E&M

2020/2

Nicola Bilotta Fabrizio Botti

La finanza big tech tra efficienza e scelte di mercato

La finanza big tech ha il potenziale di consolidarsi nei mercati nazionali e internazionali con grande rapidità grazie ai vantaggi che le grandi multinazionali tecnologiche hanno intrinseci ai loro modelli di business. Questa potrebbe comportare non solo benefici in termine di efficienza dell’industria ma anche rischi non tradizionali a cui il regolatore deve far fronte per massimizzare le implicazioni di questo fenomeno minimizzandone i rischi. I servizi finanziari offerti dai big tech si pongono in competizione con i tradizionali intermediari ma, in alcuni casi, anche in partnership con quest’ultimi.

Scarica articolo in PDF

L’industria bancaria è attraversata da un processo di profonda trasformazione alimentato principalmente dalle innovazioni tecnologiche, che hanno allo stesso tempo inciso non solo sull’efficienza del settore ma soprattutto sull’aumento della concorrenza da parte di diverse categorie di nuovi attori. Oltre alle challenger banks e alle start-up fintech, il mercato internazionale ha visto la crescita della finanza big tech.

A differenza dei nuovi attori emersi nell’industria bancaria, le grandi multinazionali tecnologiche (tra queste, Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft, Alibaba, Tencent) potrebbero avere dei vantaggi comparati che gli permetterebbero di raggiungere economie di scala con più facilità e velocità. Esse, infatti, possiedono già un forte brand legato alle loro attività principali, che gli permette di stabilire un solido rapporto con un’ingente base di consumatori. Inoltre, i big tech possono sfruttare alcune caratteristiche strategiche: la loro notevole liquidità finanziaria, l’avanzata capacità e predisposizione tecnologica, l’accumulazione di dati per sviluppare un’architettura a basso costo. Bisogna inoltre tenere in considerazione che queste società non competono semplicemente sulla qualità o il prezzo del servizio offerto, ma cercano di costruire un ecosistema di prodotti e servizi connessi tra di loro per generare e sfruttare gli effetti di rete e l’accumulazione di dati.

Technology information e servizi di consulenza

Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, il core business dei dig tech è rappresentato dalla technology information e da servizi di consulenza, che compongono il 46 per cento dei loro ricavi totali. I ricavi relativi alle loro attività finanziarie rimangono ancora una percentuale limitata, attestata all’11 per cento[1]. Nonostante ciò, si può osservare come i big tech si stiano sempre di più interessando al mercato bancario, entrando in competizione con gli attori bancari tradizionali oppure formandone delle partnership. Più nel dettaglio, le grandi multinazionali tecnologiche tendono a operare in alcuni segmenti specifici dell’industria bancaria, focalizzandosi sulle attività meno regolate per evitare sia le stringenti normative del settore sia i costi di compliance.

Non sorprende quindi che la prima mossa strategica dei big tech sia stata sviluppare e lanciare nel mercato dei pagamenti delle soluzioni online e mobile – come PayPal o Alipay – che mitigassero il rischio di azzardo morale, aumentando di conseguenza la fiducia tra consumatori e venditori nelle transazioni online, facilitando, di conseguenza, il consolidamento delle attività e-commerce. Posizionandosi come intermediari tra le piattaforme e i consumatori, i big tech hanno sia ridotto i costi di transazione dei pagamenti elettronici sia iniziato a raccogliere dati sul comportamento di acquisto dei consumatori. Con la crescita esponenziale dei pagamenti mobile, è anche aumentata l’offerta in tal senso a disposizione dei consumatori (come per esempio, Google Pay, Apple Pay o Amazon Pay).

Al contrario dei progetti di valute digitali private, come Libra o Gram, queste piattaforme di pagamento mobile continuano a operare all’interno dell’infrastruttura di pagamenti tradizionale. Anche quando esse si appoggiano sui propri sistemi per processare e regolare le transizioni, gli utenti continuano a collegare i propri conti bancari e carte di credito/debito per trasferire il denaro.

Il dinamismo dei big tech nel mercato dei pagamenti ha tre motivazioni strategiche principali: è un segmento non sottoposto a un rigido quadro regolamentare, non richiede una licenza bancaria e non impone requisiti stringenti sul proprio bilancio. Inoltre, i dati relativi ai pagamenti sono particolarmente rilevanti per i big tech perché gli permettono sia di accumulare informazioni che ne incrementano il valore commerciale sia di consolidare la loro funzione di medium intersettoriale.

Gli effetti di rete e il valore dei dati

La complementarità tra i servizi di pagamento e le attività principali dei big tech aiuta anche a spiegare la razionalità del loro modello di business. Sfruttando gli effetti di rete, questi attori supportano la loro espansione di data-network-assets[2] in vari settori dell’economia per divenire un ponte, quasi indispensabile, tra consumatori e fornitori di servizi/prodotti. Al contempo, riescono ad accumulare ulteriori dati che aggiungono valore provenendo dalle diverse attività del loro ecosistema.

Seguendo questa logica, i big tech possono anche offrire servizi e prodotti bancari a prezzo marginale, se non gratuito, perché possono sfruttare le reti che già possiedono e monetizzare i dati che accumulano. In aggiunta, essendo per loro natura digitali e quindi operando attraverso infrastrutture maggiormente flessibili ed efficienti rispetto al sistema bancario (che si poggia su infrastrutture operative vecchie, costose e da modernizzare), possono con facilità sviluppare soluzioni tecnologiche per ridurre i costi operativi dei loro servizi e dei prodotti bancari.

Dai servizi di pagamento a quelli di prestito

Dopo i pagamenti, alcuni big tech hanno iniziato a offrire servizi di prestito. In particolare, i giganti dell’e-commerce hanno cominciato a fornire credito ai piccoli e medi venditori delle loro piattaforme. Seppure i tassi di interesse offerti siano mediamente più alti della media del mercato nazionale di riferimento, essi sono riusciti a conquistare questa nicchia di mercato perché possono contare su dei meccanismi di riduzione dell’azzardo morale e valutazione del rischio di credito più efficaci. Esercitando una posizione di dominio nel mercato dell’e-commerce, la minaccia di espellere dal loro negozio online gli operatori inadempienti costituisce un serio incentivo a onorare il debito. Inoltre, accedendo ai dati di vendita sulla piattaforma, possono combinare informazioni tradizionali con i dati sulle loro attività online nella valutazione del merito di credito.

Incentivati dalla scomposizione e dalla complementarità delle loro varie attività, i big tech possono anche sfruttare gli effetti di rete per espandersi nel mercato delle assicurazioni, della gestione del risparmio e degli investimenti. Possono offrire direttamente i loro prodotti oppure fungere da intermediario (agency model) per vendere i prodotti di terzi.

Il panorama cinese

Senza dubbio, la diffusione della finanza big tech sta procedendo a diverse velocità nel panorama internazionale. In Cina, per esempio, le soluzioni di pagamento mobile di Alipay (controllata da Ant Financial, di cui Alibaba possiede il 33 per cento del capitale) e di WeChat (società di Tencent) hanno, rispettivamente, 500 milioni di utenti (36 per cento della popolazione totale cinese) e 900 milioni di utenti (65 per cento), controllando insieme il 94 per cento del mercato dei pagamenti mobile nel paese[3].

Sempre in Cina, Ant Financial ha lanciato una banca digitale al 100 per cento, MyBank, che ha come mercato di riferimento le PMI cinesi e i micro-prestiti per individui. Quando un consumatore richiede un prestito online o tramite mobile, MyBank processa 100.000 indicatori attraverso una dotazione di 100 modelli di previsione e 3000 strategie di prestito procedendo all’istruttoria senza nessun intervento umano. Nel 2018, la banca ha prestato 47.689 miliardi di RMB (6,9 miliardi di dollari). Tencent, invece, possiede il 30 per cento di WeBank che nello stesso anno ha allocato 119.817 milioni di RMB (14,4 miliardi di dollari) a clienti PMI e di micro-credito[4].

L’ecosistema di Ant Financial comprende anche Ant Fortune, una app di wealth management che permette ai consumatori cinesi di comprare prodotti finanziari da diverse società cinesi – al momento 900 prodotti finanziari da 80 istituzioni finanziarie. Ant Fortune ha circa 25 milioni di utenti di cui l’81 per cento ha meno di 36 anni. Un ulteriore attività finanziaria è Yu’e Bao, un money-market fund. Con più di 120 milioni di utenti e 210 miliardi di dollari in gestione, nel 2016 e nel 2017 Yu’e Bao è stato il più grande money-market fund del mondo con un investimento medio di 3,329 RMB (475 dollari).

L’esperienza cinese della finanza big tech è unica sia per dimensioni sia per rilevanza, incentivata da fattori specifici interni come la struttura del mercato finanziario cinese e l’approccio meno stringente del regolatore nazionale. Nonostante ciò, la finanza big tech sta crescendo a livello globale, catturando nicchie di mercato in altri Paesi. In Giappone, Rakuten Bank ha prestato 8,54 miliardi di dollari nel 2019. In Korea, la banca online Kakao Bank e KBank (Korea Telecom) ha prestato in totale 5,8 miliardi di dollari; Mercado Pago, che opera in diversi paesi dell’America Latina, circa 127 milioni di dollari; Amazon ha superato i 3 miliardi di dollari nel 2017[5].

Le partnership con gli attori bancari tradizionali

Ma i big tech stanno consolidando la propria presenza nel mercato bancario anche lanciando partnership con attori bancari tradizionali. Secondo una ricerca di KPMG, il 26 per cento delle istituzioni finanziarie ha già sviluppato una partnership con uno o più big tech e un ulteriore 27 per cento stava pianificando di farlo nei successivi dodici mesi[6].

In base alla necessità e le opportunità offerte dai mercati locali, queste partnership possono prendere diverse forme. Per esempio, in Messico è stata lanciata Amazon Rechargeable Service insieme a Mastercard e Grupo Financiero Banorte. Questa iniziativa permette ad Amazon di attrarre un segmento di consumatori che non ha tradizionalmente accesso a un conto bancario offrendo un’alternativa alle carte di credito e debito tradizionali. Questa soluzione ibrida di una carta di debito che può essere ricaricata con contante è ritagliata per soddisfare i bisogni dei consumatori in un Paese in cui meno della metà degli adulti ha accesso a strumenti di pagamento elettronici. Invece, Grupo Financiero Banorte riesce, utilizzando il brand di Amazon, a servire soggetti che prima erano esclusi finanziariamente.

In un Paese ad alto livello di inclusione finanziaria, come gli Stati Uniti, Amazon e Bank of America hanno sviluppato una sinergia per incrementare il volume dei prestiti da erogare ai venditori della piattaforma e-commerce. Un altro esempio è quello di Apple che, in partnership con Goldman Sachs, ha lanciato la propria carta di credito. Se la banca americana cerca di ampliare il proprio segmento di retail business, Apple cerca di incentivare gli utenti Apple a interagire maggiormente con il suo ecosistema (offrendo il 2 per cento di cashback quando usata con Apple Pay, l’1 per cento per le transazioni attraverso la carta di credito stessa e il 3 per cento per gli acquisti Apple).

Questi sono solo due esempi del numero sempre maggiori delle partnership tra istituzioni finanziare e i big tech. Anche se questo potrebbe apparire, superficialmente, come uno scenario win-win, gli operatori tradizionali potrebbero gradualmente perdere la loro relazione diretta con i consumatori, incrementando il rischio di essere disintermediati e invisibili. Inoltre, così facendo, tutti i rischi di queste attività sarebbero caricati solo sui bilanci delle banche. I big tech stanno, silenziosamente, ricavando quote di un mercato in cui le banche esercitavano un monopolio.

Ma i big tech non hanno interesse a divenire banche regolamentate. Secondo una ricerca pubblicata da Merrill Lynch, negli Stati Uniti, l’industria tecnologica e dell’e-commerce è sottoposta a circa 27.000 leggi mentre quella bancaria a 128.000. I costi e i rischi di una licenza bancaria sono troppo alti, è strategicamente più semplice ed efficace continuare a espandersi nelle attività bancarie periferiche catturando segmenti specifici di mercato. Inoltre, il ritorno sul capitale dell’industria bancaria (12,74 per cento) è nettamente più basso di quello a cui sono abituati i big tech (28,14 per cento)[7].

La vendita di servizi tecnologici

Ma è anche importante sottolineare la crescente vendita di servizi tecnologici che i big tech offrono all’industria bancaria. Amazon, Microsoft e Google sono i leader del mercato del cloud-computing di cui le banche sono tra i maggiori clienti. Ma esistono altri segmenti che, potenzialmente, potrebbero essere redditizi in vista di una sempre maggiore tecnologizzazione della supply chain bancaria (intelligenza artificiale, machine learning ecc).   

La finanza big tech potrebbe rendere più efficiente il mercato bancario, riducendo i costi di transizione e d’informazione per facilitare l’inclusione finanziaria nelle economie emergenti e per soddisfare la domanda e le preferenze dei consumatori nei mercati più maturi. Entrando in competizione con gli operatori tradizionali e sfidandone anche le rendite da posizionamento, la finanza big tech potrebbe avvantaggiare il sistema con prodotti e servizi a più basso prezzo. Tuttavia, sfruttando gli effetti di rete, l’accumulazione di dati e il loro potere di mercato per consolidare le loro attività bancarie, questa potrebbe avere un impatto negativo sull’industria, generando dei rischi non tradizionali.

La finanza big tech è una sfida per le autorità di vigilanza nazionali e internazionali perché questi attori hanno grandi potenzialità di mercato. Data la natura dei loro modelli di business, l’attenzione del regolatore deve essere indirizzata verso una riflessione dinamica che prenda in considerazione l’interazione di diversi fattori di mercato come i rischi relativi alla stabilità finanziaria ma anche alle problematiche relative alla gestione dei dati personali e al pericolo di monopoli. Solo così si potranno massimizzare i benefici della finanza big tech, mantenendo un level playing field nel settore e minimizzando i rischi non tradizionali che essa comporta.

In sintesi

  • La finanza big tech ha il potenziale di consolidarsi nei mercati nazionali e internazionali con grande rapidità grazie ai vantaggi che le grandi multinazionali tecnologiche hanno intrinseci ai loro modelli di business.
  • I servizi finanziari offerti dai big tech si pongono in competizione con i tradizionali intermediari ma, in alcuni casi, anche in partnership con quest’ultimi.
  • La finanza big tech potrebbe comportare non solo benefici in termine di efficienza dell’industria ma anche rischi non tradizionali a cui il regolatore deve far fronte per massimizzare le implicazioni di questo fenomeno minimizzandone i rischi.
1

Bank for International Settlements, Annual Report 2018, 23 June 2019, p. 56, https://www.bis.org/publ/arpdf/ar2019e3.pdf

2

M. Iansiti, K.R. Lakhani, «Managing our Hub Economy», Harvard Business Review, Issue September-October 2017, https://hbr.org/2017/09/managing-our-hub-economy.

3

Bank for International Settlements, BigTech and the changing structure of financial intermediation, 2019b, https://www.bis.org/publ/work779.pdf.

4

I dati sono stati calcolati dagli autori utilizzando i bilanci annuali di MyBank e di WeBank.

5

N. Bilotta, S. Romano, The Rise of Tech Giants. A Game Changer in Global Finance and Politics, Peter Lang, Pieterlen, 2019.

6

KPMG (2017), Forging the Future. How Financial Institutions are Embracing Fintech to Evolve and Grow, KPMG Insights, 2017, https://home.kpmg/it/it/home/insights/2017/10/forging-the-future-with-fintech.html.