E&M

2005/5

Esattamente un anno fa la rivista internazionale di management Business Week salutava il 2004 con una copertina che infondeva un sincero benvenuto alla “innovation economy” e che presentava impresso lo scaltro volto di Steve Jobs, l’imprenditore manager che con l’i-Pod è riuscito a far creare alla sua Apple l’ennesimo nuovo mercato e ad espandere la fervida comunità Mac verso l’immenso segmento degli ascoltatori e amanti della musica.[1] E in effetti il 2005 può essere battezzato come l’anno dell’innovazione. Se dall’inizio degli anni ottanta abbiamo visto passare in rassegna con cadenza ritmica e in rigoroso ordine di apparizione le strategie di internazionalizzazione, il total quality management, la customer satisfaction, l’activity-based costing, il benchmarking, il reengineering, l’e-business e la digital economy, siamo finalmente giunti a disquisire anche di innovazione per risolvere in generale i problemi delle aziende e in particolare quelli del nostro paese.

Come è destino di ogni moda manageriale, l’innovazione è stata quest’anno oggetto di una singolare attenzione da parte di vari operatori del settore attraverso dibattiti politico-economici, conferenze scientifiche, pubblicazioni ricche di suggerimenti per manager e imprenditori. L’anno che si sta compiendo ci ha lasciato su questo avvincente tema due messaggi chiave, che possono essere – forse un po’ drasticamente – così riassunti:

1. innovare è fondamentale sia per far uscire l’economia dalla condizione di stagnazione in cui si trova in questo momento storico sia per vivacizzare l’operato di singole aziende che per troppi anni si sono sedute sugli allori delle ultime innovazioni lanciate uno o, più spesso, addirittura alcuni lustri fa;

2. per innovare bisogna acquisire adeguate competenze nonché specifiche capacità organizzative che spesso non sono più presenti in azienda, che purtroppo sono rare nel nostro sistema paese e che, più in generale, non si trovano facilmente.

Che la situazione non sia rosea è più che evidente. Per rendersene conto basti dare uno sguardo, tra le altri fonti, ai dati prodotti nell’ambito dell’European Innovation Scorebord, il quadro di valutazione dell’innovazione predisposto dalla Commissione Europea in seguito al Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 in cui l’innovazione è stata identificata come una priorità dell’Unione (www.cordis.lu). Pur considerando i contenuti miglioramenti su alcuni indicatori, tra cui il numero di laureati in discipline tecnico-scientifiche e il numero di occupati nelle industrie manifatturiere high-tech, gli indicatori sintetici che riassumono il potenziale complessivo di innovazione sono decisamente deludenti, inquadrando l’Italia in posizioni medio-basse rispetto agli altri paesi. Tuttavia, per evitare il disarmante corto circuito prodotto dai due messaggi precedenti, cercheremo di tracciare nelle prossime righe in modo sintetico ed evidentemente non esaustivo le principali opportunità che si offrono a chi oggi si occupa di innovazione. Lo faremo partendo dall’assunto che l’innovazione non può essere etichettata come una moda qualunque che, in seguito a una temporanea ribalta, ricadrà nel buio del backstage del palcoscenico relativo ai temi rilevanti nell’ambito del management. L’innovazione è una parte vitale delle imprese, dei sistemi industriali e delle aree geo-politiche in competizione tra loro. Per questa ragione, in questo breve viaggio partiremo con una sintetica illustrazione delle logiche fondamentali su cui si basa l’innovazione; tali logiche offrono i pilastri su cui impostare una solida politica di innovazione. Passeremo poi, in seconda battuta, a esplorare i principali vettori del cambiamento in corso, che rappresentano delle opportunità per chi oggi vuole abbracciare una strategia impostata sull’innovazione.

L’innovazione cento anni fa

La partenza del nostro viaggio ci porta a visitare brevemente le pagine scritte da chi di innovazione si è occupato in tempi decisamente non sospetti. Oramai quasi un secolo fa Joseph Schumpeter, economista austriaco eterodosso, colse per primo che l’economia non è la scienza che si limita a studiare l’allocazione di risorse scarse, come molti dei suoi contemporanei pensavano e come molti ancora oggi intendono.[2] Se così fosse il problema economico sarebbe di difficile risoluzione per le molteplici variabili da includere e per la loro interconnessione; sarebbe altresì pur sempre gestibile, nonostante la razionalità limitata degli operatori, essendo in questa ipotesi un mero problema algoritmico. Il fascino dell’economia è invece legato proprio alla sua imponderabilità, al suo dinamismo, alla sua capacità evolutiva. L’economia è infatti incentrata sulle dinamiche di cambiamento che vengono stimolate dall’innovazione. L’innovazione favorisce lo sviluppo e la crescita e genera imitazione. Così facendo, stimola la continua formazione di equilibri che si autodistruggono. L’economia ha nella sua natura, nel suo DNA, la forza che la alimenta e allo stesso tempo quella che la distrugge. L’economia non può escludere il cambiamento, essendo l’innovazione il problema e l’opportunità centrale dei sistemi economici e quindi dell’economia in senso lato. L’economia è quindi la scienza che deve studiare anche l’innovazione, il progresso, l’evoluzione dei sistemi sociali. Per questo l’economia è una scienza affascinante, dirompente e a volte anche frustrante per i tanti problemi che pone e le poche soluzioni che offre. Le varie forme di innovazione (i nuovi prodotti, i nuovi processi, le innovazioni organizzative e le nuove forme di mercato) rappresentano un importante motore dei sistemi capitalistici e quindi delle economie dei vari paesi. Questa intuizione, che potremmo definire jurassica se la misurassimo con i tempi isterici del mondo moderno, dopo essere rimasta nel dimenticatoio della mente collettiva è improvvisamente riemersa nelle agende degli imprenditori e nei poster che tappezzano le sale riunioni di parecchie multinazionali, che evidenziano come “le tre parole chiave che definiscono la mission della nostra azienda sono: innovazione, innovazione, innovazione”. Com’è noto ai più, peraltro, Schumpeter non si è semplicemente limitato a definire cosa si intenda per innovazione e a descriverne i principi fondamentali, ma è andato ben oltre. Prima, illustrando come la dinamica dell’innovazione si manifesti seguendo un percorso di creazione da parte di un imprenditore e della sua impresa e di successiva imitazione dei concorrenti. In questo senso la dinamica ciclica di innovazione e imitazione porta alla continua distruzione del vantaggio competitivo – che, è bene ricordarlo a molti di coloro che oggi si occupano di strategia, per definizione non potrà mai essere indefinitamente sostenibile. L’innovazione non è tuttavia sempre imprenditoriale, seguendo anzi, a volte, dinamiche più “manageriali”, proprie delle grandi aziende che destinano sistematicamente i profitti e le rendite prodotte all’innovazione nella funzione che per antonomasia gestisce l’innovazione: la Ricerca e Sviluppo.[3] Così facendo cercano di proteggersi dalla forza dirompente del mercato che, grazie alla sua azione invisibile, annullerebbe in breve tempo le rendite dell’innovazione.

L’innovazione oggi

Nei cento anni trascorsi l’esperienza sviluppata da aziende di diverse dimensioni immerse nei contesti più variegati ha permesso di arricchire ulteriormente i pilastri su cui si erge la capacità innovativa dell’impresa. Se, difatti, Schumpeter aveva ben colto le principali dinamiche innovative a livello industriale nonché le vis sia imprenditoriale sia manageriale alla base dell’innovazione, a suo tempo poteva solo intravedere le forti componenti inerziali che si attivano all’interno delle organizzazioni nella creazione di innovazioni. Innovare significa creare novità, ovvero, in ultima istanza, apprendere ed evolvere. E purtroppo, così come l’apprendimento è cognitivamente limitato dalla cumulatività della conoscenza, l’innovazione è sostanzialmente costretta dalle stesse competenze organizzative di cui si nutrono le imprese. Mentre quindi è oramai particolarmente ricca la nostra conoscenza legata agli strumenti di gestione dell’innovazione sia per quanto attiene al marketing sia per quanto attiene agli aspetti di produzione e design,[4]una delle principali difficoltà odierne risiede nel comprendere come sia possibile favorire attivamente le dinamiche innovative nell’ambito delle aziende. Ecco quindi che diviene fondamentale non tanto l’innovazione in sé, quanto la capacità di fare innovazione. Non tanto la gestione del singolo progetto innovativo, quanto la capacità di gestire un’organizzazione che innova. Diviene, dal punto di vista strategico, fondamentale passare dall’innovazione all’innovazione continua, e quindi presidiare le competenze dinamiche che permettono di stimolare continuamente il cambiamento in azienda.[5]Fare questo non è semplice poiché le imprese spesso nascono per gestire più che per innovare, e i meccanismi su cui viene impostato il loro funzionamento mal si sposano con le logiche innovative, cosa che ben scopriamo ogni qualvolta la nostra azienda cerchi di affrontare un cambiamento. Se questo risulta particolarmente difficile in imprese di grandi dimensioni che si sclerotizzano naturalmente nel loro processo di crescita, risulta altrettanto difficile per le aziende di piccole dimensioni che dipendono spesso dal carisma di una o poche persone e che si limitano a legare l’innovazione a queste. A fronte delle difficoltà menzionate, ci troviamo oggi innanzi a un nuovo contesto per l’innovazione, che risulta decisamente ricco di opportunità. In particolare, tre sono i fondamentali vettori del cambiamento che le imprese possono seguire per riuscire ad abbracciare una logica di innovazione continua come base della propria strategia competitiva:

1. la nuova geografia dell’innovazione;

2. le nuove tecnologie per l’innovazione;

3. i nuovi modelli organizzativi per l’innovazione.

La nuova geografia dell’innovazione

Se è vero che la nuova mecca del cinema non si erge più solo sulle dorate colline di Hollywood ma si chiama Bollywood e si trova in India, e che le nuove Silicon Valley non hanno come epicentro Palo Alto ma le redivive Tel Aviv e Dublino assieme alla neoindustrializzata Bangalore, è probabile che qualcosa stia effettivamente cambiando in termini di geografia dell’innovazione. Se è inoltre vero che il computer sulla nostra scrivania è frutto di un assemblaggio di pezzi prodotti nelle regioni del globo tra loro più distanti e che un destino simile è sempre più tracciato anche per l’auto che compreremo tra pochi anni, è altrettanto evidente che qualcosa sta mutando anche con riferimento alla produzione delle innovazioni. Se è presumibile che tra pochi anni a Shanghai circoleranno più Ferrari che a Los Angeles e che una significativa parte del mondo occidentale è destinata a una fase di crescita contenuta a differenza del mondo orientale e in particolare asiatico, è altresì probabile che anche la geografia del consumo dell’innovazione volga verso diversi orizzonti. In effetti, la globalizzazione del nuovo millennio è solo parente lontana della globalizzazione degli anni ottanta: la globalizzazione divulgata, per esempio, nei bei volumi di Omahe e Bartlett e Goshal, che si preoccupavano di illustrare come le imprese dovessero garantire un processo di espansione congruente a livello internazionale, un processo cioè che fosse compatibile con i prodotti e le risorse possedute dall’impresa e coerente con i modelli di consumo presenti nei vari paesi.[6]La questione è che oggi si sta affermando una vera e propria divisione del lavoro con riferimento al mercato dell’innovazione: sia nelle fasi a monte (creazione e produzione) sia nelle fasi a valle (consumo). Se questo è oramai dimostrato per diversi settori ad alta intensità tecnologica e in generale ad alta intensità di capitale umano – tra cui la chimica, la biotecnologica, il software e l’elettronica –,[7]è probabilmente sempre più vero anche per quei mercati low-tech di cui il nostro paese è ricco in termini di risorse e competenze. Questa progressiva divisione del lavoro innovativo ci sembra positiva per almeno tre ragioni. In primis, fornisce una forte indicazione sulla direzione degli investimenti da fare in termini di politica economica. Investire in ricerca di base e applicata con centri di eccellenza in alcuni comparti è evidentemente una necessità se si vuole presidiare in futuro la fonte di valore ultima di alcune filiere tecnologiche di molti (se non appunto di tutti) i mercati geografici. In secondo luogo, e con riferimento ai settori cosiddetti più tradizionali in cui il nostro paese è storicamente forte, rappresenta un modo per contrastare l’irreversibile perdita di competitività sul fronte del costo della manodopera, con riferimento soprattutto alla produzione delle innovazioni. La qualità intrinseca e tacita del know-how e del know-why legati al design e, più in generale, la capacità creativa che mettiamo in campo in molteplici settori (dalla meccanica di precisione all’haut couture della moda-abbigliamento) possono divenire un mercato della creazione delle innovazioni a sé stante per la conseguente produzione in altri sistemi paese. Queste competenze sono indubbiamente distintive e, soprattutto, più agevolmente sostenibili poiché difficilmente imitabili, e possono rappresentare la nuova base su cui modellare il nostro contributo all’innovazione. In terzo luogo, è bene osservare che i mercati che una volta venivano definiti “nicchie” (ovvero, segmenti di piccole dimensioni) acquisiscono progressivamente una veste globale, che permette alle aziende che li presidiano di assurgere a veri e propri colossi multinazionali in grado di garantire economie di scala anche rispetto a prodotti destinati a generare alto valore. In quest’ottica perdono di significato i tradizionali trade-off tra volume e valore, tra quantità e qualità, tra dimensione e varietà, soprattutto per chi riesce a finalizzare la propria strategia innovativa a specifici modelli di consumo. Oltre al citato i-Pod, un lettore MP3 decisamente “di lusso” ma allo stesso tempo diventato, dal punto di vista globale “di massa”, ne è ulteriore dimostrazione la dinamica catena di caffetterie Starbucks che, a partire da una strategia di marketing di nicchia rivolta ai lavoratori della new economy che si potevano permettere a Seattle uno scontrino medio del 150% superiore al leader di costo del settore per bere un latte macchiato e assaggiare un cookie, si sta oggi espandendo a livello mondiale per fare assaggiare prodotti alimentari americani considerati fino a pochi anni fa quantomeno insoliti per gran parte dei palati del vecchio continente. A fronte di una evidente mutazione della geografia politica dell’innovazione, lo stesso non può dirsi della geografia tecnologica. Difatti, una ulteriore certezza con cui deve fare i conti oggi chi si occupa di innovazione è ben riassunta nel concetto di “sistema settoriale di innovazione”.[8]Se, infatti, sotto il profilo delle nazioni la geografia dell’innovazione tende a espandersi senza soluzione di continuità, dal punto di vista tecnologico essa continua a preservare forti specificità industriali sempre meno trascurabili ai fini di una sua analitica ed esaustiva comprensione. Anzi, i lavori svolti negli ultimi anni nel campo dell’economia industriale hanno ben evidenziato il complesso intreccio di relazioni, che insiste sul medesimo contesto settoriale e che attiene, oltre alla conoscenza tecnica legata all’innovazione, alle fonti dell’innovazione, agli attori che co-sviluppano le innovazioni e alle istituzioni che si occupano di innovazioni. La dinamica evolutiva tra queste componenti risulta imprescindibile non solo per chi studia questo affascinante tema, ma anche per chi lo vuole meglio comprendere per stimolarne una corretta realizzazione a livello di policy industriale, ma anche di strategia aziendale. La comprensione analitica tanto degli attori quanto delle loro dinamiche diventa il presupposto per stimolare la capacità di fare innovazione a livello di azienda e, più in generale, a livello di sistema industriale.

Le nuove tecnologie come strumento di ricerca per l’innovazione

Uno degli aspetti salienti della rivoluzione tecnologica legata all’informatica consiste nell’avere reso disponibili anche per gli innovatori strumenti nuovi e di notevole potenza. La crescente capacità digitale, con la creazione dei microprocessori, l’avvento del personal computer e, più recentemente, l’ondata di miniaturizzazione che ci porta ad avere sul palmare (letteralmente: “a portata di mano”) complessi fogli di calcolo, ci consente le elaborazioni più articolate e sposta il problema dalla capacità di elaborazione alla raccolta delle informazioni – che, come vedremo nel prossimo paragrafo, è pure agevolata dall’evoluzione delle tecnologie di comunicazione. Per esempio, la nostra capacità di fare ricerche di mercato è cresciuta esponenzialmente al pari della celebre legge di Moore, che presenta l’evoluzione del numero di transistor per chip e che ha scandito (e che scandirà ancora per qualche anno) il passo della capacità digitale dall’inizio degli anni settanta. Questa capacità aiuta le imprese nel loro processo di allineamento con il mercato da servire. L’aspetto positivo per chi innova è che la singolare ondata di innovazioni legate al mondo digitale non impatta solo, come si suol dire, a valle, ovvero sulle ricerche di mercato per raccogliere la voce del cliente. Essa ha un sostanziale impatto anche a monte, e cioè nelle fasi in cui avviene la scoperta scientifica (ricerca di base) e tecnologica (ricerca applicata). Da questo punto di vista, il caso dell’evoluzione scientifico-tecnologica degli ultimi trent’anni nell’ambito del settore farmaceutico illustra bene l’idea, che è pure evidente in altri contesti settoriali. Sino agli anni sessanta il tradizionale procedimento di creazione di un nuovo farmaco (drug discovery) si fondava sulla ricerca casuale (random screening) a causa della limitata conoscenza sia delle patologie principali sia della dinamica di interazione tra recettori e molecole. A partire dagli anni settanta i profondi avanzamenti intervenuti nella tecnologia della ricerca farmaceutica e i conseguenti sviluppi nelle discipline scientifiche grazie all’opportunità di osservare a livello microscopico le proprietà della materia, hanno mutato le regole del gioco innovativo. Si è così vista l’affermazione della tecnica di “ricerca guidata e razionale” (il rational drug design), secondo cui i ricercatori sviluppano conoscenze analitiche relative alla patologia e lavorano a ritroso sino a individuare il farmaco che la inibisce. La metodologia di scoperta relativa al rational drug design è stata anche più recentemente arricchita dall’impatto che due rivoluzionarie matrici tecnologiche hanno avuto sul settore: la microelettronica e le biotecnologie. In particolare, l’opportunità di impiegare calcolatori ha incrementato notevolmente l’efficienza relativa all’impiego della tecnologia tradizionale di drug discovery. Le conoscenze richieste per gestire i computer che simulano i processi chimici e farmacologici non sono solamente legate alle scienze biologiche, bensì anche di natura informatica. E difatti negli ultimi anni si è assistito a un impressionante incremento di esperti di informatica nei laboratori delle imprese farmaceutiche. Le peculiarità dei test su computer è giunta a portare alla formazione di nuove discipline, tra cui la chimica combinatoriale, che permette di creare migliaia di composti virtuali, e l’High Throughput Screening, che completa il procedimento permettendo di effettuare screening su migliaia di composti. A questo proposito, si pensi che sino a qualche anno fa un laboratorio era mediamente in grado di sintetizzare trecento o quattrocento sostanze al mese. Oggi, invece, grazie alla chimica combinatoriale è possibile operare lo screening su addirittura ventimila nuove sostanze al mese. Similmente, anche la capacità di High Throughput Screening sta crescendo a livello esponenziale. Mentre nei primi anni novanta la tecnologia robotizzata permetteva di testare alcune migliaia di sostanze al giorno, oggi la media giornaliera è salita a più di centomila sostanze al giorno (per tutti si guardino i dati nell’ambito di www.phrma.org). In sintesi, le tecnologie digitali favoriscono un costante presidio della conoscenza e rappresentano un importante strumento per l’innovazione.

I nuovi modelli organizzativi ovvero la collaborative innovation

La collaborative innovation è un terzo fondamentale cambiamento che arricchisce le nostre conoscenze sul modo di interpretare e di produrre innovazione.[9]Grazie alle profonde innovazioni intervenute negli ultimi anni nelle tecnologie di comunicazione, il cliente può divenire effettivamente parte integrante del processo di innovazione dell’impresa. Se in passato il cliente era ritenuto una fonte significativa di conoscenza per le imprese, giacché con le sue conoscenze permetteva di testare i prodotti immaginati dall’industria prima di essere lanciati sul mercato e ne consentiva l’adeguamento a seconda degli spunti forniti, oggi le competenze del cliente, nonché appunto la possibilità tecnologica di impiegarle, divengono uno spunto imprescindibile per impostare l’innovazione. Se, da un lato, le imprese possono avvalersi di società di ricerche di mercato che dispongono di una strumentazione sofisticata per meglio accedere al sapere dei loro clienti, possono altresì progressivamente internalizzare tale strumentazione per accedere in via diretta alle conoscenze dei loro clienti. Come dire, possono passare dall’outsourcing al progressivo insourcing della fondamentale funzione di market intelligence. A questo proposito, Ducati rappresenta un esempio domestico di singolare rilievo. L’impresa “metalmeccanica”, come veniva definita l’azienda di Bologna negli anni settanta e ottanta, è divenuta negli ultimi anni una vera e propria entertainment company in cui i propri clienti (denominati oggi nel linguaggio aziendale “fan”) svolgono un ruolo chiave nei processi di lancio, ma anche di miglioramento e a volte di sviluppo di prodotti nuovi. Preservando le core competences ingegneristiche che hanno reso le sue motociclette famose in tutto il mondo, grazie alla piattaforma digitale sviluppata in azienda e in particolare grazie a Internet, Ducati ha oggi nel suo sito (www.ducati.com) un punto di riferimento per i suoi clienti e, in generale, i molteplici appassionati del suo prodotto (nei primi sei mesi del 2005 oltre 60 milioni di pagine viste, 8,7 milioni di visitatori e oltre 4 milioni di download, con circa 200 000 utenti registrati). I testimonial delle campagne dei prodotti vengono selezionati tra i fan con un casting gestito on line sul sito, che da quest’anno vedrà il coinvolgimento attivo dei vari Ducati Club a livello mondiale. Come nell’esempio dello sviluppo della nuova Ducati Sport Classic, l’azienda va oltre un coinvolgimento per la comunicazione. Presenta infatti ai clienti il concept di prodotto su cui richiede commenti e critiche per portare in sviluppo i modelli. Grazie alla forte interazione presente nel sito organizza specifici eventi dedicati all’innovazione (come, per esempio, la Garage Ducati Challange nell’ambito della World Ducati Week) in cui coinvolge attivamente i clienti nel miglioramento del prodotto. Benché sia evidente che tali azioni non possono da sole definire il successo di una strategia competitiva, di certo ne rappresentano un importante supporto. Von Hippel ha ben colto questo aspetto in termini sia teorici sia pratici.[10] Il suo recente contributo, incentrato sul ruolo chiave dei lead users (i clienti che producono autonomamente le innovazioni di cui necessitano), oltre a rappresentare un’importante applicazione nell’ambito dell’idea di collaborative innovation, è diventato anche di per sé un esempio concreto di innovazione aperta e distribuita. Rispetto ai due economisti Carl Shapiro e Hal Varian – i quali, nel 1997, in seguito alla pubblicazione del loro bestseller Information Rules misero sul sito Internet di presentazione del libro una ricca batteria di slide ad esso legate e pronte per il downloading lasciando, è bene dirlo, allibiti i colleghi di tutto il mondo, notoriamente assai gelosi del proprio materiale divulgativo e didattico – Von Hippel è andato ben oltre. Con il consenso della sua casa editrice ha difatti inserito nel proprio sito (http://web.mit.edu/evhippel/ www/democ.htm) l’intero volume appena pubblicato e scaricabile gratuitamente. In questo modo ha stimolato proseliti e critici della sua opera nell’ambito della comunità da lui fondata e oggi autogestita (http://userinnovation. mit.edu) e ha fornito un’esemplificazione pratica di open source in contesti sicuramente più “materiali” rispetto alle solite comunità di software nonché decisamente complicati in tema di diritti di proprietà intellettuale. In sostanza, l’apertura tecnologica e la possibilità di interagire con il mercato permettono sempre più interazioni finalizzate all’innovazione. La collaborative innovation sta peraltro oggi diventando una realtà che non si limita all’interazione con il cliente finale ma si estende agli utilizzatori del prodotto e a operatori generalmente interessati alla produzione. L’aspetto saliente della collaborative innovation è rappresentato dal fatto che essa trascende la tradizionale forma di organizzazione gerarchica dell’innovazione per divenire una vera e propria forma di innovazione distribuita, basata su un’apertura democratica a favore delle fonti contributrici e caratterizzata da specifici business model. Senza entrare nel già citato e ricchissimo dibattito legato al mondo degli open source, si prenda il caso dell’impresa statunitense Innocentive, operante nel settore chimico-farmaceutico (www.innocentive.com). Ideata nel tardo 1999 dalla multinazionale farmaceutica Eli Lilly per cercare di far fronte all’eccessivo costo legato alla ricerca cosiddetta in-house di specifiche soluzioni di sviluppo e/o di miglioramento di alcune molecole, è divenuto uno spin off indipendente a partire dal luglio 2001. L’azienda presenta pubblicamente e con cadenza periodica sul proprio sito una serie di problemi che sono identificati da specifici clienti (a oggi in prevalenza appartenenti al farmaceutico e al chimico) con annessi premi per la loro risoluzione. Chiunque può iscriversi via Internet e quindi partecipare alla “gara” di soluzione, che prevede la brevettazione della proposta a favore del cliente. A quattro anni dalla fondazione l’azienda è passata da un unico grande cliente, la casa madre, a più di trenta clienti (annovera tra di essi le multinazionali P&G, Basf e Dow) che ricercano soluzioni ad hoc per specifici problemi di sviluppo molecolare concedendo premi che vanno dai 15 000 ai 90 000 dollari a una popolazione oggi composta da ben 75 000 ricercatori indipendentemente attivati in più di 170 paesi – con, anche in questo caso, un ruolo rilevante giocato dall’Oriente e, in particolare, Cina, India e anche Russia a fare da capofila. L’apertura delle piattaforme tecnologiche e, più in generale, quella dei mercati permette quindi di trovare soluzioni collaborative sino a qualche anno fa impensabili. Gli attori attivabili a tal fine sono molteplici in termini sia di quantità sia di varietà e il valore prodotto rappresenta una risorsa particolarmente preziosa per chi intende sfruttare l’innovazione come strategia competitiva.

Un nuovo benvenuto all’economia dell’innovazione

In estrema sintesi, l’innovazione rappresenta una sfida ardua. È evidente che il breve viaggio appena compiuto non può far altro che ricordarci che la strada intrapresa è lunga e, soprattutto, che ce n’è ancora molta da percorrere. La buona nuova è che ci sono anche sempre più strumenti a disposizione di chi vuole abbracciare l’innovazione e sfidare i rischi imprenditoriali e manageriali a essa associati. E se è evidente che progresso è sinonimo di innovazione, è opportuno che l’economia conceda in futuro sempre più spazio a una concreta politica innovativa, e che imprenditori e manager governino le proprie aziende dando il giusto peso alle opportunità di cambiamento e di innovazione. Sebbene il 2005 non sia ancora terminato, ci sentiamo di anticipare la chiusura di quest’anno di “innovazione” parafrasando Business Week: ci sentiamo, cioè, di dare un sincero anche se, a questo punto, meno originale nuovo benvenuto all’Economia dell’Innovazione. Soprattutto ci auguriamo che la strada intrapresa a oggi non sia un breve viaggio turistico per esplorare l’ennesima moda manageriale ma l’effettivo inizio di una nuova economia della conoscenza impostata sul dinamismo e sull’evoluzione. Un’economia, cioè, volta a stimolare la continua generazione di nuovi prodotti per i mercati di oggi e, soprattutto, per i mercati che oggi non vediamo ancora ma che vivacizzeranno l’economia globale che verrà.

1

Business Week, 11, October, 2004.

2

Joseph Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Etas, Milano, 2002 (ed. orig. 1917).

3

Joseph Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas, Milano, 1994 (ed. orig. 1935).

4

Si vedano per tutti i volumi di Karl T. Ulrich, Steven D. Eppinger, Progettazione e sviluppo di prodotto, McGraw-Hill, Milano, 2001 (ed. orig. 1997); Glen Urban, John Hauser, Design e sviluppo di nuovi prodotti, 1993 (ed. orig. 1980; II ed. 1991).

5

David J. Teece, Gary Pisano, Ami Shuen, “Dynamic capabilities and strategic management”, Strategic Management Journal, 1997, 18 (7), pp. 509-533.

6

Kenichi Ohmae, Triad Power: The Coming Shape of Global Competition, Free Press, New York, 1985; Bartlett C.A., Ghoshal S., Managing across Borders: The Transnational Solution, Harvard Business School Press, 1989.

7

Ashis Arora, Alfonso Gambardella, Andrea Fosfuri, Markets for Technology, MIT Press, Cambridge, 2001.

8

Franco Malerba, Sectoral Systems of Innovation, Oxford University Press, Cambridge, 2004.

9

Gianmario Verona, Emanuela Prandelli, Collaborative Innovation. Il coinvolgimento del cliente per l’innovazione continua, Carocci, Roma, in corso di pubblicazione.

10

10. Eric von Hippel, Democratizing Innovation, MIT Press, Cambridge, 2005.