E&M

2002/2

Gianni Canova Severino Salvemini

I piccioni, la matematica e l’economia

Osservava le stelle, studiava i piccioni. Cercava di formulare leggi universali a partire dall’osservazione di comportamenti particolari. Matematico insigne, nel 1994 l’americano John Forbes Nash ha vinto il premio Nobel per l’economia. E ora il film A Beautiful Mind racconta il suo metodo, la sua storia e la sua vita.

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Il nuovo film di Ron Howard (il quindicesimo di una carriera che ha portato l’ex Ricky Cunningham della serie Happy Days a misurarsi con tutti i generi del cinema hollywoodiano, dal fantasy di Cocoon al catastrofico di Fuoco assassino al dramma storico di Cuori ribelli) ha per oggetto qualcosa che non si vede. Lo suggerisce già il titolo, con lucida chiarezza. A Beautiful Mind[1], una mente bellissima. Come si fa a “vedere” una mente? A visualizzare la “bellezza” di un pensiero? Si possono vedere i gesti e gli atti prodotti da quella mente, non la mente stessa al lavoro. Per di più, se i gesti o gli atti fossero quelli di un pittore o di un architetto, una qualche possibilità di visualizzare i processi creativi di quella mente il cinema ce l’avrebbe pure. Ma nel caso di A Beautiful Mind la mente in questione è quella di un matematico, l’americano John Forbes Nash. E un matematico, si sa, produce calcoli e logaritmi, teoremi ed equazioni, formule e diagrammi. Tutte cose visualizzabili, certo, ma difficilmente collocabili in una dimensione “estetica”. Ron Howard ci prova: prendendo spunto dalla biografia di Sylvia Nasar Il genio dei numeri (Rizzoli), mostra a più riprese il suo personaggio, interpretato dall’ex gladiatore Russell Crowe, intento a tracciare calcoli su vetri e superfici trasparenti, in modo che appaiano in sovrimpressione sul suo volto. Quasi a dire: la bellezza della mente (di questa mente) coincide con gli schemi logici e con i processi numerico-cognitivi che essa è in grado di produrre. Nel 1994 John Nash ha ricevuto dall’Accademia di Svezia il premio Nobel per l’economia: la sua figura e il modo in cui il film la mette in scena offrono numerosi spunti di riflessione non solo ai cinefili ma anche e soprattutto agli economisti. Ne discutono, come sempre, Gianni Canova e Severino Salvemini.

G.C. Il Nobel per la matematica, come è noto, non esiste. E Nash era più che altro un matematico. Il fatto che gli sia stato assegnato il Nobel per l’economia è un ripiego surrogatorio o le sue teorie hanno trovato un’effettiva applicazione anche in campo economico?

S.S. Direi che la maggiore applicazione è quella espressa nella teoria dell’equilibrio economico: le equazioni di Nash, associate alle scoperte di Cournot, hanno dimostrato per esempio come la domanda e l’offerta abbiano proprietà omeostatiche e tendano a ritornare sempre in condizioni di equilibrio. Anche se tu muovi alcune varianti e le sposti in una situazione di disequilibrio o di dissimmetria, il sistema tende sempre, prima o poi, a riequilibrarsi.

G.C. … un po’ come nelle osservazioni che Nash ? come si vede anche nel film ? operava sui comportamenti animali o sociali: nessun sistema può restare per tanto tempo in condizioni di squilibrio…

S.S. Appunto. Gli algoritmi che Nash ricavava dall’osservazione del comportamento hanno trovato un’utile applicazione sul terreno economico. Certo è che Nash non è un vero economista. È vero, piuttosto, che gli economisti hanno operazionalizzato e trasferito sulla realtà economica i suoi modelli matematici. Il suo resta comunque un Nobel per certi versi anomalo, una teoria ai bordi dell’economia. In tempi più recenti il premio è andato infatti soprattutto a studiosi di economia applicata. Come Herbert Simon, per esempio, che con il principio di razionalità limitata ha messo in crisi la pretesa razionalità assoluta dell’economia classica, dimostrando come i singoli soggetti o i vari attori della scena economica abbiano sempre una percezione parziale e soggettiva dei fatti e dei fenomeni.

G.C. Nel film si ha un poco l’impressione che Nash avesse con la matematica un approccio più estetico che utilitaristico. Come nella concezione di quell’altro grande matematico novecentesco che fu Godfrey Hardy (di cui si può leggere la breve e illuminante Apologia di un matematico, 1940, appena riedita da Garzanti), Nash pensava che un matematico non fosse un creatore di nuove idee, ma un esploratore mentale in grado di scoprire paesaggi inediti e di tracciare mappe astratte dell’universo. Il suo “genio” consisteva nella capacità di vedere cose che gli altri non vedono anche se sono sotto gli occhi di tutti. Nel film di Ron Howard, non a caso, il gesto ricorrente di Nash è quello che lo vede impegnato a cercare delle regolarità o degli schemi recursivi nell’apparente disordine del mondo…

S.S. Certo: Nash individua la forma di un ombrello nel brulichio informe di un cielo stellato, studia le reazioni ormonali dei suoi compagni di università alla vista di una bella bionda, analizza i movimenti in apparenza imprevedibili dei piccioni, riempie il suo studio di ritagli di giornale nella speranza di incappare nello schema giusto, quello che gli consente di trasformare in cosmos (in ordine, regolarità, legge e armonia) l’inevitabile caos della realtà.

G.C. Non solo. Come Godfrey Hardy, anche Nash è convinto che la matematica “bella” sia quella perfettamente inutile, quella che è un piacere per se stessa: come può esserlo un affresco, una sinfonia o una poesia. Con la differenza che la matematica è universale e, forse, anche più duratura delle altre arti: tanto che siamo ancora tutti pieni di ammirazione per la matematica greca, mentre la lingua ellenica è dimenticata da secoli e le tragedie di Euripide sono cadute più o meno nell’oblio.

S.S. È un’osservazione suggestiva ma anche un po’ pericolosa. Non credo si possa andare più in là di tanto con la teorizzazione della matematica come puro processo di formalizzazione. Gli americani stanno andando un po’ in questa direzione, ultimamente. E gli europei tendono a rimproverarli per questo. Come dicendo: attenzione, state riducendo la scienza a una formalizzazione fine a se stessa, non vi ponete più domande sull’utilità di quel che state facendo.

G.C. Ma il metodo scientifico utilizzato da Nash, la sua ossessione di trovare degli schemi che diano ordine al mondo e rendano leggibili i comportamenti, ti pare convincente?

S.S. Dipende. Dal punto di vista epistemologico si tratta senz’altro di un metodo coerente. Ma poi, nel contesto attuale, si scontra con il fatto che oggi ogni “universalismo” risulta sospetto. Cosa fa Nash? Va a cercare una regola inducendo il comportamento dei piccioni e poi deducendo che quel comportamento può essere universalizzato su tutti gli esseri biologici. Cerca di creare paradigmi universali. Io credo che oggi ci siano più utili dei paradigmi contingenti: questa formula organizzativa funziona per i piccioni, quest’altra funziona per i leopardi, questa descrive il comportamento dei “padani” di Bossi e quest’altra quello dei giovani no global...

G.C. … ma un paradigma contingente fino a che punto può essere considerato scientifico? La scienza non dovrebbe ambire a formulare leggi universali e quindi generalizzabili?

S.S. Questo nel vecchio modello alla Newton. Oggi un paradigma contingente è quello che si chiede sempre: se…, allora…, quindi… Una teoria di management non può essere applicata allo stesso modo negli USA e in Indonesia, per un’azienda che produce siderurgia e per un’altra che fabbrica biscotti. Oggi io trovo più interessante, poniamo, il modello etologico alla Konrad Lorenz. Che studiava da vicino il comportamento delle anatre e ne ricavava leggi relative, appunto, al comportamento di quella specie animale. Nella teoria etologica generale il contesto delle anatre richiede specificità particolari: se poi ti capita di imbatterti in leoni che si comportano come anatre, allora vuol dire che è il contesto che forza di più…

G.C. Possiamo dire, allora, che quel che ci resta di Nash è soprattutto un frame cognitivo? La sua intuizione della necessità di cogliere l’invarianza sotto e dietro l’infinita variabilità dei fenomeni e dei comportamenti?

S.S. Questo senz’altro. Il film di Ron Howard, tra l’altro, lo rende molto bene. Così come mostra molto bene il ruolo imprescindibile che la moglie di Nash ha avuto nell’aiutare il marito a uscire dalla schizofrenia paranoide che ha rovinato parte della sua vita. È un’esperienza che si verifica spesso anche tra manager ed economisti: una buona relazione affettiva e coniugale, che garantisca tranquillità, ordine e sicurezza, vale più di tante terapie farmacologiche per tener sotto controllo lo stress, il timore dell’inadeguatezza e l’ansia da prestazione.

1

A beautiful mind: regia di Ron Howard, interpreti Russell Crowe, Jennifer Connelly, Usa, 2002.