E&M

2004/1

Claudio Dematté

La triplice leva vincente: riduzione dei costi, innovazione ed espansione internazionale

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In precedenti editoriali ho avuto modo di affrontare tre tipi di interventi che sembravano imporsi nella gestione delle imprese in questa fase storica: la riduzione dei costi, l’innovazione continua, l’espansione internazionale. Li avevo affrontati uno per volta, sia perché lo spazio non consentiva di affrontarli assieme, sia perché essi potevano essere interventi alternativi da assumersi di volta in volta, secondo il tipo di attività, la situazione specifica dell’impresa e la strategia che questa voleva perseguire.

Oltretutto, uno dei punti fermi della strategia intesa come corpo disciplinare era che si potevano perseguire tre strategie diverse, ma l’una alternativa all’altra: una strategia di costo minimo, una strategia di differenziazione e una strategia di innovazione sistematica. Quest’ultima talvolta era presentata come distinta, altre volte era vista come sottospecie della seconda.

A osservare le imprese vincenti si ricava sempre di più un quadro diverso: che questa chiave di lettura non consenta più di rappresentare la realtà. È vero che le imprese possono e devono perseguire posizionamenti diversi di prezzo/qualità e in funzione di essi devono darsi obbiettivi diversi: costi (e prezzi) bassi per segmenti meno esigenti; prezzi più alti (ai quali corrispondono qualità e costi più elevati) per fasce di clienti con maggiori pretese. Ma, nell’ambito di ciascuna fascia di offerta, le imprese, se vogliono sopravvivere all’intensa concorrenza, devono comunque portare al minimo i costi: devono raggiungere quella qualità – quale essa sia in funzione del segmento scelto – al costo minimo. Anche nelle fasce alte del mercato i consumatori non regalano più nulla. I price premium che un tempo venivano riconosciuti a fronte di molta cosmesi, sempre di più sono pagati solo a fronte di una maggiore qualità, sia pure giocata su dettagli minimi e quindi poco appariscenti, ma qualità effettiva. Spazi per sopportare maggiori costi cui non corrisponda una maggiore qualità non ve ne sono più nemmeno nei segmenti di mercato più esclusivi.

Una situazione simile si ritrova anche sull’altro fronte, quello dell’innovazione. Anche qui, quella dell’innovazione sistematica e continua non è più un’alternativa strategica, un modo per competere diverso rispetto alla competizione giocata sul fronte dei costi o in base alla differenziazione per segmento di mercato. L’innovazione di processo o di prodotto sono parte integrante di qualsiasi strategia che aspiri a rimanere vincente. L’innovazione di processo è strumentale a migliorare la qualità o a ridurre i costi. Dovendosi in continuazione limare questi ultimi e dovendosi parimenti migliorare con altrettanta continuità la qualità dei prodotti, l’innovazione sistematica dei processi è diventata una necessità continua e irrinunciabile. D’altro canto, anche l’innovazione di prodotto si è imposta non come un atto a intervalli distanziati nel tempo, ma come un ciclo continuo, senza il quale è difficile conservare la clientela e ancora più difficile aumentarla. Si pensi alla crisi della Fiat, inciampata non solo sul fronte dei costi e della qualità, ma anche sulla rarefazione dei nuovi modelli portati sul mercato.

Infine, anche l’espansione internazionale non può più essere un atto di gestione straordinario da perseguire all’occasione, a piccoli passi, intervallati da fasi di consolidamento: ha da divenire una costante, anche perché la crescente tensione competitiva costringe le imprese a focalizzarsi su ciò che sanno meglio fare, abbandonando spazi di mercato dove irrimediabilmente sono meno competitive, e a compensarli con la conquista di nuovi spazi sui mercati esteri.

Ecco allora che le tre leve (riduzione costi, innovazione ed espansione internazionale) – pur dovendosi dosare in modo diverso di tempo in tempo, di settore in settore e di impresa in impresa – vanno usate contemporaneamente. E vanno usate con la massima determinazione.

Di fronte a questa realtà che non sembra lasciare scelta fra opzioni che in altri tempi sembravano alternative, sorge nei responsabili della gestione una certa ansia, e anche un certo rifiuto. È come chiedere un triplo salto mortale. Non c’è, per caso, un’incongruenza nel volere rendere compatibili opzioni che a prima vista sembrano l’una alternativa dell’altra? Com’è possibile ridurre i costi e, al tempo stesso, fare innovazione? Come si può fare espansione internazionale senza investire e subire, almeno nelle prime fasi, maggiori costi? La pressante e concomitante richiesta di agire simultaneamente su tutte e tre le leve non è anche in contrasto con i canoni fondamentali della strategia che, per sua natura, presuppone delle priorità e una scelta di campo chiara?

Potrebbe sembrare che così sia, ma l’osservazione della realtà ci dice che le imprese che riescono a fronteggiare la difficoltà dei tempi si sono ingegnate a muovere le tre leve congiuntamente. Vediamo allora come riescono a conciliare questo triplice sforzo.

Forte contenimento dei costi

È parte integrante di una buona strategia quella di scegliere il target di clientela e la tipologia di prodotto, con la relativa combinazione di qualità/prezzo, che vi si vuole indirizzare. L’insieme degli attributi del prodotto scelto (qualità dei materiali, accuratezza delle lavorazioni, tipologia e gradazione delle funzionalità, livello di design, intensità di servizio) definiscono anche il posizionamento che l’impresa ha prescelto e la fascia qualità/prezzo sulla quale vuole cimentarsi.

Quanto più questa è alta, tanto maggiori saranno i costi necessari per predisporre quell’offerta; quanto più l’impresa si posiziona su clienti con attese di prodotti caratterizzati da minori attributi e da minore qualità, tanto minori saranno i costi con i quali si può produrre quell’offerta.

Le politiche di contenimento di costi di cui qui si intende parlare non sono quelle che portano a prodotti di fascia diversa: quelle sono scelte di altro genere, e precisamente scelte di posizionamento. Sono invece quell’insieme di interventi che consentono di produrre la stessa combinazione di attributi funzionali ed estetici e la stessa qualità spendendo meno. Per dirla in altro linguaggio, sono tutte le azioni che consentono di mantenere lo stesso valore per il cliente riducendo il costo del prodotto e del servizio reso.

Queste sono azioni che l’intensa concorrenza rende oggigiorno necessarie incessantemente, senza soluzione di respiro. Esse si estrinsecano in una serie di interventi, alcuni dei quali noti e già ripetutamente applicati, mentre altri percorrono strade nuove, alcune ancora in fase di sperimentazione.

Prima di passare all’analisi di tali interventi, è bene sottolineare quanto già ricordato in un passato editoriale su questo tema: la resistenza al taglio dei costi è diffusa, radicata e persistente. E lo è presso tutti i soggetti che costituiscono la comunità di impresa o che si intrecciano attorno ad essa. Il management stesso, specialmente quello che sta sotto al vertice, guarda a questo tipo di interventi con molta resistenza, se non anche con ostilità. E nel contrastarlo usa tutti gli strumenti, inclusi quelli di colpevolizzazione verso i promotori dei piani di riduzione dei costi. Per questo, anche quando il management dichiara di essere arrivato all’osso, le probabilità che vi sia ancora dell’altro da rosicchiare sono elevate. Ciò accade perché, anche per il management, è scomodo e rischioso operare nell’ambito di un budget molto stretto. Quindi, ciascun responsabile di un centro di costo o di un centro di profitto, lungo i vari livelli gerarchici, in assenza di un sistema forte di incentivi tenderà sempre a negare ai propri superiori che vi sia la possibilità di fare meglio. Invece, la realtà delle imprese ben gestite dimostra che queste possibilità vi sono anche quando sembra che tutto sia stato fatto.

Quali sono gli interventi che consentono di procedere? Non è questo il luogo per vederli nel dettaglio. Ma un quadro complessivo può essere di aiuto per comprendere la logica con la quale si può affrontare questa linea di azione.

In primo luogo, vi è un intervento di livello superiore: esso consiste nell’eliminare quelle attività che non solo non producono margini positivi, ma assorbono risorse. Possono essere business nei quali l’impresa non ha alcun vantaggio competitivo, oppure linee di prodotto all’interno di un business altrimenti redditizio, oppure segmenti di clientela verso i quali l’impresa non è riuscita a trovare il giusto rapporto qualità/prezzo, o infine fasi della filiera che l’impresa non riesce a svolgere in modo economico rispetto a produttori più efficienti.

Questo tipo di interventi, allorché sia accertata la marginalità negativa e sia verificata l’impossibilità di recuperarla, si estrinsecano nel “ritiro” dalle attività incriminate: ritiro che può consistere nella cessazione, nella vendita, nell’outsourcing, nella delocalizzazione produttiva in aree più consone. Si estrinsecano in diverse varianti, ognuna delle quali con i propri aspetti positivi e negativi. La decisione di concentrare gli sforzi su quello che in gergo viene definito il core business costituisce il punto di partenza di questo processo di rivisitazione dell’attività svolta. Definita l’area sulla quale l’impresa ha o pensa di riuscire a costruire un vantaggio competitivo difendibile, inizia il lavoro di potatura delle attività al margine, una potatura che taglia sia ricavi sia costi. Ma poiché questi ultimi sono superiori ai primi, il risultato netto è una riduzione dell’incidenza dei costi sui ricavi di ciò che rimane. Va da sé che in questo lavoro grande attenzione va posta ai costi fissi, quei costi per la copertura dei quali spesso le imprese tengono in vita attività in sé e per sé non redditizie. Il cessare queste attività o il dislocarle presso soggetti terzi altro non è che seguire il principio della specializzazione, fonte prima, anche se non esclusiva, del recupero di efficienza. Spin-off, outsourcing, rilocalizzazione, cessione a terzi accompagnate con contratti di fornitura sono alcuni degli strumenti con i quali si realizza questa spinta alla specializzazione.

Un’altra linea che va nella stessa direzione è quella della specializzazione degli impianti. Molte imprese sono cresciute aggiungendo prodotti a prodotti, talvolta in aree contigue, con processi produttivi similari ma non uguali, svolti negli stessi impianti. Dopo una crescita prolungata, esse si trovano con più impianti, spesso sparsi su più paesi, ognuno impegnato su uno spettro ampio di prodotti. La specializzazione di questi impianti su una o poche linee di prodotti è la via attraverso la quale si procede per ridurre i costi. Questa strada è stata imboccata da diverse imprese: basta pensare a Electrolux o Merloni. La ristrutturazione degli impianti produttivi secondo queste linee si accompagna sempre con la chiusura di quelli obsoleti e il rinnovo di molti degli altri. Il concentrare le stesse produzioni nello stesso impianto, riducendo la varietà, produce semplificazione e consente anche, grazie ai maggiori volumi delle stesse produzioni in un unico impianto, di procedere a ulteriori più affinati processi di automazione e al maggiore sfruttamento delle curve di esperienza e talvolta anche a cogliere maggiori economie di scala.

Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono altri interventi volti a ridurre l’incidenza dei costi, come la costituzione di joint venture per condividere con qualcun altro la produzione di uno o l’altro componente: l’industria dell’auto è testimone di molti interventi di questo tipo, laddove le economie di scala minime superano il consumo interno dei singoli operatori. Altre volte, per raggiungere lo stesso risultato l’impresa può essere costretta a fare un’acquisizione, in assenza della quale non ha la massa critica sufficiente per portare al minimo i costi.

Come si può notare, molti degli interventi in grado di incidere sui costi appartengono al novero delle scelte “alte”. Ma accanto a queste ve ne sono molte altre che rientrano nella responsabilità del management e del personale a stretto contatto con le singole attività. Possono essere interventi mirati sui prodotti, al fine di eliminare o attutire attributi ai quali i clienti non riconoscono valore, oppure interventi rivolti a ridurre al minimo gli errori nel corso della produzione o gli scarti, o la ricerca di fornitori di pari qualità ma a più basso costo, la semplificazione dei processi produttivi attraverso un ridisegno dei prodotti. Le vie attraverso le quali è possibile ridurre i costi senza ridurre la qualità sono molte, molte di più di quelle che si riescono a vedere di primo acchito. Proprio per questo è importante come si attiva il processo di riduzione dei costi, perché solo con molta creatività e con molta determinazione si trovano queste vie.

La riduzione dei costi non passa solo attraverso gli interventi sul prodotto o sugli impianti. Altrettanto spazio per ridurre i costi vi è su due altri fonti: quello della riduzione del capitale investito e quello della riduzione dei costi fissi di direzione generale. Per quanto riguarda la prima delle due aree citate, troppe imprese si scordano che i risultati raggiunti vanno rapportati al capitale investito. Intervenendo su quest’ultimo – in riduzione – si migliorano due importanti variabili d’impresa: i costi finanziari e i flussi di cassa. La riduzione dei primi rientra a tutto titolo fra gli interventi di taglio costi; l’aumento dei secondi fornisce risorse per le altre due azioni del “tridente”. I costi fissi di direzione generale presentano anch’essi due linee di intervento. L’una più strutturale, che modifica le strutture organizzative decentrando poteri e responsabilità: essa agisce sui costi semplicemente facendo scomparire il bisogno di certe funzioni, riducendo la burocrazia, snellendo le strutture. L’altra passa, invece, attraverso la rivisitazione dei costi con sistemi simili a quelli previsti dal zero-base budgeting. Tecnica, questa, che si presta anche su tutti gli altri fronti di questa specie.

Per comprendere quanto spazio di intervento vi sia su questi fronti, basti pensare che Alcatel, nel suo ultimo piano di ristrutturazione, è riuscita a dimezzare i costi fissi e a ridurre il capitale circolante dal 37% all’8% dell’attivo.

Chiudiamo qui il punto. Il messaggio è chiaro: per quanto impossibile possa sembrare, vi sono sempre spazi di recupero sui costi, purché lo si voglia e si abbia la creatività e la determinazione per farlo. Ribadisco che si parla di riduzione dei costi a parità di qualità e valore per i clienti. Non di altre operazioni che impoveriscono il rapporto con il mercato e depauperano il bacino di competenze dell’impresa. Imparare a fare lo stesso prodotto con meno risorse fa sorgere una nuova competenza, anziché depauperare il patrimonio di quelle esistenti. Le politiche di taglio costi sono negative e perniciose per l’impresa quando si limitano a tagliare costi “produttivi”, come possono essere quelli per la ricerca e lo sviluppo, la pubblicità (quando è congrua e ben indirizzata), la formazione del personale, supposto che non sia uno spreco per come è fatta e come viene vissuta.

Innovazione continua

Una politica che contemplasse solo un taglio di costi in passato poteva bastare per rimettere in equilibrio un’impresa. Ma nei tempi attuali questo non è più vero. La dinamica della concorrenza, rispetto al passato, ha cambiato registro: si gioca sempre di più, non solo sui costi, ma sul succedersi continuo di nuove proposte. I consumatori vengono bombardati da continue innovazioni: prodotti ai quali si aggiungono nuovi attributi o nuove funzioni; modelli nuovi per design o per funzionalità; combinazioni di funzioni prima svolte da oggetti diversi. Le imprese che non sono in grado di partecipare a questo susseguirsi continuo di innovazioni vedono diminuire velocemente le quote di mercato, anche se continuano a fornire prodotti buoni a prezzi competitivi. Si pensi ai telefoni cellulari, alle automobili, alle moto, agli orologi, alle montature per occhiali, ai palmari: se un’impresa non fosse in grado di seguire il passo frenetico delle innovazioni non avrebbe futuro. In alcuni settori, come quello della moda, il rinnovo continuo è codificato da tempo – per stagione – con alcuni concorrenti che cercano di superare questa cadenza proponendo collezioni mensili.

In alcuni di questi settori l’innovazione si estrinseca in variazioni minori – di colore, di forma, di modifica di qualche attributo – e non comportano né sforzi “straordinari”, nel senso che fanno parte della gestione corrente, né investimenti rilevanti. In altri settori, le innovazioni presuppongono invece sia importanti investimenti in ricerca e sviluppo, sia successivi forti investimenti per predisporre impianti produttivi nuovi o rinnovati. Ne sanno qualcosa le imprese del settore farmaceutico, o quelle automobilistiche o quelle che producono chips, oppure software o anche giochi. Per avere prodotti veramente nuovi ci vogliono anni di lavoro e investimenti dell’ordine di centinaia di milioni di euro.

La tendenza, in un numero crescente di settori, è verso quest’ultimo tipo di innovazione. Quella incrementale a basso costo è necessaria, continua a giocare la sua parte nel processo di fine tuning, ma non basta più: occorrono sforzi più continuativi, più sistematici, più organizzati e più bisognosi di capitali. Un piccolo esempio è sufficiente per indicare questa tendenza. Nel settore alimentare dolciario, un tempo l’innovazione poteva essere il frutto di una fortunata ricetta, trovata fra le note della nonna o scoperta attraverso un processo poco costoso di prova e riprova. Oggi è difficile arrivare a un nuovo prodotto senza un lavoro sistematico sui componenti, sulla loro miscelazione, sul modo di produrli in forma automatizzata, su come confezionarli senza ricorrere al lavoro manuale. Anche in un settore come questo, che a prima vista sembrerebbe ammettere un’innovazione a basso costo, questo non è più vero e non lo è ormai da qualche anno. Quel film che illustrava la storia di una dirigente di successo che si ritira in campagna per stare con la figlia e inventa una nuova impresa semplicemente facendo marmellate genuine nella propria cucina appartiene al passato.

Per avere innovazione continua che contenga vantaggi competitivi difendibili occorrono risorse umane dedicate, occorrono attrezzature, collegamenti con centri di produzione di know-how, capacità di brevettazione, finanza. Senza un piano specifico, ad hoc, l’innovazione che si può ottenere è quella puramente incrementale oppure è sporadica e frutto del caso.

Per avere un flusso sistematico e preordinato di innovazioni ci vuole anzitutto una chiara scelta: quella di volere giocare la partita competitiva su questo fronte, accettando il fatto che c’è una correlazione fra risorse dedicate a questo scopo e risultati. Per avere un’idea concreta di cosa voglia dire questo cambiamento, basta studiare l’impostazione di un’azienda come la 3M, la quale ha come fondamento della propria strategia quello di contare ogni anno su un flusso programmato di nuovi prodotti o nuovi processi cui destina strutture e budget congrui.

La maggior parte delle nostre imprese sono lontane da questo modello. Ciò non significa che non facciano innovazione. Ma non la ergono a pilone centrale della loro strategia. È piuttosto un risultato della tensione al miglioramento dei prodotti e dei processi produttivi. O il frutto occasionale di qualche uomo eccezionale o di un’idea sbocciata per caso. Molte imprese non hanno fatto il passo di costruire le serre dentro le quali preparare i nuovi prodotti o i nuovi processi produttivi.

La dinamica della concorrenza, con l’entrata in campo sempre più massiccia e aggressiva di produttori a basso costo, costringe anche le imprese più restie ad affrontare questo passo. Solo se riusciranno a dare un quid di speciale ai loro prodotti o a portare sul mercato prodotti radicalmente nuovi possono sperare di sopravvivere.

La decisione di attribuire un ruolo centrale all’innovazione e di costruire le “serre” deve poi tradursi in scelte concrete: creazione di strutture ad hoc, destinazione di budget, reclutamento di personale idoneo, predisposizione di modelli organizzativi funzionali all’esecuzione di attività di questo tipo. La produzione di innovazioni è un processo speciale, denso di incertezza, combinazione di creatività e di grande disciplina, frutto di combinazioni di input interni ed esterni, caratterizzato da grande asimmetria informativa fra chi vi lavora e chi non è del mestiere, passibile per questo di comportamenti opportunistici. Per tutto ciò ha caratteristiche sue proprie e richiede modelli organizzativi, meccanismi di governo e incentivi specifici. Chi vuole trasformare l’impresa, facendo assurgere l’innovazione a fatto sistematico e non occasionale, ha davanti a sé anzitutto un percorso di lavoro di questo genere. Poi occorrono le risorse finanziarie. Quasi mai le spese in innovazione trovano copertura con ricavi all’interno dello stesso esercizio. Il divario fra il momento della spesa e quello del rientro attraverso ricavi è più o meno lungo secondo il settore, ma tende comunque sempre di più ad allungarsi. Nel settore farmaceutico o della biotecnologia si avvicina ormai ai dieci anni. Sono dieci anni di uscite cui non corrispondono maggiori ricavi: un vuoto finanziario da coprire.

La cura drastica sul fronte dei costi deve avere come primo obiettivo proprio il recupero di risorse da destinare a questo fronte. Quanto più la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti o di nuove tecnologie riesce ad autofinanziarsi, tanto meglio. Anche perché trovare finanziamenti per coprire gli investimenti in ricerca e sviluppo è oggettivamente arduo. Lo è proprio per l’incertezza che grava sui risultati, per l’accennata asimmetria delle informazioni (chi ci lavora può calcolare in qualche modo il rischio, ma non chi è esterno), per i tempi lunghi di rientro che talvolta fuoriescono da quelli che sono gli orizzonti temporali non solo delle banche di credito ordinario, ma anche dei fondi di private equity.

Proprio perché il passaggio a una politica sistematica di innovazione comporta uno sforzo finanziario particolare, esso non riesce a prendere corpo senza cambiamenti anche sul fronte della struttura finanziaria dell’impresa. Difficilmente una società molto indebitata può incamminarsi su questa strada: giocare la partita competitiva puntando sull’innovazione sistematica richiede, oltre a un elevato flusso di autofinanziamento, una più solida struttura patrimoniale. Qui si inciampa in un altro punto di debolezza del nostro apparato produttivo: la dimensione troppo piccola e la sottocapitalizzazione. L’innovazione è un’attività – l’abbiamo già ricordato – che può praticarsi in diverse gradazioni: quelle più alte, che sono quelle sempre più necessarie per consentire alle nostre imprese di sottrarsi alla concorrenza dei paesi emergenti, richiedono investimenti rilevanti non compatibili con la piccola dimensione. Corollario di questo dato di fatto è che le imprese non solo devono recuperare risorse attraverso politiche di riduzione dei costi “improduttivi”, ma devono anche incamminarsi sulle strade più impervie della concentrazione e del rafforzamento patrimoniale ricorrendo, dove necessario, al capitale di rischio aggiuntivo, che può trovarsi sul mercato azionario o presso il mercato in formazione del private equity.

Con crescente frequenza si sollevano preoccupazioni sul fatto che la ricerca nel nostro paese sia sottodimensionata rispetto alle esigenze della concorrenza globale. Si accusa il governo di razionare le risorse. Si contestano i sistemi di allocazione (a pioggia) di quelle poche che vengono stanziate. Si critica l’improduttività e l’impermeabilità delle università e dei centri di ricerca pubblici, non senza ragione. Si lamenta l’incapacità delle banche di sostenere finanziariamente le imprese che fanno ricerca (dimenticandosi che le banche, per loro missione e struttura, non sono attrezzate a svolgere questa funzione). Ma quasi mai si sentono voci alte e chiare sul fatto che devono anzitutto essere le imprese a strutturarsi per fare una politica sistematica di innovazione: dandosi una politica in questo senso, dotandosi di strutture e meccanismi idonei, destinando budget congrui (magari recuperati proprio tagliando altri costi), aggregandosi per raggiungere soglie minime, rafforzandosi patrimonialmente con l’apertura a capitale di rischio di soci. Per le imprese che vogliono davvero incamminarsi con decisione verso un modello di innovazione programmata e sistematica, questi passaggi sono obbligati.

L’internazionalizzazione

Già più volte sono intervenuto su questo tema, ricordando quanto importante sia, in questa fase storica, che le imprese dispongano le loro strategie su basi spaziali più ampie: per quanto riguarda i mercati di sbocco, le fonti di approvvigionamento, la localizzazione degli impianti produttivi, i centri di ricerca, sia infine per la raccolta delle fonti finanziarie.

La spinta chiara e forte verso la concentrazione sul core business imposta dalla maggiore tensione competitiva che pervade la scena economica dell’ultimo scorcio del secolo passato e di questo nuovo secolo ha come contrafforte la necessità di proiettare l’attività sul piano internazionale, giocando e sfruttando la specializzazione su più ampia scala geografica. La strategia vincente può essere riassunta in uno slogan: “più focalizzati, ma dispiegati su spazi più ampi”.

Non è questa la sede per entrare nei particolari di una strategia di internazionalizzazione marcata e profonda (vedi l’editoriale del n. 4, 2003), né dei cambiamenti che si impongono alle imprese che vogliono realizzarla. Qui preme sottolineare la congiunzione fra questo tipo di strategia e le due linee di intervento prima descritte. A prima vista, può sembrare che vi sia contrasto fra una politica di contenimento di costi e una che prevede una spinta energica verso l’internazionalizzazione. E può sembrare che vi sia concorrenza su risorse scarse fra quest’ultima e una politica di innovazione marcata e sistematica.

Così non è. Come già è stato osservato, interventi energici sui costi (ovviamente quelli che non creano valore, e sono tanti) liberano risorse per investimenti che possono andare nella direzione dell’innovazione o dell’internazionalizzazione o di entrambe. Ma fatto ancora più rilevante è che molte azioni di riduzione costi possono passare proprio attraverso l’internazionalizzazione secondo due diverse linee: quella della ricerca di fonti di approvvigionamento e di produzione a basso costo su mercati esteri e quella del raggiungimento di volumi di vendite più consistenti che consentono di sfruttare maggiormente le economie di scala, le curve di esperienza, la riduzione dell’incidenza dei costi fissi. La focalizzazione su un’attività più circoscritta e l’internazionalizzazione sono un modo per ridurre i costi. Proprio perché una politica di innovazione forte e sistematica richiede ingenti investimenti che, attraverso il meccanismo degli ammortamenti, si traducono nel conto economico in un innalzamento dei costi fissi, il dispiegamento dell’attività su più ampie basi geografiche costituisce una condizione per raggiungere volumi di ricavi in grado di assicurare l’equilibrio economico. Tutto si tiene, viene da dire. Questo non significa che nell’esecuzione di queste tre linee di intervento non si possano determinare di volta in volta contrasti e momentanee contraddizioni. Ma l’osservazione delle imprese di maggiore successo sembra confermare quanto la logica suggerisce: nelle condizioni competitive attuali, la capacità di impiegare simultaneamente e sinergicamente queste tre leve costituisce l’arma competitiva più efficace.