E&M

2023/4

Francesco Zirpoli

Le grandi sfide dell’industria italiana

L’industria dell’auto rappresenta uno dei pilastri dell’economia italiana. Tuttavia, a partire dal 2000, la crisi del modello produttivo FIAT, culminata con la fusione tra FCA e PSA, ha determinato una contrazione sensibile della produzione e, di conseguenza, del fatturato. L’Italia rimane un player importante che rischia però di arrancare, insidiato dalla concorrenza dei Paesi europei. Servono riforme strutturali in grado di porre rimedio ad annose criticità, investimenti in R&S e nella formazione del personale, diversificazione della produzione e rilancio dell’industria dei mezzi di trasporto pubblico locale.

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L’industria automotive italiana è una componente importante del sistema industriale del Paese e un motore di sviluppo tecnologico, manageriale e sociale. Essa, infatti, occupa oltre 200 mila addetti (considerando solo la manifattura), produce un fatturato di 54 miliardi di euro (considerando solo i produttori di componenti), e nel 2022 ha esportato circa 11,84 miliardi di euro, con un saldo netto positivo per 2,65 miliardi. Progettare e sviluppare auto richiede competenze tecnologiche e manageriali complesse, così come entrare a far parte delle filiere globali dell’auto. Queste competenze sono difficilmente imitabili e, quindi, rappresentano una fonte affidabile di sviluppo economico ed occupazionale nel lungo periodo. L’Italia è indubbiamente un player importante nello scenario internazionale. Tuttavia, oggi esistono motivi che spingono a ritenere che l’industria italiana dell’auto sia a rischio di perdere tale centralità e di conseguenza avviarsi a un declino. Ciò sia a causa di una tendenza di lungo periodo verso la riduzione della produzione sia delle conseguenze della fusione tra PSA e FCA, che ha dato vita nel gennaio 2021 a Stellantis, a oggi unico produttore di massa di auto presente in Italia[1].

In quanto segue si analizzerà il percorso industriale che ha portato all’attuale assetto per poi passare a prospettare delle direzioni di sviluppo per il futuro.

Breve storia di un’anomalia italiana

L’Italia è passata dal produrre circa 2 milioni di autovetture e veicoli commerciali nel 1990, a 1,7 milioni del 2000, a quasi 850 mila nel 2010, alle circa 500 mila del 2022 (750 mila se si considerano anche i veicoli commerciali leggeri). Quest’ultimo dato è particolarmente significativo soprattutto se comparato con la produzione complessiva di autoveicoli di altri Paesi europei (in Europa, nel 2021 sono stato prodotti 16,331 milioni di veicoli)[2]. I principali Paesi produttori sono[3]: la Germania con 3,309 milioni di vetture grazie alla produzione negli stabilimenti di BMW, Mercedes, VW, Stellantis, Ford (Tesla è impegnata nell’avvio di una fabbrica), la Spagna con 2,098 milioni di vetture prodotte negli stabilimenti di VW, Ford e Stellantis, la Francia con 1,351 milioni nelle fabbriche di Renault, Stellantis e Toyota; il Regno Unito con 932 mila vetture prodotte negli stabilimenti di Nissan, Jaguar Land Rover, BMW, Stellantis, VW, Honda e Geely. Come è noto, la produzione europea è stata localizzata anche nell’Europa dell’Est; anche qui, Paesi come Repubblica Ceca con 1,111 milioni di vetture prodotte da VW, Toyota e Hyunday, Slovacchia con 1 milione di vetture producono più dell’Italia. Solo la Polonia con 439 mila veicoli si attesta sui livelli raggiunti dall’Italia.

Da questi dati ed elenco di produttori operanti in Europa, emerge come l’Italia, seconda manifattura europea, sia divenuta fanalino di coda nella produzione di auto perdendo oltre il 20 per cento degli occupati negli ultimi vent’anni in concomitanza con l’essere l’unico Paese industrializzato a ospitare gli stabilimenti produttivi di un solo produttore. Le origini di questa anomalia risalgono al 1986 quando governo e Parlamento italiano danno l’assenso alla vendita da parte dell’IRI di Alfa Romo alla Fiat e non alla Ford che aveva prodotto un’offerta che razionalità economica e contesto internazionale avrebbero suggerito di far prevalere (Pirone e Zirpoli, 2014). Con l’acquisizione di Alfa Romeo, Fiat completa il percorso di acquisizione di tutti i competitor italiani (qualche anno prima Fiat aveva rilevato Lancia, 1978, Maserati, 1993, e Ferrari dal 1969). Negli anni Ottanta e Novanta, quindi, mentre negli altri Paesi europei e negli USA i governi aprivano e favorivano i cosiddetti «translpant», ovvero investimenti diretti dall’estero da parte di altri produttori auto, in Italia FIAT poteva agire da dominus incontrastato e continuerà a farlo fino a oggi.

Gli anni Ottanta e Novanta sono anche gli anni in cui si fa strada nell’industria mondiale dell’auto una nuova divisione del lavoro tra carmaker e fornitori, con questi ultimi che gradualmente acquisiscono un maggiore ruolo sia nella progettazione sia nella produzione (Zirpoli, 2010). Fiat, come gli altri produttori dell’epoca, spinge verso l’esternalizzazione di produzione e progettazione a livelli perfino superiori ai concorrenti giapponesi, noti per l’organizzazione della filiera sul modello «keiretsu» (cui sono collegati i noti modelli della lean production o del just in time). A metà anni Novanta, fino al 75-80 per cento dei componenti e sistemi di un veicolo FIAT arriva a essere progettato e prodotto dai fornitori per poi essere assemblato negli stabilimenti FIAT. FIAT non esiterà a incoraggiare l’arrivo in Italia di grandi imprese della componentistica «invitate» a comprare fornitori locali. Tale approccio seguiva la necessità per Fiat di avere in Italia fornitori capaci di progettare interi moduli e sistemi complessi pronti per l’assemblaggio. Con una Fiat integrata verticalmente, infatti, i fornitori italiani non avevano all’epoca sviluppato le competenze necessarie per sostituire FIAT nello sviluppo di tali sistemi e componenti. Ne conseguirà una struttura della fornitura a più livelli: FIAT passa a relazionarsi direttamente con un gruppo ristretto di grandi multinazionali (quasi tutte estere) che, a valle, gestiscono una pletora di sub-fornitori locali maggiormente specializzati e di dimensioni piccole. Come vedremo più avanti, le scelte di FIAT, in assenza di competitor in Italia, avranno conseguenze di lungo periodo.

Il modello produttivo di FIAT inizierà ad andare in crisi a cavallo del 2000: l’esternalizzazione della progettazione e della produzione ai fornitori ha svuotato l’azienda di competenze chiave e si è rivelata un boomerang anche sul fronte dei costi (Zirpoli, 2010, Zirpoli e Becker, 2011). Nel 2004 quando la FIAT è a un passo dal fallimento è l’intera filiera auto italiana che in FIAT confida per la quasi totalità del fatturato a essere sull’orlo della bancarotta. Inoltre, una politica di forte pressione sulla riduzione dei costi verso i fornitori, decisa anche a causa delle politiche sviluppate in seno all’alleanza con General Motors, aveva ridotto la redditività dei fornitori e minato il rapporto di fiducia. In quegli anni di crisi inizia il trend per cui i fornitori che possono, soprattutto le grandi multinazionali, iniziano a ridimensionare gli investimenti o provano a lasciare l’Italia concentrando la attività nei mercati come Germania, Spagna, Francia e Inghilterra dove il portafoglio clienti è diversificato. I fornitori più piccoli e dipendenti da FIAT, prevalentemente italiani, proveranno ad avviare un lento processo di internazionalizzazione e diversificazione del portafoglio clienti.

Come è noto, l’industria italiana dell’auto si salverà. Sergio Marchionne, manager che diventerà icona del rilancio FIAT e degli anni che seguiranno, con mezzi finanziari limitatissimi, inizia a ricostruire la FIAT a partire dall’ingegneria di prodotto e dalla capacità di sviluppare progetti che siano economicamente sostenibili (Becker e Zirpoli, 2017). Per la filiera, questo è il segnale di razionalità economica e di affidabilità che mancava dai tempi di Vittorio Ghidella, il «padre» della Fiat Uno che era uscito dall‘azienda nel 1987 per i contrasti generati dalla strategia di finanziarizzazione e disinvestimento dall’auto voluta dal duo Agnelli-Romiti. Un po’ per necessità, senza la FIAT per molti ci sarebbe comunque stato solo il fallimento, ma anche per convinzione nel nuovo progetto, molti fornitori decidono di seguire la nuova leadership e di concedere, in un anno solo, un taglio incondizionato dei costi del 3-4 per cento. Per un’azienda che compra componentistica per decine di miliardi di euro un taglio del genere libera risorse finanziare sufficienti per avviare il turnaround (successivamente, l’uscita di General Motors dalla put option che la obbligava a comprare FIAT portò un’ulteriore iniezione di capitali) (Whitford and Zirpoli, 2016).

Gli anni che seguono rappresentano un momento di ritrovata vitalità che culmina con l’acquisizione di Chrysler partita nel 2009 e chiusa nel 2014 con la costituzione di Fiat Chrysler Autmobiles (FCA). Anche questa operazione sembra essere un unicum. Nell’industria dell’auto, infatti, fusioni e acquisizioni hanno avuto successo se inquadrate in due schemi. Il primo è quello in cui l’acquirente domina l’acquisito che ne diventa una «divisione», come nel caso di VW con Seat, Audi o Skoda, di Renault con Dacia, o di BMW con Mini. Il secondo vede seguire all’accordo azionario collaborazioni su singoli progetti o piattaforme ma non un’integrazione organizzativa e operativa. È questo il caso di Renault-Nissan. Le due aziende, infatti, hanno realizzato sinergie solo ove ritenuto opportuno su singole piattaforme e progetti. Gli esempi fallimentari sono, invece, tantissimi: dal tentativo tra Renault e Volvo negli anni Ottanta e Novanta, alla drammatica esperienza tra Daimler e Chrysler o tra GM e FOAT a cavallo del 2000. FIAT e Chrysler, invece, è un esempio rilevante, rimasto unico, di successo di fusione tra pari.

Negli anni successivi il gruppo dirigente capitanato da Marchionne proverà a replicare lo «schema FCA» con un tentativo di fusione con GM, senza successo (Bricco, 2020). Sono anni in cui la proprietà chiede di ridurre il tasso di sviluppo di nuovi prodotti onde evitare di farsi trovare a una nuova fusione con investimenti destinati a divenire sunk-cost in quanto difficilmente convertibili in piattaforme industriali comuni al nuovo partner. In Italia, che secondo i piani di Marchionne dovrà divenire il polo del lusso, in assenza del lancio di nuovi modelli non si concretizzerà mai l’obiettivo di tornare a volumi di produzione pari a 1,4 milioni. Ciò nonostante, nell’organizzazione bipartita per piattaforme prodotto, le auto di piccole dimensioni vengono tutte sviluppate a Torino, mentre le grandi a Detroit. È importante notare che con FCA l’Italia rimarrà un luogo chiave di progettazione per le vetture destinate all’Europa e in alcuni casi, come per il progetto B-Suv che darà vita alla Jeep Renegade prodotta a Melfi (e poi in Cina e in Brasile), per i mercati internazionali.

L’industria italiana dell’auto oggi e le sue debolezze

La formazione nel gennaio 2021 del gruppo Stellantis, frutto della fusione tra FCA e PSA, preceduta dalla cessione da parte di FCA di Magneti Marelli a Calsonic Kansei, trasforma nuovamente i destini industriali dell’Italia. Al momento della fusione, Stellantis annuncia benefici per 5 miliardi di euro annui dovuti, per il 40 per cento, alla convergenza di piattaforme e powertrain, all’ottimizzazione degli investimenti in R&S e miglioramenti dei processi produttivi e per il 35 per cento all’ottimizzazione degli acquisti. Un ulteriore 7 per cento sarebbe derivato dall’integrazione delle funzioni di vendita e marketing; la restante parte delle sinergie deriverà dall’ottimizzazione delle funzioni logistica, qualità e after-market.

Pur non essendo noti i dati nel dettaglio, dopo più di due anni, il modo in cui le sinergie nella progettazione e produzione sono state realizzate risultano evidenti. Nell’ambito del gruppo FCA, Torino e Modena che si erano ritagliate il ruolo di centro di ingegneria per lo sviluppo dei segmenti A e B e premium (Maserati e Alfa Romeo) subiscono un forte ridimensionamento (e in alcuni casi chiusura) delle attività di progettazione a favore di quelle svolte in Francia. La scelta è la naturale conseguenza del quasi azzeramento di nuovi progetti di R&S a Torino avvenuto negli anni che precedono la fusione con PSA e del fatto che, contemporaneamente, PSA investiva in R&S a livelli superiori anche ai competitor tedeschi. Nel confronto, non poteva esserci dubbio che Parigi avrebbe assorbito le attività di R&S italiane. Uno spostamento dell’asse della progettazione dei veicoli destinati alla produzione e vendita in Europa su Parigi ha prodotto un ulteriore inevitabile calo delle attività delle società di ingegneria satelliti di FCA e soprattutto dei fornitori operanti in Piemonte[4].

Sul fronte degli stabilimenti produttivi, PSA e Opel avevano una produzione installata in Europa adeguata a soddisfare la domanda con una saturazione della capacità produttiva. In Italia, il piano industriale 2014-2018 che doveva trasformare il Paese nel luogo della produzione di vetture di segmento premium era fallito per assenza di nuovi modelli con la maggior parte degli stabilimenti tenuti aperti grazie agli ammortizzatori sociali. Le successive scelte di Stellantis non hanno colmato questo gap portando la produzione in Italia al suo minimo storico (Bubbico, 2023).

La filiera italiana che per lunghi anni aveva beneficiato di una crescita dell’export e della diversificazione di mercati e clienti (nel 2021, il valore dell’export cresce di +9.9%, più che in Germania (+7%) e Francia (+3 per cento) ed era riuscita a tenere sul piano occupazionale[5], si è trovata negli ultimi anni stretta in una morsa. Da un lato, il ridimensionamento delle attività di Stellantis in Italia, dall’altro la caduta della produzione in Europa, anche legata alla crisi da Covid-19, e in particolare nell’area che ruota intorno alle produzioni tedesche. La combinazione di questi due fatti ha generato una crisi profonda che ha evidenziato alcuni elementi di criticità (Moretti e Zirpoli, 2021, Calabrese et al., 2023):

 

  • Stellantis rimane destinataria del 50 per cento, in media, del fatturato della componentistica italiana che ne è da essa di fatto dipendente;
  • circa il 50 per cento dei fornitori italiani ha un numero di dipendenti inferiore a cinquanta, mentre le aziende più grandi (il 13 per cento delle imprese, che impiegano più di 250 addetti) sono in prevalenza filiali di gruppi esteri;
  • i fornitori italiani investono meno rispetto alle loro controparti europee in R&S. Il volume degli investimenti in R&S nelle imprese italiane è pari a circa la metà di quelle tedesche. Come osservato sopra, questo trend dipende anche dalla riduzione degli investimenti in R&S e dalle commesse Stellantis;
  • la componentistica italiana dipende fortemente dall’export verso produttori tedeschi e, in misura minore, francesi in un contesto in cui la produzione tedesca si è ridotta di circa il 40 per cento in cinque anni, da 5,646 milioni del 2017 ai 3,3 del 2021.

 

La situazione della filiera italiana e la sua struttura sono il frutto delle scelte di FIAT degli anni Ottanta e Novanta e della incapacità dei fornitori italiani di superare alcuni limiti strutturali, in particolare quelli legati alla dimensione medio piccola. La filiera si trova quindi soggetta alle scelte di localizzazione produttiva di Stellantis e delle case madri situate in altri Paesi (si pensi ai casi, per esempio, degli stabilimenti italiani di Bosch e Magneti Marelli). I fornitori italiani indipendenti si trovano invece vittime di una congiuntura che ha prodotto un drastico ridimensionamento del mercato (e della liquidità) in una situazione di forte cambiamento tecnologico, cui a causa della piccola dimensione hanno grandi difficoltà a rispondere attraverso gli investimenti in R&S, essenziali per un rapido riposizionamento tecnologico e di mercato.

Le prospettive per uno sviluppo sostenibile

Nei prossimi anni si assisterà auspicabilmente a una forte accelerazione della trasformazione dell’industria dell’auto nella direzione della drastica riduzione delle emissioni delle auto e del ridimensionamento del parco auto circolante a favore di soluzioni di trasporto meno impattanti sull’ambiente e sulla salute dei cittadini (come l’uso dei mezzi in condivisione, pubblici e privati, delle bici ecc.). Qual è la posizione dell’industria italiana dell’auto in questa congiuntura?

La risposta è complessa, in quanto attiene in primis agli effetti dell’elettrificazione del drive-train delle auto - unica opzione al momento disponibile sul fronte della tecnologia per ridurre i gas serra - sulla struttura industriale italiana. In secondo luogo, dipende dagli effetti della riduzione della domanda di auto sull’industria dell’auto stessa a causa di cambiamenti significativi nei comportamenti dei consumatori, soprattutto nelle aree a forte densità abitativa (Wittwer et al., 2019).

Quanto al primo punto, l’elettrificazione contribuirà a rafforzare una tendenza già in atto verso la riduzione di componenti e parti del veicolo. Tuttavia, la riduzione numerica delle componenti legate all’endotermico (e per il resto del veicolo) si associa a una crescita quali-quantitativa della componentistica legata all’elettrificazione e a prodotti e servizi a essa complementari. Per valutare le ricadute di questa tendenza sulla filiera automotive italiana è necessario, quindi, comprendere in che misura l’elettrificazione «spiazzerà» le competenze dei fornitori italiani. I dati presentati in un recente studio realizzato dal Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (Calabrese et al., 2023) mostrano, in contraddizione con altri rapporti di fonte industriale e basati su dati aneddotici, che la maggioranza dei fornitori italiani produce componentistica che è indifferente alle tecnologie legate al drive-train (i componentisti dedicati esclusivamente alla produzione per il motore endotermico risultano essere meno di cento sugli oltre 2400 censiti complessivamente in Italia). Inoltre, il rapporto evidenzia come l’elettrificazione porterà nuovi mestieri nella filiera collegati alla componentistica elettronica ed elettrica (e software). Dallo studio, infine, emerge che, sebbene l’esposizione dei fornitori sia minima sul fronte della produzione di componentistica esclusivamente dedicata ai motori endotermici, meno scontata è la loro capacità di sfruttare le opportunità per sviluppare nuovi mestieri e competenze, che dovranno affiancarsi al consolidamento di quelli attuali.

Nell’analisi delle prospettive di sviluppo dell’industria italiana dell’auto si intrecciano, quindi, due temi, uno relativo al mercato e ai volumi produttivi e uno legato alle competenze per l’innovazione che gli attori dell’industria dovranno sviluppare.

Da un punto di vista di mera sopravvivenza, se i volumi produttivi di auto rimarranno ai livelli attuali e/o il mix di prodotto scelto da Stellantis per l’Italia non dovesse favorire veicoli a trazione elettrica di successo sarà difficile immaginare una ripresa a breve dell’industria italiana. In tal senso, l’idea promossa (o forse l’auspicio) dai decisori pubblici italiani e dai sindacati in queste settimane che la produzione Stellantis torni in Italia a livelli intorno al milione di unità annue avrebbe l’effetto di valorizzare le competenze di progettazione e di produzione nonché contribuire a saturare occupazione e capacità produttiva installata e dare respiro finanziario alla filiera.

Tuttavia, una strategia industriale da parte dell’Italia che si limiti a favorire l’aumento dei volumi di Stellantis sarebbe del tutto insufficiente, anche nel breve periodo. La storia insegna, infatti, che il futuro dell’industria italiana dell’auto dipende da azioni che sappiano rispondere in modo strutturale alle fragilità su esposte. Inoltre, l’esigenza di cambiare in profondità il modello produttivo dell’industria per coniugare esigenze ambientali e socioeconomiche impone che le azioni di politica industriale siano ad ampio spettro e in grado allo stesso tempo di:

 

  • sostenere in modo selettivo le imprese della fornitura italiana che hanno dimostrato di saper fare innovazione per rendere i loro investimenti in R&S e in produzione competitivi rispetto a quelli delle loro controparti internazionali. Questa misura porterebbe a creare poli di eccellenza nazionali, anche sfruttando network di ricerca pubblici, capaci di trainare l’innovazione dei fornitori italiani di secondo e terzo livello, troppo piccoli per competere nelle catene globali del valore;
  • colmare velocemente il ritardo che l’Italia sta accumulando negli investimenti in componenti/sistemi collegati con le produzioni di veicoli elettrificati, anche alternativi alle auto. In Italia, come evidenziato dal rapporto di ricerca di Ca’ Foscari, esiste un sistema industriale che opera nei servizi, nella componentistica e nelle infrastrutture collegate all’elettrificazione (e della micro-mobilità elettrica). Tuttavia, la ritardata partenza dell’elettrificazione rischia di danneggiare irreversibilmente un settore che invece potrebbe crescere in modo esponenziale e competere a livello internazionale;
  • avviare un piano nazionale che orienti la formazione della forza lavoro in modo selettivo e coordinato per realizzare in tempi rapidi la conversione delle competenze dei lavoratori alla luce dell’evoluzione della tecnologia e del mercato; tale piano dovrebbe rispecchiare le molteplici specializzazioni geografiche che caratterizzano l’industria italiana; altri Paesi europei, a valle della modifica della regolamentazione europea che impone il phase-out dei veicoli endotermici, sono partiti con tali piani da diversi anni;
  • favorire la diversificazione produttiva attraverso l’attrazione in Italia di fornitori indipendenti e produttori diversi da Stellantis alla stregua di quanto già fatto nel resto d’Europa, ponendo vincoli e garanzie sia di natura occupazionale sia di qualificazione dell’investimento, per avviare un percorso di rafforzamento del posizionamento internazionale e di riduzione dei rischi dell’attuale dipendenza da Stellantis;
  • investire risorse nel rilancio della produzione di mezzi per il trasporto pubblico locale. A oggi, pur in presenza di aziende ad alto potenziale di sviluppo come Industria Italiana Autobus, anche per questo settore strategico per la mobilità sostenibile l’Italia dipende dalle importazioni per soddisfare la domanda.

 

Gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra non saranno, tuttavia, raggiungibili se a queste misure non si affiancherà un cambio di paradigma della mobilità, che a oggi è dominato dalla concezione di chi produce e vende auto. A tale scopo andrà moltiplicato l’investimento nel trasporto pubblico portandolo ai livelli dei Paesi europei più sviluppati. Andranno poi favorite, per la popolazione con redditi più bassi, iniziative di social leasing[6] o di car-sharing che, a complemento del servizio pubblico, garantiscano l’accessibilità alla mobilità individuale a tutti i cittadini. Inoltre, va accelerato lo sviluppo di infrastrutture che siano alternative alla mobilità basata sull’auto privata, che liberino spazio per forme di mobilità a zero impatto ambientale e azzerino il consumo di suolo. Queste forme di investimento sono un sottoinsieme delle misure da poter realizzare per raggiungere gli obiettivi ambientali ed esemplificano come sia possibile coniugare mobilità sostenibile con istanze di natura sociale e di sviluppo economico. L’Italia, che oggi è meno dipendente di Germania e Francia dalla produzione di auto, ha un’opportunità storica per realizzare uno sviluppo industriale sostenibile.

Riferimenti bibliografici

Becker, M.C.; Zirpoli, F. (2017), «How to Avoid Innovation Competence Loss in R&D Outsourcing» in California Management Review, vol. 59, pp. 24-44.

Bricco, P. (2020), Marchionne lo straniero. L’uomo che ha cambiato per sempre l’industria mondiale dell’auto, Milano, Rizzoli.

Bubbico, D. (2023), «L’industria automotive italiana tra problematiche di settore e transizione verso l’auto elettrica» (pp. 69-96), in G. Calabrese, A. Moretti, F. Zirpoli (2023) (a cura di), Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano 2022, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari.

Moretti, A., Zirpoli, F. (2021) (a cura di), Osservatorio sulla componentistica automotive italiana 2021, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, http://doi.org/10.30687/978-88-6969-564-3/008.

Pirone F. Zirpoli F. (2014), L’Alfa Romeo e l’industria automobilistica italiana, Un Gruppo singolare. Settori, bilanci e ruolo nell’economia italiana, Bari, Laterza, vol. 5, pp. 277-385.

Whitford, J. Zirpoli, F. (2016), «The Network Firm as a Political Coalition», Organization Studies, vol. 37, pp. 1227-1248.

Wittwer, R. Gerike, R., Hubrich, S. (2019), «Peak-Car Phenomenon Revisited for Urban Areas: Microdata Analysis of Household Travel Surveys from Five European Capital Cities», Transportation Research Record, 2673(3), 686-99, https://doi.org/10.1177/0361198119835509.

Zirpoli, F. (2010), Organizzare l’innovazione, Bologna, il Mulino.

Zirpoli F., Becker, M. (2011), «What Happens When You Outsource Too Much?» in MIT Sloan Management Review, vol. 52, pp. 59-64.

1

*Francesco Zirpoli è Professore Ordinario di Economia e gestione delle imprese presso il Dipartimento di Management & Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Ferrari e Lamborghini e altri produttori di nicchia localizzati nella «motor-valley» dell’Emilia-Romagna sono un’eccellenza assoluta ma non possono rappresentare la spina dorsale dell’industria nazionale e del suo indotto (in Emilia Romagna è localizzato circa il 10 per cento dei fornitori italiani).

2

ACEA, www.acea.auto

3

Qui si riportano i dati relativi agli stabilimenti dei principali produttori di massa e non dei produttori di nicchia come quelli che producono auto sportive o di lusso (elaborazione dell’autore su dati ACEA, www.acea.auto).

4

PSA era assente negli USA dove, quindi, non si presentava alcuna possibilità di sviluppare sinergie rilevanti. Ne è conseguito che le attività di FCA in USA hanno sostanzialmente beneficiato delle sinergie legate all’appartenenza a un gruppo più grande.

5

In controtendenza rispetto agli occupati negli stabilimenti di assemblaggio che invece si sono ridotti notevolmente (si veda Bubbico, 2023).

6

Per un esempio di social leasing applicato alla mobilità si veda: https://www.transportenvironment.org/discover/un-leasing-social-avec-des-voitures-100-electriques-fabriquees-en-france-et-en-europe-cest-possible/