E&M
2021/3
Indice
Editoriale
Dossier. Geopolitica
Ascesa, declino e rinascita del soft power
Dossier. Imprese e modelli manageriali
Sulle piattaforme digitali è scontro (quasi) totale
Le opportunità commerciali e le possibili insidie
Focus. Politica economica
Il capitale umano: da emergenza a priorità per il futuro del Paese
Visual readings
Il dibattito. Stato vs mercato
Comportamento organizzativo
Strategia e imprenditorialità
Strategic management
Gli advanced analytics quali vantaggi chiave per quali aziende
Marketing strategico
Nuove e vecchie logiche di mercato nell’era dell’iperconnessione
Innovation & Operations Management
Supply chain finance per la gestione del capitale circolante
Spesa pubblica
Il capitale umano: da emergenza a priorità per il futuro del Paese
Il capitale umano rappresenta un fattore chiave per la competitività e lo sviluppo economico e sociale di un Paese. I fattori principali che determinano la qualità e la quantità di capitale umano sono rappresentati dalla curva demografica, dal sistema di istruzione, dalla spesa in ricerca e in generale dal sistema della ricerca scientifica, dalla capacità di un Paese di attrarre immigrazione qualificata dal resto del mondo. Nel confronto con gli altri Paesi europei, il nostro si trova ad affrontare un’emergenza, quella del capitale umano, che minaccia il futuro del mercato del lavoro, la sostenibilità del sistema fiscale e di quello pensionistico, la competitività delle imprese e più in generale la tenuta del sistema economico e sociale. Per far fronte a tale emergenza bisognerebbe potenziare gli strumenti di assistenza e di agevolazione fiscale alle giovani coppie; ridurre il fenomeno dell’abbandono scolastico e rendere la formazione secondaria più vicina al mondo del lavoro; potenziare la mobilità degli studenti universitari verso le università più qualificate e introdurre incentivi per attrarre ricercatori da altri Paesi del mondo, aumentando al contempo le remunerazioni per quelli italiani.
Come dimostrato da numerosi studi empirici, il capitale umano rappresenta un fattore chiave per la competitività e lo sviluppo economico e sociale di un Paese. I fattori principali che determinano la qualità e la quantità di capitale umano sono rappresentati dalla curva demografica, dal sistema di istruzione, dalla spesa in ricerca e in generale dal sistema della ricerca scientifica, dalla capacità di un Paese di attrarre immigrazione qualificata dal resto del mondo.
In questo contributo verranno esaminati dapprima i fattori sopra richiamati facendo riferimento alla situazione italiana ed evidenziando i problemi di cui soffre il capitale umano nel nostro Paese, per poi soffermarsi brevemente su alcune proposte volte a superare questi problemi[1].
La qualità del capitale umano
Un’ampia letteratura scientifica mostra come in un sistema economico sempre più fondato sulla conoscenza, la presenza di giovani istruiti e qualificati condiziona in modo determinante la capacità di generare innovazione e sviluppo, di mantenere in equilibrio il sistema fiscale e previdenziale, e ancora di favorire la stabilità sociale. Ma da che cosa è composto il capitale umano di un Paese e quale fattori ne determinano lo sviluppo e la crescita? In generale, il capitale umano è rappresentato dalla forza lavoro e dunque da tutti coloro che sono occupati o alla ricerca di un’occupazione. È evidente tuttavia che la qualità del capitale umano e il suo potenziale sono determinati in modo rilevante sia dal grado di istruzione, di competenza e capacità della forza lavoro, sia dall’età media di quest’ultima. Quest’ultimo fattore è naturalmente rilevante: si pensi all’estremo a un Paese nel quale l’età media della forza lavoro fosse pari a 60 anni: anche assumendo che si tratti di persone qualificate e competenti, le prospettive per il futuro sarebbero drammatiche.
I fattori che influiscono sul capitale umano di un Paese sono principalmente rappresentati dalla curva demografica, dalla qualità del sistema di istruzione, di tutti i livelli, dall’attività di ricerca scientifica, la quale ha un impatto evidente sulla capacità di innovazione, e dai flussi migratori. Con riferimento a quest’ultimo elemento, la storia dimostra che la capacità di un Paese di attirare giovani istruiti e qualificati dal resto del mondo rappresenta un fattore chiave per la competitività e lo sviluppo economico. L’immigrazione di qualità ha favorito la competitività di interi sistemi-Paese, come è il caso degli Stati Uniti nel Secondo dopoguerra, e quella di singole metropoli, come è il caso di Londra negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Andando più indietro nel tempo, è sufficiente richiamare il ruolo che hanno avuto Venezia del Quattrocento, Anversa e Genova nel Cinquecento, Amsterdam nel Seicento e nella prima metà del Settecento, e ancora Londra nella seconda metà del Settecento e nell’Ottocento. Non è un caso che alcuni Paesi sviluppati quali il Canada, l’Australia e alcuni Stati del Nord Europa abbiano introdotto politiche – fondate su permessi, agevolazioni fiscali e in alcuni casi anche finanziamenti all’imprenditoria giovanile – volte a favorire l’immigrazione di qualità rappresentata da giovani istruiti e qualificati.
La curva demografica
Il primo problema del nostro Paese riguarda la bassa natalità e le conseguenze che questa ha prodotto in passato e produrrà in futuro sulla curva demografica. Il tasso di fertilità nel nostro Paese è pari a 1,27 per ogni donna, inferiore alla media europea (1,55) e molto inferiore al tasso di sostituzione demografica (2,1), il livello che consentirebbe di mantenere stabile la popolazione. Nel 2020 le nascite sono state 404.000, quasi la metà dei decessi, e la popolazione complessiva è scesa sotto i 60 milioni. Per avere un’idea del crollo delle nascite nel nostro Paese è sufficiente pensare che nell’anno in cui sono nato, il 1964, anno del picco del baby boom, le nascite sono state di poco superiore al milione.
Le conseguenze di questa bassa fertilità si manifestano sulla distribuzione per età della popolazione. In Italia la quota con età superiore ai 65 anni è pari a circa il 23 per cento, tre punti percentuali superiore alla media europea e molto superiore alla percentuale della popolazione con età inferiore a 14 anni (13 per cento). L’età media è superiore a 45 anni. In un Paese simile al nostro per dimensione e stadio di sviluppo economico come la Francia, la curva demografica vede un picco nella fascia di età più giovane, fino a 24 anni, mentre in Italia la frequenza assoluta più elevata si registra nella fascia di età dei baby boomer, fra i 45 e i 60 anni. La Francia presenta dunque una quota molto maggiore di giovani e una distribuzione più uniforme nelle fasce di età più avanzate.
Le previsioni al 2050 per il nostro Paese indicano un calo pronunciato, intorno al 17 per cento, della popolazione complessiva, e una crescita degli anziani: oltre 1 italiano su 3 sarà in età da pensione. È evidente che questa situazione rappresenta un primo problema importante per ciò che concerne il capitale umano del Paese.
Il sistema di istruzione: la scuola
Anche su questo fronte, il nostro Paese si trova in una condizione di svantaggio rispetto agli altri Paesi europei. Alcuni dati. Siamo agli ultimi posti per quota di giovani che raggiungono almeno un diploma superiore: 76 per cento tra i 25-34enni, contro un valore medio dell’85 per cento per l’Unione Europea. Anche sulla qualità della preparazione dei diplomati, le survey periodiche PISA (Programme for International Students Assessment) gestite dall’OCSE fotografano una situazione non positiva. Nel 2018, ultimo anno per il quale sono disponibili dati relativi alla scuola superiore, l’Italia ha ottenuto un punteggio inferiore alla media OCSE in lettura e scienze e in linea con la media OCSE in matematica. Nel confronto con i Paesi europei ci posizioniamo al 16° posto in lettura, al 17° in matematica e al 21° in scienze[2].
Il posizionamento dell’Italia in queste classifiche nasconde peraltro significative divergenze geografiche, con alcune regioni del Centro Nord che si posizionano nella parte alta delle graduatorie mentre il Mezzogiorno è sistematicamente agli ultimi posti. A ciò si aggiunga che il nostro Paese soffre di tassi di abbandono scolastico particolarmente elevati, anche in questo caso caratterizzati da importanti differenze geografiche (19 per cento al Sud vs 11 per cento an Centro Nord). È verosimile che queste divergenze risultino accentuate dalla crisi pandemica che stiamo attraversando.
Come osservato anche dal rapporto Colao, uno dei problemi della scuola italiana è legato alle profonde differenze di qualità fra livelli di istruzione, percorsi formativi e aree territoriali[3]. Già a 15 anni i nostri studenti mostrano livelli di apprendimento sistematicamente inferiori a quelli della media dei Paesi OCSE. L’indagine PISA 2018 mostra che i divari tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti professionali non solo sono estremamente ampi, ma si sono ulteriormente dilatati nell’ultimo triennio. Queste differenze creano problemi di equità e rendono inefficienti misure di carattere generale.
Al di là del posizionamento in Europa su singole discipline, è opinione diffusa che la scuola italiana, a fronte di una didattica focalizzata su teoria e metodologia, soffra di alcune importanti lacune relative alle conoscenze pratiche e utili per affrontare il mondo del lavoro: programmazione (informatica), competenze digitali, conoscenze di base di natura economico-finanziaria e giuridica, abilità nel saper comunicare e lavorare in gruppo efficacemente.
Infine, esiste un problema evidente di conoscenza delle lingue straniere. Il nostro Paese si posiziona infatti all’ultimo posto in Europa per numero di adulti fluenti in una lingua straniera: meno dell’11 per cento (età 25-64), contro una media europea del 25 per cento. Analoga posizione di coda caratterizza la conoscenza della lingua inglese.
Il sistema di istruzione: l’università
Una situazione non positiva nel confronto europeo caratterizza il nostro Paese anche per quanto concerne l’istruzione terziaria: il sistema universitario. Il problema riguarda sia i numeri, sia la natura degli studi e della formazione superiore. La quota di laureati fra i giovani con età compresa fra i 25 e i 34 anni è pari nel nostro Paese a circa il 28 per cento, a fronte di una media europea superiore al 44 per cento. Nei Paesi del Nord Europa quasi 1 giovane su 2 è laureato (oltre il 49 per cento in Olanda e in Danimarca). Anche all’università si registra peraltro nel nostro Paese un tasso di abbandono fra i più elevati in Europa.
Sul fronte delle discipline, stime recenti dell’OCSE indicano come vi sia una significativa carenza di laureati nelle discipline tecniche e scientifiche. L’accelerazione nella diffusione del digitale generata dalla crisi pandemica accentuerà ulteriormente questo squilibrio fra domanda e offerta, in particolare in aree quali informatica, gestione dei dati, intelligenza artificiale e competenze digitali in genere. Anche in una regione ricca di università eccellenti in campo tecnologico come la Lombardia, i dati indicano un fenomeno di skill mismatch nell’area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Ciò significa che le imprese faticano a trovare laureati in ingegneria, scienze e informatica, in una situazione in cui il nostro Paese registra la quota più elevata di giovani che non lavorano e non studiano (i cosiddetti NEET) tra i Paesi UE: il 27,8 per cento rispetto alla media UE del 16,4 per cento.
In sintesi, occorre rafforzare gli incentivi per far sì che i giovani si impegnino in un percorso universitario, specie per ciò che concerne le discipline tecniche e scientifiche.
La ricerca scientifica
Legato al tema del sistema universitario vi è quello della ricerca scientifica. Anche su questo fronte, il nostro Paese soffre di un ritardo cronico rispetto agli altri Paesi europei. Come noto, in Italia la spesa complessiva in ricerca e sviluppo, pari all’1,4 per cento del PIL, è decisamente inferiore a quella media europea, pari a circa il 2 per cento. Nel nostro Paese la spesa pubblica in ricerca scientifica è pari a 150 euro per ogni cittadino a fronte dei 250 euro e 400 euro rispettivamente di Francia e Germania. Questo si riflette anche sul numero di ricercatori pubblici, pari a 75.000 in Italia contro i 110.000 e 160.000 di Francia e Germania.
Minori investimenti in ricerca non hanno solo un impatto sull’innovazione e sulla crescita potenziale della produttività, la quale risulta stagnante in Italia ormai da decenni, ma anche una penalizzazione sul fronte del capitale umano. Il nostro Paese si caratterizza infatti per un numero più contenuto di giovani impegnati nell’attività di ricerca scientifica, pur a fronte di una qualità molto elevata dei ricercatori italiani.
La comunità scientifica italiana, nonostante le incertezze che caratterizzano la carriera dei ricercatori e le remunerazioni relativamente ridotte di cui soffre nel confronto europeo, è infatti particolarmente produttiva. Essa produce il 5 per cento dei lavori mondiali con un numero di citazioni pari a circa l’1,4 per cento globale, un dato paragonabile a quella della Francia, che ha un numero di ricercatori decisamente superiore. Analogamente, i ricercatori italiani nel 2020 sono risultati primi nella classifica dei prestigiosi Consolidator Grants dell’European Research Council (ERC). Con 47 progetti vincitori, i ricercatori italiani hanno preceduto i colleghi tedeschi (45), francesi (27) e inglesi (24), a dimostrazione della qualità della comunità scientifica italiana. Tuttavia, nella classifica dei Paesi che ospitano i progetti, l’Italia è solo all’8° posto fra i Paesi europei. Questo significa che un numero elevato di ricercatori italiani vincitori di grant ERC svolgono la propria attività in Paesi al di fuori dell’Italia.
Con riferimento alle condizioni remunerative di coloro che svolgono attività di ricerca nel nostro Paese, è possibile fare riferimento ai quasi 6000 ricercatori che lavorano presso gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). Si tratta di medici, fisici, biologi, chimici, biotecnologi, ingegneri e statistici, tutte risorse estremamente qualificate che svolgono un’attività preziosa la cui rilevanza è emersa in modo chiaro durante la crisi pandemica. A fronte della produttività scientifica di cui sopra, quasi la metà di questi ricercatori sono in condizioni di precarietà, sovente da più anni, con una remunerazione che varia fra i 1200 e i 1600 euro netti al mese, decisamente inferiore a quanto questi stessi ricercatori ottengono se impiegati in altri Paesi europei, con l’inevitabile conseguenza esposta al punto successivo.
I flussi migratori
I flussi migratori rappresentano un ulteriore fattore che presenta un impatto evidente sul capitale umano. Un Paese capace di attirare giovani istruiti e qualificati ha un indubbio vantaggio sul fronte della quantità e qualità del capitale umano. Il nostro Paese non ha mai brillato su questo fronte, ma negli ultimi anni la situazione si è significativamente deteriorata, con un aumento importante dell’emigrazione registrato nell’ultimo decennio. I dati Istat mostrano che si tratta principalmente di giovani (età inferiore a 45 anni), con istruzione medio-alta (il 75 per cento sono diplomati e laureati), che emigrano in altri Paesi dell’Europa occidentale: Gran Bretagna, Germania, Francia e Svizzera sono i principali Paesi di sbocco.
Negli ultimi dieci anni il numero dei laureati che emigrano ogni anno è triplicato. Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, questi giovani provengono soprattutto dalle regioni settentrionali del Paese e sono in maggioranza laureati nelle discipline economiche, tecniche e scientifiche. Si tratta dunque di un’emigrazione qualificata che rappresenta una perdita rilevante per il nostro Paese: per le ingenti risorse investite nella loro formazione, per la perdita di capacità contributiva di questo capitale umano, per la perdita che il tessuto sociale registra a fronte di giovani istruiti che lasciano il Paese. Il problema non è tanto legato all’emigrazione di giovani italiani in un’Europa sempre più integrata, quanto piuttosto alla mancanza di un corrispondente flusso in ingresso. Il saldo netto per il nostro Paese è infatti negativo e ammonta a circa 70.000 persone all’anno.
Politiche pubbliche e interventi migliorativi
Volendo riassumere quanto illustrato finora, il nostro Paese si caratterizza per una popolazione che si contrae, con sempre meno giovani e una quota crescente di anziani e pensionati. Nel confronto con gli altri Paesi europei soffriamo di un basso numero di diplomati e laureati, della presenza di pochi ricercatori e di un numero elevato di giovani che emigrano verso altri Paesi europei alla ricerca di migliori opportunità. Questi fenomeni dipingono un’emergenza per il capitale umano in Italia e, più in generale, per lo sviluppo futuro del Paese. Occorre trasformare questa emergenza in una priorità per il Paese.
Quali misure e politiche adottare? Come spesso accade, esaminare le politiche adottate da altri Paesi che presentano dati migliori dei nostri offre importanti indicazioni e suggerimenti. Per quanto riguarda natalità e aiuti alle famiglie, la Francia è certamente un esempio virtuoso. Il Family Act approvato di recente dal governo italiano rappresenta un passo importante nella giusta direzione. In generale, potenziare gli strumenti di assistenza (asili nido, congedo parentale ecc.) e di agevolazione fiscale alle giovani coppie che desiderano avere figli rappresenta la strada maestra.
Sul fronte dell’istruzione secondaria, come proposto anche dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) presentato dal Governo italiano, andrebbero potenziate e maggiormente valorizzate le scuole che offrono percorsi formativi di tipo professionalizzante, gli istituti tecnici superiori (ITS) – oggi in Italia molto limitati – capaci di ridurre il fenomeno dell’abbandono scolastico e al contempo di rendere la formazione secondaria più vicina al mondo del lavoro. Parallelamente, andrebbero rafforzate, all’interno dei percorsi tradizionali dei licei e degli istituti superiori in genere, le competenze necessarie ad affrontare le nuove sfide della società e del lavoro: competenze digitali, linguistiche, informatiche ed economiche.
Sul fronte dell’istruzione universitaria, occorre rafforzare strumenti molto diffusi in altri Paesi europei, quali borse di studio, prestiti agevolati garantiti dallo Stato, e ancora residenze universitarie a tariffe agevolate, favorendo in questo modo la mobilità degli studenti verso le università più qualificate, esposte al mercato internazionale, e capaci di garantire tassi occupazione più elevati, quali sono per esempio i Politecnici e più in generale gli Atenei meglio posizionati nei ranking internazionali. Queste forme di incentivi andrebbero potenziate soprattutto per coloro i quali intendono affrontare un percorso di studi di natura tecnica e scientifica, in questo modo favorendo lo sviluppo di un’offerta di competenze che possa in futuro andare incontro a quella domanda del mercato del lavoro che oggi risulta insoddisfatta per via del fenomeno dello «skill mismatch».
Con riferimento alla ricerca scientifica, in Italia sono già stati introdotti meccanismi importanti di incentivazione fiscale che hanno favorito, nel recente passato, il rientro di ricercatori dall’estero e più in generale l’arrivo di scienziati da altri Paesi del mondo. Occorre proseguire lungo questa strada, potenziando questi meccanismi, favorendo la certezza dei percorsi di carriera, facendo sì che nelle università così come nei centri di ricerca e negli enti pubblici il tutto sia guidato da criteri puramente meritocratici. Parallelamente, occorre incrementare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo e gli incentivi fiscali a quelli privati, in questo modo allineandosi all’obiettivo europeo del 3 per cento sul PIL, e accrescere le remunerazioni di chi è impegnato in attività di ricerca scientifica, facendo sì che questa scelta di vita non debba essere vissuta come una missione e un sacrificio, e riducendo in questo modo gli incentivi a emigrare verso altri Paesi europei.
Infine, con riferimento al problema dei flussi migratori sarebbe importante prendere esempio da alcuni Paesi del Nord Europa, i quali hanno introdotto sistemi premianti e incentivi volti ad attirare giovani con un livello di istruzione elevato che provengono dall’estero. In Paesi come Olanda e Danimarca la quota di studenti stranieri nelle università supera il 12 per cento (inferiore al 6 per cento in Italia). Trattandosi di sistemi di istruzione terziaria finanziati dallo Stato, con rette nulle o limitate, si potrebbe pensare che i contribuenti di questi Paesi finanzino la formazione di giovani di altri Paesi, compresi numerosi italiani. In realtà, vi è piena consapevolezza dei vantaggi – legati ai futuri contributi fiscali, pensionistici e sociali – che derivano dagli stranieri che completano il percorso universitario e lavorano nel Paese.
In conclusione, il nostro Paese si trova ad affrontare un’emergenza, quella del capitale umano, che minaccia il futuro del mercato del lavoro, la sostenibilità del sistema fiscale e di quello pensionistico, la competitività delle imprese e più in generale la tenuta del sistema economico e sociale. È un’emergenza storicamente sottovalutata dalla politica: le politiche necessarie per affrontarla non producono benefici nel breve periodo, né pagano dal punto di vista elettorale. Pensare alle nuove generazioni e alla competitività del Paese è politicamente più difficile che distribuire fondi a famiglie e imprese. Occorre che il governo, spinto dall’occasione offerta da Next Generation EU, sappia guardare lontano e trasformare l’emergenza in una priorità.
In sintesi
- Il capitale umano rappresenta un fattore chiave per la competitività e lo sviluppo economico e sociale di un Paese. I fattori principali che determinano la qualità e la quantità di capitale umano sono rappresentati dalla curva demografica, dal sistema di istruzione, dalla spesa in ricerca e in generale dal sistema della ricerca scientifica, dalla capacità di un Paese di attrarre immigrazione qualificata dal resto del mondo.
- Nel confronto con gli altri Paesi europei, il nostro Paese si trova ad affrontare un’emergenza, quella del capitale umano, che minaccia il futuro del mercato del lavoro, la sostenibilità del sistema fiscale e di quello pensionistico, la competitività delle imprese e più in generale la tenuta del sistema economico e sociale.
- Per far fronte a tale emergenza bisognerebbe potenziare gli strumenti di assistenza e di agevolazione fiscale alle giovani coppie; ridurre il fenomeno dell’abbandono scolastico e rendere la formazione secondaria più vicina al mondo del lavoro; potenziare la mobilità degli studenti universitari verso le università più qualificate e introdurre incentivi per attrarre ricercatori da altri Paesi del mondo, aumentando al contempo le remunerazioni per quelli italiani.
Questo articolo riprende un contributo dell’autore al rapporto «Una visione lunga: oltre il tempo del Recovery Plan», a cura della Fondazione Res Publica.
«Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”», Rapporto per il Presidente del Consiglio dei Ministri, giugno 2020.