E&M

2022/1

Guido Guerzoni

La transizione digitale dei musei

La transizione al digitale può offrire ai musei italiani la possibilità sia di una gestione più interattiva degli spazi, degli exhibit e delle collezioni, sia di raggiungere una popolazione più ampia di visitatori e di fruitori di contenuti. Un’offerta digitally based , lungi dal sostituire il piacere delle esperienze live, offre soluzioni intelligenti per arricchire l’offerta culturale e offrire appaganti occasioni formative.

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La transizione al digitale può offrire ai musei italiani la possibilità sia di una gestione più interattiva degli spazi, degli exhibit e delle collezioni, sia di raggiungere una popolazione più ampia di visitatori e di fruitori di contenuti. Un’offerta digitally based, lungi dal sostituire il piacere delle esperienze live, offre soluzioni intelligenti per arricchire l’offerta culturale e offrire appaganti occasioni formative.

 

Costruire un museo è un atto di coraggio, che denota un profondo senso di responsabilità civile, in uno dei momenti più critici della storia nazionale e internazionale, in cui il confine tra verità e menzogna si fa sempre più labile, la storia infastidisce e il frastuono dei social media copre le voci di quanti – con la misura e la pacatezza che contraddistinguono le persone civili – difendono idee e principi elementari, lasciti quasi dimenticati delle battaglie novecentesche, per la cui affermazione e difesa milioni di persone hanno sacrificato la propria vita.

Un museo, infatti, non è una banale tipologia edilizia o un luogo elitario bisognoso di salutari iniezioni di populismo più o meno ridanciano, ma un’istituzione che simboleggia valori fondamentali per qualunque società progredita: il rispetto, la trasparenza, l’onestà intellettuale, l’ascolto, la condivisione, la partecipazione, l’inclusione, il dialogo, la sostenibilità, la capacità di distinguere i fatti dalle opinioni e di interpretarli correttamente.

Il senso di un’istituzione

Per questa ragione, come accade per l’inaugurazione di una scuola o di un’università, la fondazione di un museo riveste un profondo significato simbolico per la comunità che lo ospita, lo frequenta e lo fa vivere, dal momento che esprime la fiducia collettiva nei valori dell’educazione e della civiltà, poiché l’istruzione e la conoscenza ci rendono migliori.

Un museo, infatti, non è un’azienda, né uno spazio concepito per lo spasso o lo svago, ma – letteralmente – una casa in cui apprendere e formare, forgiare i valori della cittadinanza e celebrare con riconoscenza i benefici dell’educazione permanente. È una missione che può essere perseguita in molti modi, anche coinvolgenti e divertenti e prestando la massima attenzione alle istanze di tutti i pubblici, ma che qualunque istituzione seria non perde mai di vista, poiché il suo rispetto rappresenta il senso più profondo della propria ragion d’essere.

Un senso minacciato dal crescente disprezzo per la verità storica, gli intellettuali, i professionisti della memoria e le istituzioni che la tutelano e valorizzano, in un momento in cui l’autoapprendimento più superficiale («l’ho letto su internet») ritiene di competere con saperi maturati in decenni di studi, un post su Facebook ha la stessa valenza di un articolo scientifico, gli esperti sono insultati come insopportabili sapientoni e «i media ufficiali sono corrotti e menzogneri».

Non è un caso se, come antidoto ai veleni dell’ignoranza e della malafede, nell’ultimo ventennio il numero di musei sia esploso a livello planetario, toccando temi e ambiti del tutto inediti e senza sottrarsi a dibattiti talora accesi sui rischi di strumentalizzazione e sulle trappole insite in interpretazioni parziali e forzature ideologiche.

I musei rimangono baluardi a difesa dell’ordine, della verità, del metodo scientifico, della serietà, delle gerarchie valoriali, per quanto tedioso possa risultare alle nuove masse digitalmente democratiche l’esercizio di questo compito. 

L’eccesso di pessima informazione, ovvero di sistematica disinformazione, il dilagare dell’analfabetismo funzionale, la mistificazione liberatoria delle nuove tecnologie, la superficialità dilagante, l’incapacità di gerarchizzare le fonti e distinguere tra verità assodate da decenni e indegne panzane dell’altro ieri, trovano un antidoto nella costituzione di istituzioni terze, di spazi neutrali in cui silenziare il caos esterno, studiare con calma, interpretare fenomeni complessi, spiegare a tutti con linguaggi consoni in un clima in cui il dialogo, il confronto, il pluralismo ritrovano la forza necessaria per contrastare la maleducazione, la presunzione, l’aggressività degli incompetenti.

Viviamo infatti un momento singolare, in cui le tecnologie, lungi dall’averci resi migliori e più liberi, hanno prodotto un fenomeno senza precedenti nella storia dell’umanità, splendidamente affrontato da Tom Nichols in uno dei saggi più illuminanti e premiati dell’ultimo lustro, quel The Death of Expertise. The Campaign against Established Knowledge and Why it Matters[1] (2017), che ha segnato un punto di non ritorno rispetto al magistrale ritratto del cretino tratteggiato nel 1976 da Carlo Maria Cipolla in The basic laws of human stupidity[2].

Mai come oggi, dunque, il mondo ha bisogno dei musei e delle competenze che essi formano e disseminano: che si tratti di vaccini, fenomeni migratori, populismi autoritari, infrastrutture o diritti dei lavoratori, assistiamo alla cancellazione dell’evidenza storica, alla negazione di progressi che hanno salvato miliardi di vite, alla rimozione di ricordi che pochissimi decenni or sono ci vedevano vittime di pregiudizi odiosi e discriminazioni vergognose, che oggi riserviamo immemori a chi ha preso il nostro posto di penultimi sulla terra.

La sfida del digitale

In un contesto sofferente come quello sopra descritto si è inserito un ulteriore fattore di complicazione: l’avvento del digitale.

Il progresso dei processi di digitalizzazione – sempre più economici e celeri – ha infatti accelerato la generazione di nuove istituzioni culturali digitally based, che accorpano sotto i medesimi tetti le funzioni di musei, biblioteche e archivi.

Miliardi di carte scansionate, milioni di fotografie e migliaia di supporti audiovisivi non ingombrano solo i depositi di questi grandi magazzini della conoscenza, ma alimentano centri di produzione, interpretazione e disseminazione on-site e on-line, in cui i contenuti digitalizzati sono impiegati per costruire e alimentare quotidianamente palinsesti in grado di soddisfare le esigenze dei pubblici più eterogenei nel segno della crossmedialità, e di rispondere a bisogni capitali: la trasmissione dei saperi tradizionali, l’educazione dei nativi digitali, l’uso consapevole delle nuove tecnologie, l’inclusione sociale, etnica e confessionale, il dialogo intergenerazionale, l’accessibilità, la democrazia digitale, la qualità, la contestualizzazione e la terzietà delle informazioni, la responsabilità sociale, la mediazione dei desiderata dei produttori e dei consumatori di contenuti ecc.

Così mainstream e underground, divi e meteore, copie uniche e serie illimitate, best seller e inediti, geni e disadattati, capolavori e programmi amatoriali, cult e trash, fonti ufficiali e materiali clandestini, globali e localissimi, grazie all’apparente democraticità della digitalizzazione (che offre a qualsiasi prodotto/autore/interprete una seconda chance di resurrezione) possono essere finalmente consultati, studiati, riprodotti,  pubblicati, rieditati, divulgati, presentati a un pubblico sempre più interessato alla cronaca dell’altro ieri.

Tuttavia, i processi di digitalizzazione non hanno solo ampliato la gamma dei temi trattabili in sede museale, ma hanno rivoluzionato anche le modalità di progettare, gestire e fruire dei musei stessi; se gli studi sulle visitor experiences tradizionali evidenziano che i visitatori sostano all’interno di un percorso museale per un arco di tempo compreso tra 1 e 2 ore – con una costante caduta delle soglie di attenzione – le ricerche sulla fruizione di alcuni contenuti digitali dimostrano che suscitano interesse per un periodo di tempo inferiore ai 5 minuti.

La vera sfida, a questo punto, è trovare lo spazio all’interno dei musei per esperienze digitali più lunghe e dalla fruizione più lenta, dedicate a pubblici non solo frettolosi e superficiali. Non è un caso Sir Nicholas Serota, l’ex direttore della Tate Gallery, durante la conferenza «The Museum of the 21st Century», tenutasi alla London School of Economics il 7 luglio 2009, aveva profeticamente vaticinato che «il futuro dei musei rimarrà radicato negli edifici che occupano, ma dovrà essere indirizzato a un pubblico globale: i musei dovranno essere presenti nei luoghi in cui le persone di tutto il mondo si incontreranno per conversare. Le istituzioni che cresceranno con questi obiettivi più velocemente e validamente saranno quelle che in futuro godranno della maggiore autorevolezza».

Allargare i confini

In tal senso, ciò che la cultura digitale può offrire ai musei non è solo la gestione più o meno interattiva degli spazi e delle collezioni, ma la possibilità di raggiungere una popolazione sempre più ampia di visitatori e di fruitori di contenuti, che non sono limitati ai visitatori fisici, ma si estendono a comunità che raccolgono e scambiano informazioni in rete sulle medesime tematiche.

Grazie al digitale i musei si estroflettono e fuoriescono dai tradizionali vincoli spazio-volumetrici: diventano editori e produttori di contenuti di grande qualità e autorevolezza.

Questa trasformazione ha comportato lo spostamento dell’asse strategico dalla conservazione alla produzione: oggi i musei digitali sono sempre orientati alla produzione, ravvedendo una chiara continuità tra i valori di chi opera nell’era dell’economia della conoscenza e della creatività e quelli che caratterizzano il mondo della produzione culturale e intellettuale coeva.

Tale tendenza ha suscitato profonde modifiche nelle logiche di investimento, con un netto spostamento delle risorse dalle attività tradizionali a quelle che sfociano nella produzione di nuovi contenuti, significati e interpretazioni.

Non si tratta di un atto barbaro, ma della risposta fornita al radicale mutamento del concetto di cultura occorso negli ultimi vent’anni, con l’abolizione delle gerarchie, la scomparsa dei confini disciplinari, la commistione, spesso malintesa, tra generi espressivi, che hanno profondamente mutato i gusti, le inclinazioni e le aspettative delle ultime generazioni di visitatori, più inclini alla contaminazione e sensibili alle novità, alle esposizioni temporanee, alle iniziative formative e convegnistiche, alla produzione di flusso.

La transizione digitale durante il Covid-19

In un quadro di cambiamento che ha scosso dalle fondamenta certezze museologiche acquisite – talvolta placidamente – da secoli, l’emergenza Covid-19 ha infine rivelato, in tutta la sua funerea drammaticità, quanto sia importante il grado di maturità digitale delle istituzioni culturali e segnatamente di quelle museali.

Solo quelle che avevano sostenuto adeguati investimenti in infrastrutture tecnologiche e risorse umane sono infatti riuscite, nella fase più acuta della crisi, a mantenere vivo il rapporto con i propri pubblici e a produrre contenuti intelligenti e attività ingaggianti.

In tal senso, la transizione digitale, lungi dal poter sostituire la pregnanza, l’emozione e il piacere dell’esperienza live, offre soluzioni intelligenti per arricchire l’offerta culturale, raggiungere target altrimenti irraggiungibili, promuovere la conoscenza delle collezioni e delle attività museali, testare le reazioni dei pubblici e offrire appaganti occasioni formative.

La digitalizzazione si è pertanto rivelata come una leva strategica capace di ampliare e perseguire la missione fondamentale di qualunque museo e la cui influenza operativa non si limitasse a un circoscritto ambito d’esercizio, ma investisse la totalità delle attività e dei processi museali, sollecitando le istituzioni a redigere con cura piani di digital transition che stabilissero gli obiettivi, le priorità, le azioni, i tempi e gli investimenti necessari per adottare le innovazioni necessarie.

Innovazioni che, facendo ricorso a nuove tecnologie, device e prodotti digitali, migliorano le attività di tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio, traducendosi in best practice internazionali riassumibili in diversi punti.

Le best practice internazionali

Un’interattività più intelligente che muscolare, solide basi narratologiche, la presenza di meccanismi di game-based learning e una significativa abilità nello storytelling – nonché l’integrazione tra di esse – rappresentano i fattori critici di successo delle più importanti progettualità digitali realizzate nel mondo museale. In particolare, la keyword è «story»: nel digitale è fondamentale raccontare, superando la dimensione del remoto e agendo direttamente sull’immaginazione del visitatore, calandolo in un mondo nuovo attraverso un’opera di narrazione che metta in relazione lo spazio cognitivo del museo con quello dell’utente, offrendo esperienze coinvolgenti e riconoscibili.

Inoltre, è evidente la tendenza generale a digitalizzare le collezioni garantendone l’accesso aperto o una fruizione personalizzata e realizzando operazioni di social tagging e crowdsourcing, con l’obiettivo di incrementare l’accessibilità al patrimonio culturale e migliorare la facilità e la qualità delle attività di ricerca.

La costituzione di partnership virtuose tra musei e imprese è un altro aspetto da tenere in considerazione: in molti casi, consapevoli dell’opportunità/necessità di legarsi ad aziende specializzate, leader nei propri settori, le istituzioni hanno avviato importanti collaborazioni con il mondo delle imprese, non solo per la realizzazione di mostre ma anche per le attività di e-learning (si pensi al MoMA e al Coursera), o l’offerta di virtual tour ed esperienze in realtà virtuale (VR)/realtà aumentata (AR) (per esempio Serpentine e Google).

La crescente attenzione prestata all’inclusione sociale e ai processi di partecipazione attiva dei visitatori, che da una parte sono coinvolti in maniera sempre più efficace e proattiva nei processi produttivi dei musei (individual e co-curatorship, crowdsourcing, crowdfunding, social tagging), dall’altra sono impiegati come leve di marketing, soprattutto attraverso i social network, in un’ottica di ampliamento e allargamento delle target audience.

Di grande importanza anche l’adozione di prospettive operative interdisciplinari e pluridimensionali, utilizzando strumenti di natura diversa che devono tra loro essere integrati: l’esperienza di vista on-site, l’interazione e il coinvolgimento del visitatore online, l’offerta di un’esperienza alternativa – nuova e complementare rispetto a quella reale – basata sull’impiego della tecnologia e del digitale.

Infine, va ampliata la visitor experience. Le pratiche digitali più innovative e interessanti rivelano ai pubblici un mondo nuovo e inediti possibilità di azione, non esplorabili attraverso le tradizionali modalità di visita, come per esempio:

  • accedere a una mostra telecomandando da remoto un robot-visitatore;
  • vivere un’esperienza interattiva in VR, manipolando virtualmente gli oggetti della collezione e interagendo con una guida-ologramma (Natural History Museum);
  • sperimentare un’installazione architettonica immersiva in AR, la cui fruizione è accompagnata da una audio guida che sfrutta le reti di interazione con gli spazi fisici circostanti (Serpentine Augmented Architecture The Deep Listener);
  • esplorare i dettagli più impercettibili di un’opera iconica, come nel progetto Rethinking Guernica;
  • progettare virtualmente spazi espositivi in piena libertà e, allo stesso tempo, essere dentro un videogioco multiplayer (Occupy White Walls);
  • interagire via chat per ricevere suggerimenti e informazioni su un’opera della collezione in base alla parola chiave inviata (Send Me SFMOMA).

Per queste ragioni, qualunque allestimento digitale oggi non può prescindere dal governo di tutte le presenze e le attività digitali web based, attraverso la creazione di piattaforme e canali social ricchi di contenuti, che vengono attivati per raggiungere nuovi pubblici, creare scambi tra creativi, ricercatori e appassionati, massimizzare le opportunità di conoscenza delle collezioni e degli ambienti museali. L’esperienza digitale si estende all’interno e all’esterno degli spazi fisici dei musei con il fine sociale di aumentare il coinvolgimento dei target e la comprensione delle tematiche espositive, stimolare la creatività e la partecipazione di diversi pubblici, nonché incoraggiare il pubblico potenziale a partecipare alle attività museali, divenirne fruitori e acquistarne i prodotti e i servizi, sino a divenire sostenitori, membri e finanziatori.

1

Trad. it. La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Roma, Luiss University Press, 2018.

2

Trad. it. Le leggi fondamentali della stupidità umana, Bologna, il Mulino, 1988.