E&M

2005/5

Gianni Canova Severino Salvemini

Denominazione d’origine sconosciuta

Il documentario di John Nossiter Mondovino – presentato in concorso al Festival di Cannes – proietta uno sguardo inconsueto sui processi della globalizzazione in uno dei settori meno globalizzabili come quello della produzione di vino. Anche se c’è chi sta cercando – anche in questo campo – di provvedere in fretta a un’omologazione del gusto.

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Mondovino

Regia John Nossiter

Interpreti Robert Parker, Michel Rolland, Hubert De Montille

Francia-Italia-Usa 2004

In vino veritas. Non c’è nulla di meglio che il celebre motto degli antichi per introdurre il fluviale ma trascinante documentario realizzato da John Nossiter sugli effetti che la globalizzazione sta producendo anche su un prodotto in teoria poco “globalizzabile” come il vino. Girato in digitale da un regista americano cresciuto in Europa, raffinato poliglotta oltre che esperto sommelier, Mondovino – reperibile facilmente in Dvd nella collana Real Cinema della Feltrinelli – è una specie di giro del mondo alcolico, o un atlante enologico del mondo contemporaneo. Passando dalla California all’Argentina, dalla Borgogna al Chianti, dal Brasile all’Australia, Nossiter dimostra come il vino – che egli considera il “depositario unico della cultura occidentale” – rischi di diventare una sorta di Coca-Cola del 2000: una bevanda dal gusto omologato, prodotto secondo sistemi standardizzati che tendono a neutralizzare le specificità legate al vitigno e al territorio. Adottando il metodo dell’inchiesta, sul modello di Viaggio nella valle del Po (1967) di Mario Soldati, Nossiter visita i vigneti californiani della Napa Valley, con casali in stile similtoscano a metà fra il museo e lo studio hollywoodiano, con tanto di p.r. e visite guidate, poi attraversa i poderi toscani ceduti per pochi soldi alle grandi multinazionali enologiche, e si sofferma con vivo interesse nelle poche “isole” – come quella del sardo Battista Columbu o di Hubert de Montille di Bordeaux – in cui i produttori cercano di conservare al vino l’aroma e il sapore che aveva qualche secolo fa, facendo resistenza di fronte alle strategie espansionistiche guidate dalla multinazionale Robert Mondavi Winery. Il quadro che ne esce è impressionante: per acquistare nuove fette di mercato e incrementare i profitti, i nuovi produttori stanno cercando di imporre una sorta di omologazione del gusto e del palato, che implica la distruzione di culture antichissime e gloriose. A saperci guardar dentro, insomma, in un bicchier di vino c’è quasi sempre il mondo. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che il film di Nossiter applichi un punto di vista interessante per trattare il tema della globalizzazione. Soprattutto, mi ha molto colpito la caricatura dello spirito dominante degli americani, con la loro infantile convinzione che sia sufficiente la disponibilità di un budget adeguato per replicare qualsiasi cosa, dal prodotto di successo al format televisivo. Con il vino le cose non sono così semplici, e Nossiter lo dimostra, ricordandoci nel frattempo quanto poco cross-culturali siano gli americani.

G.C. Certo: il vino è un prodotto intimamente legato alla storia e alla geografia, e ha radici profonde nel territorio, come dimostra lo stesso marchio DOC, denominazione d’origine controllata. La pretesa di rompere questi legami e di fare anche del vino un prodotto senza radici e senza identità è una delle contraddizioni più stridenti della globalizzazione.

S.S. È una contraddizione nella misura in cui pretende di applicare la logica del prodotto globale a un prodotto che globale non è affatto. Mi ha molto colpito, nel film di Nossiter, tutta la lunga intervista nella Napa Valley ai membri della famiglia Mondavi: sembrano individui di plastica, abitano in ville arredate in uno spudorato (ma spudoratamente finto…) italian style, indossano abiti di sartoria francese, scimmiottano la vecchia Europa anche nella sua esteriorità, nella convinzione che le peculiarità italiane e francesi possano essere facilmente replicabili, e che sia solo una questione di soldi e di apparenze.

G.C. A me ha colpito invece la facilità documentata da Nossiter con cui i Mondavi hanno messo piede in Italia, realizzando joint ventures con la famiglia Frescobaldi e comprando i vigneti dell’Ornellaia da Lodovico Antinori. Terre che producevano da secoli vini prelibati sono state così conquistate alla causa del vino globalizzato. In questa chiave, è interessantissima la figura di Michel Rolland, l’enologo “volante” che gira in Mercedes da un’azienda vinicola all’altra, senza mai mettere piede in una vigna, per ripetere sempre la stessa inquietante parola d’ordine: ossigenare il vino, ossia immettere bolle d’ossigeno nel tino per accelerare l’invecchiamento e rendere il vino rapidamente più dolce. Tanto da farne in fretta un vino dal gusto mondiale, vanigliato e zuccheroso.

S.S. Un’importanza analoga ce l’ha anche un altro personaggio del film, il critico enologico Robert Parker, temuto e potente giornalista del Wine Advocate, che con le sue stellette assegnate a un prodotto vinicolo può determinarne la fortuna o la scomparsa dal mercato.

G.C. È un caso più unico che raro di critico che conta ancora qualcosa, e che con le sue valutazioni riesce a influire sull’andamento del mercato. Mi viene da pensare, per contrasto, alla sconsolante ininfluenza del critico cinematografico…

S.S. Parker è un professionista dell’immateriale. Uno che ha capito tutto. Le famiglie americane orientate al business del vino lo considerano una star, un guru, un mago. È lui che lancia le mode, che dignifica o squalifica i prodotti, ed è convinto di essere “l’ambasciatore della democrazia nel mondo del vino”. In fondo, è un professionista del business del simbolico.

G.C. Anche il critico cinematografico lo è, eppure i suoi giudizi sono del tutto ininfluenti dal punto di vista del business. Forse perché il vino è un prodotto locale che ha di fronte a sé un mercato mondiale, mentre il cinema è un prodotto globale che si deve relazionare con mercati per lo più locali.

S.S. Tornando a Nossiter, io trovo molto interessante anche la “geografia della tradizione” mappata dal suo film. Mi riferisco a quei viticultori come il sardo Battista Columbu o il francese Hubert de Montille che resistono ai processi in atto, e rifiutano di vendere i loro vigneti alle multinazionali. “Dove esiste una vigna non c’è barbarie”, dice de Montille davanti alla cinepresa di Nossiter. Credo voglia richiamare il senso simbolico del vino e l’importanza della sua cultura nella storia: una forma di alto artigianato sottomesso alle variabili del tempo, delle stagioni e della natura. Come dice nel film un altro viticultore francese, “fare un grande vino era un po’ un mestiere da poeta”.

G.C. Sono d’accordo con queste tue impressioni. Dirò di più: mi sembra che Mondovino funzioni perché parlando di un prodotto come il vino in realtà tratteggia un affresco particolareggiato di tante diverse persone: quelli che il vino lo producono, ma anche quelli che lo vendono, lo trattano, lo criticano, lo amano. Il vino è un piacevolissimo pretesto e sottotesto. Il film in realtà racconta il mondo e i suoi abitanti, e cerca di capire come stanno (e come stiamo) cambiando.

S.S. E ciò è tanto più pregevole quanto più Nossiter si tiene lontano da qualsiasi griglia ideologica chiusa per lasciar scorrere liberamente le immagini e le interviste in un montaggio intelligente e stratificato che si tiene lontano tanto dai toni del pamphlet quanto da quelli poeticisti e crepuscolari di un film come Sideways, che pure, a sua volta, prendeva come spunto il vino per parlare di un’etica e di una pratica del nostro tempo.