E&M

2007/6

Vincenzo Perrone

L’essenziale è invisibile agli occhi: intangibili e sviluppo

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Cosa vuol dire che un paese come l’Italia, ancora la settima economia al mondo per le dimensioni del proprio prodotto interno lordo, finisca invece al 46° posto in una classifica sulla competitività globale di paese che vede gli Stati Uniti d’America al primo posto, la Germania al 5°, la Francia al 18°, e prima di noi paesi come la Slovenia e la Lettonia? Qualcuno potrebbe rispondere: assolutamente nulla. La graduatoria elaborata per il 2007-08 dal World Economic Forum (www.weforum.org) potrebbe essere infatti accolta con un’alzata di spalle o con la colorita espressione verbale d’epoca fascista con la quale manifestiamo in genere il nostro più vivo disinteresse per qualcosa. In fondo siamo grandi e ricchi e nessuno può permettersi di darci patenti di qualità ed efficacia economica mettendoci arbitrariamente dopo il Cile (26°) o l’Islanda (23°). Viva l’Italia!

All’estremo opposto si potrebbe sfruttare l’ennesima occasione per indulgere nell’altrettanto diffuso vezzo nazionale dell’autoflagellazione e dell’esibizione compiaciuta quanto imbelle della propria, vera o presunta, inferiorità. È vero, dunque, siamo un paese in rovina! Che vive di rendita e di inefficienza, in forte rallentamento da anni rispetto al resto del mondo avanzato. Un paese per vecchi: secondo lo US Census nel 2010 avremo il 20% della popolazione sopra i 65 anni di età – meglio di noi farà solo il Giappone – e con la più bassa percentuale al mondo di bambini e adolescenti fino a 15 anni: il 13,1%. Un paese ancora grande per l’eredità del lavoro dei nostri padri (i vecchi di cui sopra) ma destinato tra poco a vedere passare dallo specchietto retrovisore alla corsia di sorpasso paesi come la Spagna, già ora 29° nella graduatoria sulla competitività.

In entrambi i casi si evita il problema che la notizia pone e si perde un’occasione per riflettere su di noi e su quello che ci aspetta. Proviamo invece a prendere sul serio il segnale e a ragionarci sopra per vedere se e come è possibile cambiare. In primo luogo crediamo che convenga non sottovalutare questa come altre classifiche che collocano il nostro paese molto più in basso della posizione che il proprio stock di ricchezza gli consentirebbe. Se ci è permesso un parallelo un po’ azzardato, queste valutazioni sono come quelle che i mercati fanno, attraverso il prezzo delle azioni, del valore di un’azienda. Questo valore può essere molto diverso da quello “di libro”, ovvero dalla valorizzazione contabile degli asset. Speculazioni e imperfezioni di mercato a parte, la valutazione dipende da cose che hanno a che vedere non tanto con la ricchezza di oggi ma con l’attitudine a generare valore domani. Quel valore dipende dall’intensità e dalla durata nel tempo dei vantaggi competitivi che un’impresa riesce a sviluppare e difendere. Le fonti primarie di questi vantaggi, secondo l’evoluzione più recente degli studi strategici, sono risorse, competenze e capacità intangibili. Contano, per esempio, la qualità dei processi di apprendimento e di sperimentazione e le conoscenze specifiche che un’impresa riesce ad accumulare grazie ad essi. Contano la reputazione, il valore del proprio marchio e la fiducia che si riesce a ispirare in tutti gli stakeholder rilevanti per il successo dell’impresa. Contano i vantaggi ottenibili sfruttando la propria rete di relazioni, le alleanze e le collaborazioni che consentono di avere accesso a risorse scarse e per questo preziose. Contano capacità necessarie per cambiare e adattarsi rapidamente a contesti mutevoli come quelle che si impiegano per gestire con successo e in tempi rapidi lo sviluppo e il lancio di un nuovo prodotto piuttosto che l’acquisizione e la successiva integrazione di un’altra impresa. Sono rilevanti la qualità dei sistemi organizzativi e delle strutture, il livello di motivazione, di preparazione e di impegno del personale, la qualità, la rapidità e l’efficacia dei processi decisionali, le regole e le procedure che un’impresa ha scoperto nel tempo essere efficaci per governare nel modo migliore il proprio funzionamento e la propria crescita.

La stessa cosa vale per un paese. Alla sua graduatoria finale il World Economic Forum arriva facendo una media della posizione ottenuta da ciascun paese su una serie di parametri di valutazione. Solo alcuni di questi sono quelli standard macroeconomici, come appunto il reddito nazionale piuttosto che il livello di indebitamento o di deficit pubblico. Tutti gli altri riguardano, in piccola parte, aspetti visibili come la dotazione infrastrutturale del paese (trasporti, energia e sistemi per le comunicazioni), e, in modo assai più numeroso, aspetti invisibili e intangibili come l’efficienza dei mercati dei beni e finanziari, la qualità del sistema educativo superiore e della formazione permanente, la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità di ricerca – misurata anche attraverso il numero di brevetti depositati – e di innovazione, piuttosto che una cosa abbastanza misteriosa come il grado di sofisticazione della cultura di business del paese. Chi ci osserva e ci valuta ci dice che queste sono le cose che fanno la differenza in termini dinamici e concorrenziali, e quando il presente lo si osserva dal futuro.

Prendiamo un’altra graduatoria forse ugualmente importante, non fosse altro per il ruolo che potrebbe avere nell’influenzare gli investimenti stranieri verso questo o quel paese. Anche qui siamo ben lontani dal settimo posto che ci spetterebbe per dimensione della nostra economia. Si tratta della classifica, stilata questa volta dalla World Bank (www.doingbusiness.org), di 178 paesi allineati in base alla facilità con la quale è possibile condurre in ciascuno di essi un’attività economica d’azienda. In altri termini, gli analisti questa volta misurano l’impatto dell’ambiente istituzionale, ovvero della qualità e quantità di norme e procedure che regolano l’esercizio dell’attività di impresa. È il costo economico della regolazione. L’edizione 2008 di questa particolare graduatoria, guidata da Singapore, ci assegna il 53° posto, subito dopo Mongolia (52°) e Botswana (51°). Anche in questo caso la posizione finale nasce come sintesi di valutazioni puntuali su parametri diversi: l’avvio di una nuova impresa, l’ottenimento delle autorizzazioni e delle licenze, l’assunzione di lavoratori, la registrazione della proprietà, l’ottenimento del credito, la protezione assicurata agli investitori, il pagamento delle tasse, le transazioni di import ed export, il rispetto dei contratti e infine la chiusura di un’attività. Nella maggior parte dei casi si prendono in esame il numero di procedure da osservare per la specifica attività considerata e il costo in denaro e tempo associato al loro rispetto puntuale. I parametri presi in considerazione per valutare la facilità di impiego dei lavoratori sono leggermente diversi e puntano a misurare il grado di rigidità del mercato del lavoro. In Italia andiamo malissimo quando si tratta di pagare le tasse: siamo al 122° posto. Non solo, quindi, le tasse sono tra le più alte al mondo, ma si deve anche faticare da morire – e spendere ancora di più – solo per ottemperare all’obbligo di pagarle. Cornuti e mazziati, sembrano dirci i compassati banchieri della World Bank. Ai quali non deve davvero mancare l’ironia se nel documento che ci dedicano ci portano a esempio, come paesi che hanno saputo drasticamente riformare le proprie istituzioni riducendo enormemente tempi e costi degli adempimenti che regolano l’attività economica, Egitto, Croazia, Ghana, Macedonia, Georgia, Colombia ecc. L’altra area nella quale sprofondiamo in zona retrocessione (155° posto) è quella delle attività necessarie per fare rispettare un contratto (contract enforcement): chiunque tra i lettori abbia mai avuto a che fare con la giustizia civile italiana sa quanto di vero ci sia in questo severissimo giudizio. E quanto bisogno avremmo di snellire i tempi e ridurre i costi del nostro sistema giudiziario.

Questa graduatoria ha ancora una volta il merito di mostrare ciò che altrimenti resterebbe invisibile. Di farci ragionare su cosa è importante per assicurarci un futuro all’altezza del nostro passato più recente, realizzando nei fatti quella forma di solidarietà intergenerazionale di cui si comincia almeno a parlare, dopo anni di benessere fatto pagare a chi verrà dopo di noi. Peraltro, alla radice di produttività, competitività e crescita non sono solo le cose intangibili e positive come la capacità di sviluppare nuova conoscenza attraverso la ricerca, o il livello di alfabetizzazione, accesso e utilizzo con riguardo a Internet e alle nuove tecnologie (sempre il World Economic Forum mette in fila le nazioni sulla base di un indice che misura quanto siano pronte a partecipare allo sviluppo delle tecnologie ICT e a godere dei benefici che esse apportano: l’Italia nel 2006-2007 si piazza al 38° posto su 122). Invisibili sono anche formidabili barriere allo sviluppo come quelle erette dalle attività criminali che avvolgono nelle proprie spire l’economia e la società di un paese fino a strozzarle o a farne qualcosa di mostruoso. Purtroppo, se si decide di gettare un raggio di luce anche in questo cono d’ombra, quello che si riesce finalmente a vedere non fa piacere e non rassicura pensando al domani. Ha fatto impressione, poco tempo fa, la stima elaborata in uno studio di Confesercenti secondo la quale la criminalità organizzata, Cosa Nostra in primo luogo, ma anche la ‘ndrangheta e la camorra, avrebbe un fatturato di circa 90 miliardi di euro, pari a quasi il 7% del nostro PIL. Un fatturato che viene prodotto anche con attività sempre più contigue a quelle dell’economia legale. Se torniamo poi alle nostre classifiche internazionali possiamo soffermarci su quanto elaborato da un’organizzazione indipendente denominata Transparency (www.transparency.org), la quale combina dati e informazioni offerti da quattordici diverse quanto affidabili fonti indipendenti, tra le quali ricompare la World Bank, per arrivare a dare una misura della percezione di quanto estesa sia la corruzione in un determinato paese. Nel 2007 il paese con il più basso indice di corruzione è la Danimarca, che per questo occupa il primo posto in classifica. L’ultima posizione, la 179°, se la contendono Somalia e Myanmar. Sapete in che posizione si trova l’Italia? Al 41° posto. La Gran Bretagna è al 12°, la Germania occupa il 16°, la Francia il 19° e la Spagna sta quindici posizioni davanti a noi al 25° posto.

Forse abbiamo qualche problema (come se non bastassero quelli che si notano subito, come la bassa qualità delle nostre infrastrutture o l’enormità del nostro debito pubblico…) al quale converrebbe prestare maggiore attenzione. Se solo si riuscisse a vedere quello che è nascosto. In questo facciamo forse più fatica di altri perché è parte del carattere nazionale dare invece peso alle apparenze, alla “bella figura”, a quanto brilla in superficie. E poi, come al Mazzarò inventato da Giovanni Verga, ci piace la roba: la ricchezza che si accumula, si tocca e si ostenta. Come un Hammer – gigantesco Sport Utility Vehicle americano – nel centro storico di Firenze. Ma il futuro non si indossa come un vestito. E l’essenziale, come insegna la volpe al suo Piccolo Principe, è invisibile agli occhi. La partita del futuro si gioca su intangibili come il capitale umano, il capitale intellettuale, il capitale sociale e quello simbolico. Sullo sviluppo di regole e istituzioni adeguate, per efficacia ed efficienza, alla complessità della società e dell’economia. E sulla legalità diffusa, senza se e senza ma. Su quelle cose importanti di cui abbiamo parlato, che si nascondono però dietro a un velo. Il velo dell’ignoranza. Sollevare quel velo a tutti i livelli è il modo migliore di favorire lo sviluppo. Occorre che numeri, graduatorie, studi e ricerche, siano essi frutto di buon giornalismo di inchiesta così come di ricerca accademica rilevante quanto rigorosa o del lavoro serio di analisti indipendenti, ci aiutino a vedere e ad appassionarci a ciò che veramente fa la differenza per noi e per i nostri figli e nipoti: l’educazione, la ricerca, l’ordine pubblico, la qualità dell’ambiente fisico così come quella del sistema giuridico e di quello politico. La gente che legge, guarda la televisione, si indigna, partecipa e protesta sembra essere pronta a guardare nella direzione giusta e ha fame di informazione. I tempi sono maturi per un cambiamento basato sulla conoscenza e sulla speranza di un futuro migliore.