produrre cose utili, sia sul piano sociale sia su quello ambientale. Oggi questo modo di vedere le cose è ancora molto minoritario, e dovrebbe invece essere il punto da cui ripartire, anche perché i processi di cambiamento hanno bisogno della partecipazione delle persone. Quando prima dicevo che la vicenda della pandemia mi sembra paradigmatica, intendevo che probabilmente in pochi mesi molti luoghi comuni sono stati spazzati via. Per esempio, l’idea che i mestieri più umili, in particolare quelli manuali, fossero spariti e non avessero più alcun valore, è stata completamente rivista. Si pensi non solo al settore socio-sanitario, ma anche all’agricoltura, alla logistica, ai supermercati. Anche quelle che erano le forme di lavoro più precarie, invisibili e meno pagate, improvvisamente sono diventate visibili e importanti. Senza quei lavori e senza il contributo di quelle persone noi oggi non saremmo nella condizione di uscire dalla pandemia o di sconfiggerla. Quanto avvenuto ha ridato centralità e visibilità al lavoro. Inoltre, gli effetti della pandemia nel mondo ci indicano come ci siano una serie di diritti fondamentali della persona che devono essere pubblicamente garantiti. Penso al diritto alla salute, al diritto alla formazione e all’istruzione; penso al diritto alla cultura, al sapere e alla conoscenza. Penso anche al diritto a un lavoro, ma a una lavoro che sia accettabile, che è tale nel momento in cui permette alla persona che lo svolge di vivere dignitosamente. Quando, pur lavorando, sei povero, vuol dire che c’è qualcosa che non va, che c’è un equilibrio che si è rotto nel rapporto tra il capitale e il lavoro.

 

La pandemia ha messo in evidenza anche il fenomeno dello smart working, che può avere degli effetti positivi per il lavoratore e per la sua qualità della vita, ma che può anche creare tutta una serie di possibilità di sfruttamento e di controllo da parte delle imprese. Lei come giudica tale fenomeno e che opinione ha il sindacato su questo cambiamento nell’organizzazione del lavoro?

 

Per capire questo fenomeno dobbiamo analizzare tre processi di trasformazione molto intensi. Il primo riguarda la questione sanitaria, e lì mi pare che sia sotto gli occhi di tutti la necessità di investire sulla sanità pubblica e sulla prevenzione da gestire sul territorio, rafforzando in questo modo lo stato sociale. Ormai tutti si sono resi conto che i tagli al settore sanitario fatti negli anni passati non solo sono stati sbagliati ma anche – diciamo così – profondamente dannosi per le persone e la coesione sociale. Il secondo processo di trasformazione riguarda la crisi ambientale. Molti studiosi hanno evidenziato come la depredazione della natura e i cambiamenti climatici abbiano contribuito a quello che viene chiamato «salto di specie» e, quindi, alla diffusione più rapida del virus. Questo è un tema che ha una radicalità senza precedenti. Se non cambiamo modello di sviluppo, che non può più essere semplicemente quantitativo e senza limiti, se non apriamo una discussione sulla sostenibilità ambientale e sociale di quello che si produce, se non ripensiamo i nostri stili di vita, e quindi anche i nostri livelli di consumo, metteremo a rischio l’esistenza stessa del nostro pianeta. Infine, ed è il terzo processo, l’accelerazione senza precedenti delle potenzialità delle tecnologie digitali, che la pandemia ha contribuito a evidenziare. Da un certo punto di vista, lo smart working non è che la punta di un iceberg. Lo dico da uomo del Novecento, con tutte le resistenze che fino a qualche mese fa potevo avere anch’io, per esempio, nei confronti delle videoconferenze. L’uso di queste tecnologie possono certamente permettere una qualità del lavoro diverso, ma dipende da come le si usa. Non è la tecnologia in sé a essere positiva o negativa, ma come questa viene applicata.

Sono queste le tre sfide che, a mio giudizio, interrogano tutti, e che sicuramente anche il sindacato deve intercettare per rispondere alla richiesta di cambiamento. Una richiesta che coinvolge anche chi fa impresa e chi governa. Prendendo il tema delle tecnologie digitali, il problema è chi le controlla e chi le usa. Perché se c’è una caratteristica della tecnologia digitale è la sua trasversalità, in quanto riguarda tutti gli ambiti sociali e dell’economia, arrivando fino alla sanità e all’organizzazione del lavoro e del tempo libero, alle relazioni e ai rapporti tra le persone. Si dice che i dati siano «il nuovo oro». Questo pone grandi interrogativi: chi li controlla? Di chi è la loro proprietà? Come vengono utilizzati? Credo che qui si ponga un problema democratico e, da un certo punto di vista, ci siano buone ragioni per un nuovo ruolo dello Stato e di un suo intervento nell’economia. Inoltre, se parliamo dell’Italia emerge con chiarezza l’immagine di un Paese con profonde differenze territoriali, sia nella presenza di infrastrutture di rete sia, di conseguenza, nell’uso delle tecnologie stesse.

È chiaro che il quadro descritto influenzi anche il lavoro. In prospettiva ognuno di noi sarà chiamato – nello stesso mese, nella stessa settimana, a volte nella stessa giornata – a lavorare in presenza, come già avveniva, ma anche a distanza attraverso gli strumenti tecnologici. Questo pone un doppio tema. Il primo riguarda la centralità assoluta della conoscenza, della formazione e dello studio, che diventano davvero un diritto soggettivo e permanente lungo tutto l’arco della vita. Tema a cui peraltro si lega la necessità di una riforma scolastica, con un aumento dell’obbligo fino a 18 anni e un ripensamento degli asili nido e della scuola dell’infanzia. La seconda questione chiama in causa direttamente il sindacato. Anche dopo la conclusione del ciclo formativo, a una persona, a un lavoratore che continui a studiare, ad aggiornarsi, ad acquisire nuove conoscenze, devono essere garantite delle ore retribuite. E questo, da un certo punto di vista, pone una nuova domanda sul fronte sia delle relazioni sindacali sia del lavoratore stesso. In futuro il sindacato non dovrà limitarsi a chiedere più salario e meno oneri lavorativi – che rimangono comunque due elementi sempre molto importanti perché ci sono ancora tanti lavoratori e lavoratrici che hanno salari bassi e pesanti orari di lavoro. Emerge invece il tema della realizzazione del lavoratore nel lavoro che fa, ma soprattutto dell’utilizzo della propria intelligenza nelle discussioni su che cosa si produce, come lo si produce e perché lo si produce. Al tempo stesso, l’obiettivo dell’impresa non può essere solo il profitto ma diventano fondamentali la qualità del lavoro per il dipendente e il suo ruolo nella società.

La pandemia ha reso evidenti le fragilità e le profonde disuguaglianze che caratterizzano l’attuale sistema. Si è aperto un processo che reputiamo decisivo e che richiede un cambiamento profondo, cioè la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese. Si tratta di una grande sfida, sicuramente per le organizzazioni sindacali ma anche per le imprese, diventata irrimandabile. Ed è su questo punto che considero la contrattazione collettiva uno strumento che va qualificato, e che va collocato dentro una dimensione più generale capace di progettare un futuro diverso per il Paese.

 

Uno degli effetti della pandemia è stato però anche il successo dell’e-commerce e dei servizi di home delivery, spesso accusati – non solo dai sindacati – di sfruttamento nei confronti dei lavoratori.

 

In senso generale questa pandemia ha fatto emergere anche il problema sulla qualità dei consumi, dei comportamenti e degli stili di vita delle persone. Non esiste un automatismo tra essere un’azienda dell’e-commerce e dei servizi di home delivery e sfruttare il più possibile le lavoratrici e i lavoratori. Sono scelte legate all’idea che si ha del modello di impresa e di relazioni. Sicuramente ci sono leggi che favoriscono processi di questa natura e che vanno cambiate. Aver introdotto provvedimenti che rendono disponibili tante forme di lavoro precario ha inevitabilmente aumentato la precarietà. A volte dentro la stessa impresa ci sono persone che, pur facendo lo stesso lavoro, non hanno gli stessi diritti e le stesse tutele. La pandemia ha fatto esplodere questa contraddizioni. Pensiamo infatti a che cosa ci si è dovuti inventare in Italia per sostenere le tante forme di lavoro che non avevano alcun tipo di tutela. Dopo 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, credo che nel nostro Paese sia venuto il momento di definire un nuovo statuto che non leghi più i diritti al tipo di rapporto di lavoro che si ha. Qualsiasi rapporto di lavoro uno abbia, deve avere gli stessi diritti e le stesse tutele. Questo diventa un modo anche per innalzare il livello di competizione tra le imprese, perché a quel punto la competizione non avviene più sui costi e sulla compressione dei diritti ma sulla qualità del lavoro, sulla capacità di dare vita a nuovi investimenti e nuovi prodotti. Pensiamo per esempio al settore logistico e alle leggi che in questi anni sono state fatte sul sistema dell’appalto e del subappalto. Parliamo infatti di un settore strategico per l’attività e il funzionamento di un Paese e di un sistema industriale, che però si fonda su una logica di liberalizzazione del sistema degli appalti, dei subappalti, delle finte cooperative. Credo che qui ci sia bisogno di un cambiamento radicale del settore.

C’è poi la questione fiscale perché, come dicevamo all’inizio, la globalizzazione ha reso possibile la libera circolazione dei capitali senza alcun vincolo mentre, per assurdo, si impedisce alle persone di muoversi. Viviamo in un mondo un po’ strano in cui il denaro può andare dove vuole, non ha bisogno di carta d’identità o di patente e invece per le persone qualcuno pensa addirittura di costruire i muri. Uno dei temi che andrebbe affrontato in Italia e in Europa è quello della creazione di un sistema fiscale in grado di evitare i paradisi fiscali e di impedire operazioni in cui le multinazionali possano spostarsi, pagare meno tasse dei loro dipendenti, fare grandi profitti dividendo e spremendo i lavoratori.

Alla luce di queste contraddizioni laceranti, la politica dovrebbe tornare a rappresentare il lavoro e l’interesse della collettività. Una riforma fiscale che vada in questa direzione non andrebbe fatta contro l’impresa, ma per affermare un modello d’impresa, di mercato e di compromesso tra lavoro e impresa che riaffermi quei valori di giustizia sociale oggi drammaticamente dimenticati.

 

Nel rapporto tra capitale e lavoro molti hanno osservato una recente aggressività da parte di Confindustria e del suo nuovo presidente. Lei concorda con tale giudizio? E come giudica il rapporto del sindacato con Confindustria?

 

A prescindere da quanto riportato nelle interviste giornalistiche, proprio in questi giorni[1], e a distanza di mesi dall’ultimo, abbiamo avuto un incontro con Confindustria e con il suo presidente Bonomi. Sicuramente esistono degli elementi di diversità, in particolare sul ruolo della contrattazione e dei contratti nazionali di lavoro. Personalmente credo sia un errore pensare al superamento di questi. Anzi, riprendendo quanto ho detto prima, penso che bisognerebbe abolire i contratti «pirata», quelli firmati da soggetti non rappresentativi; bisognerebbe inoltre dare validità di legge generale, erga omnes, ai contratti collettivi nazionali firmati dai soggetti rappresentativi e andrebbe certificata la rappresentanza delle organizzazioni che rappresentano lavoratori e imprese. Abbiamo infatti bisogno di alzare il livello della competizione basata non più sulla compressione dei diritti ma sulla qualità del lavoro e dei prodotti. Considero pericolosa l’idea di ridimensionamento dei contratti collettivi nazionali. Rischia infatti di portarci verso una logica di aziendalizzazione delle relazioni, più simile al modello americano che non a quello europeo. Inoltre, oggi assistiamo a conflitti e a nuove forme di competizione tra gli Stati (si pensi ai dazi) che rendono assai complicato orientare la crescita economica di un Paese prevalentemente sulle esportazioni. La domanda interna diventa quindi un fattore decisivo di sviluppo. Per far crescere la domanda interna c’è bisogno di dare impulso ai consumi e, al tempo stesso, cambiare la qualità dei consumi. Anche per questa ragione è decisivo investire sui contratti, con riferimento ai temi del salario, degli orari di lavoro, della sua riduzione a parità di salario, della sua articolazione e organizzazione, della formazione, dell’occupazione e del superamento della precarietà. La logica opposta, quella del blocco e della riduzione del valore dei contratti nazionali, da parte nostra non è assolutamente condivisibile. Se dalle dichiarazioni Confindustria dovesse passare ad atti concreti – come dice lei «aggressivi» – si aprirebbe un conflitto di cui oggi il Paese non ha bisogno.

C’è anche un’altra cosa che a me non convince delle dichiarazioni del presidente di Confindustria, e cioè l’idea che sia sufficiente lasciare fare alle imprese e al mercato per definire un nuovo modello di sviluppo. Credo invece che una delle questioni di cui bisognerebbe discutere è proprio quella del ruolo che lo Stato dovrebbe avere nell’economia. Non mi riferisco alla sostituzione delle imprese da parte del settore pubblico. Penso però che mai come adesso – per il livello di investimenti di cui c’è bisogno e per la loro priorità – un ruolo di indirizzo, di regolazione e, in alcuni casi, anche di intervento diretto da parte dello Stato sia assolutamente necessario: penso, per esempio, alla necessità di garantire la banda larga e una connessione di rete a tutto il Paese; penso al ruolo che in questa fase il welfare può assolvere, dalla sanità pubblica all’istruzione, dall’università alla cultura come diritto pubblico.

Uno dei grandi cambiamenti che vedo riguarda il concetto stesso di prodotto. Oggi, per esempio, è la mobilità e non più l’auto ad affermarsi come nuova domanda nel campo degli spostamenti delle persone. E dentro questo nuovo concetto di prodotto diventano fondamentali la sostenibilità ambientale e l’utilizzo delle tecnologie digitali. Questo richiede un profondo ripensamento dell’organizzazione delle aree urbane e delle infrastrutture materiali e immateriali. Cambiamenti di questa portata non possono essere lasciati al mercato ma richiedono un intervento pubblico autorevole e di qualità.

L’esperienza che abbiamo alle spalle e la complessità dei problemi che abbiamo di fronte ci dicono che il mercato e le imprese da soli non riescono ad affrontare temi di questa natura, e anzi rischierebbero di commettere errori che dobbiamo evitare di ripetere. Ho sentito che Bonomi vuole essere rivoluzionario, io sono forse più pragmatico. Non sto infatti pensando al superamento del capitalismo, penso però che in questa fase sarebbe utile riaffermare la pari dignità tra il lavoro e l’impresa e rilanciare il tema della contrattazione intesa come progettazione comune intesa come mediazione degli interessi che si vogliono rappresentare.

 

Lei proviene dalla Fiom e prima si è definito «un uomo del Novecento», il secolo degli operai e dell’industria metalmeccanica. Esiste ancora quel mondo, e se sì, che cosa è rimasto?

 

La pandemia ha dimostrato che esistono ancora gli operai, che esiste il lavoro manuale. Esiste il lavoro, ed esistono le persone, in carne e ossa, che lavorano e senza le quali non si potrebbe combattere la pandemia. Penso che sarà proprio il lavoro delle persone che sconfiggerà la pandemia e che potrà ricostruire un nuovo modello sociale. Dopodiché è impossibile non riconoscere un cambiamento nel mondo del lavoro, nella sua cultura e nei suoi contenuti. Quando ho cominciato a lavorare, tanti anni fa, facevo l’apprendista saldatore in un’azienda metalmeccanica. Se penso all’evoluzione di questi ultimi 30-40 anni è chiaro che oggi ci sono lavori che prima non esistevano e che non pensavi neanche potessero esistere. Ma sarà così anche in futuro. Quello che considero insostituibile è la persona che lavora. Il lavoro rappresenta un elemento fondamentale per ognuno di noi. Del resto quando si conosce qualcuno dopo avergli chiesto come si chiama generalmente la seconda domanda è «che lavoro fai?». È vero, possono cambiare i contenuti del lavoro e il suo significato, ma le persone rimangono, non spariscono. E il sindacato esiste perché le persone che lavorano hanno il diritto di potersi unire e organizzare. Questo diritto andrebbe non solo difeso ma anche garantito attraverso una produzione legislativa che facesse suoi i principi della nostra Costituzione, non solo sul tema di una retribuzione dignitosa, ma anche per l’esercizio della contrattazione collettiva e per una partecipazione dei lavoratori alla vita e alle scelte delle imprese.

Credo che la contrapposizione, che ancora esiste, tra il lavoratore e il datore di lavoro – che in linea teorica è proprietario del lavoro che si fa e colui che limita l’autonomia e la libertà dentro un luogo di lavoro – vada superata. In questa fase di grande cambiamento, il centro della discussione dovrebbe spostarsi sul che cosa si produce, sul perché lo si produce e con quale impatto sull’ambiente, avendo sempre al centro il rispetto e la dignità della persona. Credo che siano questi i temi nuovi con cui tutti siamo chiamati a fare i conti.

In sintesi

  • La pandemia ha reso evidenti le fragilità e le profonde disuguaglianze che caratterizzano l’attuale sistema economico. Al tempo stesso, si è aperto un processo che richiede un cambiamento profondo, cioè la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese.
  • Dopo 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, è venuto il momento di definire un nuovo statuto che garantisca a tutti stessi diritti e stesse tutele, indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro che si ha.
  • Le nuove forme di competizione tra gli Stati rendono complicato orientare la crescita economica di un Paese puntando prevalentemente sulle esportazioni. La domanda interna e i consumi diventano quindi un fattore decisivo di sviluppo. Per questa ragione è importante rafforzare il potere d’acquisto intervenendo sui contratti di lavoro.
  • Mai come adesso – per il livello di investimenti di cui c’è bisogno, e per il grado priorità di questi – un ruolo di indirizzo, di regolazione e, in alcuni casi, anche di intervento diretto da parte dello Stato è imprescindibile: dalla necessità di garantire la banda larga e una connessione di rete a tutto il Paese al sostegno per il welfare, in primis alla sanità pubblica e all’istruzione.

 

 

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Questa intervista risale al 9 settembre 2020.