E&M

2021/3

Fabrizio Perretti

Americanismo e modelli manageriali

Dal secondo Dopoguerra a oggi, l’Europa ha sempre guardato con ammirazione e invidia alla grandezza americana, pensando che il divario con gli Stati Uniti si potesse colmare realizzando l’unione economica oppure importando modelli manageriali che sono spesso contenitori di ideologia più che di tecniche di organizzazione. Tuttavia, non è però sufficiente aumentare la dimensione dei mercati o importare acriticamente alcuni modelli. Sono infatti le istituzioni e le loro relazioni che fanno la differenza e alla base vi deve essere comunque un progetto condiviso. Una sfida che l’Europa – a differenza della Cina - non ha del tutto compreso

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I manager utilizzano nuovi modelli di gestione per affrontare i problemi che si presentano ogni volta che vi sono cambiamenti – nelle dimensioni e nella complessità delle imprese oppure nell’ambiente competitivo internazionale – che sfidano le pratiche correnti. Tali modelli non contengono solamente un insieme di tecniche di gestione, ma rappresentano anche l’espressione di una determinata ideologia organizzativa, sono cioè mappe cognitive della realtà sociale che influenzano la percezione e l’azione dei manager e che ne giustificano il potere e l’autorità[1]. Se è vero che i modelli manageriali non sono determinati solo da fattori economici e tecnologici, entrambi giocano però un ruolo fondamentale.  

I termini «americanismo» e «antiamericanismo» vengono usati per indicare le opposte reazioni provocate dall’influenza americana (la cosiddetta «americanizzazione»), facendo così acquisire agli Stati Uniti una valenza ideologica in quanto modello sociopolitico ed economico da imitare oppure da contrastare. Già con Tocqueville gli Stati Uniti diventano un riferimento di confronto obbligato: «In quale altro paese potremmo trovare maggiori speranze e più utili lezioni? Non volgiamo però i nostri sguardi verso l’America per copiare servilmente le istituzioni ch’essa si è data, ma per capire meglio quelle che convengono a noi, per attingerne insegnamenti più che esempi, per trarne i principi delle leggi piuttosto che i particolari»[2].

Se questo complesso gioco di rimandi fra le due sponde dell’Atlantico inizia dall’Ottocento, sarà però a partire dal primo decennio del Novecento – quando la produzione e la società di massa americane giungono a maturazione – che gli Stati Uniti si impongono all’attenzione europea. Taylorismo, fordismo, grande distribuzione, pubblicità, tempo libero, nuovi costumi e nuove mode hanno improvvisa visibilità in Europa. Nel 1929, in un’intervista a Corrado Alvaro, Luigi Pirandello afferma: «L’americanismo ci sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso laggiù. Il denaro che corre il mondo è americano e dietro al denaro corre il modo di vita e la cultura»[3]. Come evidenziato però da Gramsci,[4] l’americanismo non è soltanto una questione di mera ricchezza (di «denaro»), ma trova la sua espressione nel fordismo, ovvero in un tipo di capitalismo e di società a esso funzionale che – a differenza dei vecchi Stati europei, chiusi nei mercati nazionali e nelle loro gerarchie tradizionali – è capace di gestire in forme nuove un industrialismo che si muove ormai al di là dell’orizzonte dello Stato-nazione ed è in grado di garantire il proprio dominio. 

La sfida americana

I metodi industriali innovativi, l’efficienza tecnologica, i rapidi progressi in campo scientifico, il benessere diffuso rispetto agli standard europei non solo attirano un’attenzione, spesso ammirata, ma lanciano anche una sfida alla modernizzazione radicale. Si tratta di una sfida che diventa ancora più evidente dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un’Europa devastata e un America vittoriosa e trionfante che ne viene a soccorso, ma che si protrae anche nei decenni successivi. La sfida americana è infatti il titolo di un libro molto famoso e influente pubblicato dal politico e giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber nel 1967, che evidenzia fin dalle prime battute i termini del confronto: «La terza potenza industriale del mondo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, potrebbe essere, tra quindici anni, non già l’Europa, ma l’industria americana in Europa. Oggi, al nono anno del Mercato Comune, l’organizzazione di questo mercato europeo è essenzialmente americana»[5].

Secondo il segretario della difesa americana Robert McNamara – MBA alla Harvard Business School e già presidente della Ford Motor Company – tale situazione rifletteva non tanto un divario tecnologico, quanto un sostanziale ritardo dei Paesi europei nei mezzi di organizzazione: «Da qualche tempo gli europei chiamano questo abisso technological gap, i loro timori e le loro critiche si esprimono dicendo che stiamo accumulando nei loro confronti tale vantaggio nello sviluppo industriale da poter creare una nuova specie di colonialismo tecnologico. Non si tratta tanto di un gap tecnologico quanto di un gap di management cioè di gestione, e se tanti scienziati europei emigrano negli Stati Uniti non è soltanto perché possediamo una tecnologia più avanzata ma soprattutto perché abbiamo metodi di lavoro e di management più moderni e più efficaci». Se la supremazia degli Stati Uniti si fondava su tali fattori, allora la soluzione per ridurne il divario consisteva nell’introduzione e diffusione dei modelli manageriali americani anche nel contesto europeo.

Il contesto europeo

In Europa, già negli anni Cinquanta si era sedimentato un atteggiamento d’ottimistica e talora acritica accettazione dei modelli americani e lo sviluppo della management education nei diversi Paesi aveva comportato, in forme e gradi diversi, effetti di standardizzazione dei modelli teorici e istituzionali[6]. Nonostante le differenze con l’America, impegnarsi nel perseguimento della produttività significava comunque accettare una buona parte degli ideali manageriali americani. Per alcuni era però altrettanto evidente che le pressioni omologanti del management statunitense e il tentativo di vendere all’Europa la più recente rivoluzione industriale americana non tenevano conto delle diversità della struttura sociale e politica dei diversi contesti. Nel giugno 1953, in una lettera aperta pubblicata sulla rivista World, Adriano Olivetti scriveva che «l’Europa per sollevarsi ha bisogno di nuove idee, non di applicare bene o male quello che è stato fatto in America». In questa affermazione si rifletteva in parte anche la contrapposizione della visione olivettiana rispetto all’impostazione fordista-taylorista di Vittorio Valletta in FIAT. Per lungo tempo i capi d’industria americani avevano infatti creduto di possedere il segreto del rendimento con i cronometri e le norme di lavoro di Taylor, abbracciando cioè i modelli del cosiddetto «management scientifico». In seguito, avevano però compreso che gli obiettivi di produttività non potevano che essere raggiunti se non tramite una più intelligente partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale, secondo quanto indicato dai nuovi modelli sulle «relazioni umane».

In Europa, mentre alcuni Paesi come la Germania e la Svezia adotteranno l’impostazione delle human relation, sviluppandola però a nuovi livelli (in cui la partecipazione dei lavoratori si riflette anche a livello di direzione dell’impresa), e quindi nettamente distinti e originali rispetto all’esperienza americana, in altri Paesi come l’Italia prevarrà invece per lungo tempo l’impostazione di retroguardia dello scientific management e la posizione olivettiana verrà infatti considerata una visione utopistica che si esaurirà con la morte del suo fondatore (1960) e con il declino dell’impresa che aveva creato.

Nel corso degli anni Settanta, anche a seguito del dibattito sul managerial gap aperto dal libro di Servan-Schreiber, l’interazione tra istituzioni europee e istituzioni statunitensi prosegue all’insegna di uno sviluppo di forme di cooperazione concorrenziale. La mancanza di un modello originale europeo era infatti percepita in maniera ancora più netta della mancanza di una individualità tecnologica. La crisi economica e industriale degli Stati Uniti in questo periodo ne mette infatti in discussione i modelli manageriali a fondamento. Il corrispondente successo delle imprese tedesche e giapponesi contribuisce anch’esso al cosiddetto «crollo del misticismo del management americano»[7]. I dubbi sull’abilità manageriale degli Stati Uniti sono sorti prima e più intensamente in America che in Europa. Dal documentario della NBC del 1979, «Se il Giappone può, perché noi non possiamo?», fino al numero speciale di Business Week del 1980, «La reindustrializzazione dell’America», passando per gli innumerevoli articoli sul management giapponese, diffusi negli anni Ottanta su riviste specializzate come Quality Progress, accademiche come Harvard Business Review o popolari come Fortune, la critica delle capacità manageriali americane ha guadagnato forza.

All’Europa, oltre alle specifiche tecniche manageriali, l’esperienza giapponese ribadisce che lo sviluppo economico è compatibile con una vasta gamma di istituzioni sociali e comportamenti individuali, anche lontani dal modello americano. Più che a imitare le sue strutture, il Giappone invita cioè ad ammettere un relativismo culturale che consente a ciascun Paese di radicare nella propria storia i vincoli economici dell’industrializzazione e del progresso. Anche l’Italia, con lo sviluppo dei suoi distretti industriali, contribuisce alla formazione di modelli manageriali originali ed emergenti che si pongono all’attenzione mondiale[8].

L’impero colpisce ancora

È indubbio che modelli manageriali alternativi a quelli americani abbiano avuto successo, ma questi si sono affermati soprattutto in un ambito industriale. Sia nel caso della produzione flessibile o del Total-Quality-Management, le diverse varianti europee o giapponesi hanno cioè offerto soluzioni diverse e originali al tema della produzione di massa così come originariamente teorizzato e praticato negli Stati Uniti, senza però – per così dire – «essersi mosse dal mondo della fabbrica». Non hanno cioè compreso che la sfida americana non si giocava tanto sulla produzione di massa e sui metodi migliori con cui gestirla, quanto sul capitalismo e sulle istituzioni che ne erano a fondamento. Come esemplificato da un manager americano già alla fine degli anni Sessanta: «Se un dirigente tedesco vuole aumentare la sua produzione prende in considerazione l’insieme dei fattori che entrano in gioco per arrivare a fabbricare il suo prodotto. Ma se io devo accrescere la mia produzione, alle stesse operazioni aggiungo i nostri studi e le previsioni di mercato in modo da sapere non solamente come produrre, ma in che modo produrre la quantità voluta al costo minore. Quello che interessa a me è il mio margine di profitto, quello che interessa al mio concorrente europeo è una fabbrica che funzioni. Non è la stessa cosa»[9].

In questa affermazione si coglie l’essenza del divario tra chi guarda alla fabbrica e al suo migliore funzionamento e chi guarda al mercato e ai profitti e non ha alcun problema ad abbandonare la prima, lasciandone ad altri la gestione e anche lo sviluppo dei modelli manageriali più consoni, per rivolgere le proprie attenzioni allo sviluppo di nuove tecnologie che consentano la creazione di nuovi mercati e di nuove opportunità di profitto. I modelli alternativi hanno cioè perfezionato tecniche per un contesto industriale che perdeva importanza strategica e che l’America ha progressivamente abbandonato a favore di settori con prospettive – non solo economiche – di gran lunga superiori, fondati cioè sulla conoscenza applicata a nuove tecnologie (come internet, la ricerca farmaceutica o le biotecnologie) o a nuovi contenuti (dal software alle serie tv). Ed è da questi contesti che provengono gli attuali modelli manageriali dominanti e sono ancora una volta gli Stati Uniti a presidiarli e a diffonderli con imprese come Apple, Google, Facebook, Amazon o Netflix che ne costituiscono i punti di origine e di riferimento; ed è sempre dalla società americana che provengono modelli manageriali che pongono l’attenzione sulla responsabilità sociale dell’impresa (si pensi al fenomeno delle B Corp) o sul rispetto della diversità e sull’inclusione (si pensi al tema delle donne o del mondo LGBTQ). Anche in questo caso, l’Europa – nonostante i progressi storici e l’innegabile vantaggio temporale nell’affrontare alcuni di questi temi – continua a importare il discorso manageriale e i relativi modelli sempre dagli Stati Uniti. 

A ben guardarli, alcuni di questi modelli manageriali dominanti non sono poi così nuovi o originali, ma costituiscono di fatto l’innesto e la compresenza di modelli storicamente noti. Da un lato, con la partecipazione attiva dei lavoratori ai processi immateriali di produzione della conoscenza in contesti organizzativi orizzontali con pochi livelli gerarchici, o con il lavoro flessibile all’interno di imprese/campus totalizzanti che provvedono ai diversi bisogni dei propri dipendenti, vi è il ricorso ad alcuni principi dei modelli delle «relazioni umane»; dall’altro lato, nei processi materiali di produzione e distribuzione, vi è invece il ricorso alle tecniche e ai modelli del «management scientifico», fondati cioè su tempi cronometrati e su attività controllate da algoritmi, in quello che è di fatto un nuovo taylorismo digitale. Indipendentemente dai loro contenuti, i modelli americani risultano ancora dominanti e – riprendendo Gramsci – potremmo quindi affermare che l’egemonia di questi è strettamente collegata alla nazione che detiene il potere politico ed economico su scala globale. Non è detto che gli Stati Uniti lo saranno anche in futuro e qualcuno sta guardando alla Cina come una possibile fonte di ulteriori sviluppi[10], dove imprese come Haier sono già assurte a riferimento globale[11].

Il sogno europeo

Se lo sviluppo e l’affermazione di modelli manageriali sono strettamente connessi alle dinamiche economiche globali con riferimento soprattutto ai settori più avanzati, è opportuno chiedersi quale ruolo e futuro possa avere l’Europa su questo fronte e se vi siano le condizioni per un pensiero europeo originale. Di certo abbiamo recuperato il managerial gap nei confronti degli Stati Uniti. Tra i cosiddetti management intellectuals, rappresentati da coloro che creano, interpretano e diffondono la conoscenza manageriale (per esempio le business school, i guru del management, le società di consulenza ecc.), ed i management practitioners, ovvero coloro che utilizzano tali conoscenze nelle imprese e nelle organizzazioni, ormai prevale un discorso manageriale globale ispirato dagli Stati Uniti. Studenti di management di tutto il mondo studiano sugli stessi manuali e analizzano gli stessi casi aziendali.

Pur condividendo le stesse idee e gli stessi concetti, l’Europa non ha però colmato il divario con gli Stati Uniti, soprattutto in diversi settori avanzati, come per esempio le piattaforme web o i social media, da cui è praticamente assente. Di sicuro – come ricordato anche nel Focus di questo numero dall’articolo di Andrea Sironi – investire nelle persone è fondamentale e le differenze con gli Stati Uniti sono, in diversi Paesi europei, ancora evidenti. Il problema è che oltre alla formazione e allo sviluppo è anche necessario lo sfruttamento dell’intelligenza. Il fatto che alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, continuino a rimanere tra i principali esportatori di intelligenza nel mondo è un problema ed è quindi necessario intervenire sulla cosiddetta «fuga dei cervelli». È però anche opportuno rivedere la premessa che ha ampiamente orientato il pensiero europeo, cioè che il divario con gli Stati Uniti dipendesse principalmente da un iato di conoscenze manageriali. Una volta colmato quest’ultimo, l’Europa ha infatti continuato a mantenere il primo e l’importazione acritica dei modelli manageriali americani ha in parte contribuito a tale situazione. La retorica manageriale americana fondata sul mercato e sulla libera impresa, non soltanto tenuta lontana dallo Stato ma in lotta con esso, è infatti ben lontana dalla realtà.  Al contrario, già nel 1967 John Kenneth Galbraith descrive l’importanza di un formidabile complesso integrato – la «tecnostruttura» – la cui combinazione si realizza nelle decisioni prese in comune dall’Amministrazione americana, dalle grandi imprese e dalle università attraverso un rapporto di cross-fertilization, e dall’associazione di fattori di produzione che causano un rinnovamento costante nella creazione industriale.[12]

L’Europa ha guardato con ammirazione e invidia alla grandezza americana, pensando che il divario con gli Stati Uniti si potesse colmare realizzando l’unione economica oppure importando modelli manageriali che sono spesso contenitori di ideologia più che di tecniche di organizzazione. Come si è potuto osservare, non è però sufficiente aumentare la dimensione dei mercati o importare acriticamente alcuni modelli. Sono infatti le istituzioni e le loro relazioni che fanno la differenza e alla base vi deve essere comunque un progetto condiviso. Questa è stata la vera sfida americana che l’Europa – a differenza della Cina - non ha del tutto compreso.

Gli Stati Uniti hanno avuto l’american dream e oggi si parla di «sogno cinese». Che cosa sogna invece l’Europa? A tratti sembra che l’Europa abbia smesso di sognare e che – sempre in ottica gramsciana – al pessimismo della ragione (o delle esperienze passate) non sia in grado di contrapporre l’ottimismo della volontà. Altre volte, invece, sembra che l’Europa si sia addormentata con il sogno degli Stati Uniti. Appropriarsi dei sogni altrui senza comprenderne la vera natura è però rischioso. Forse è arrivato il momento di risvegliarsi e avere di nuovo il coraggio di guardare la realtà specifica e di elaborare modelli originali che la rappresentino. 

 

Il Dossier di questo numero – di cui questo lungo editoriale è anch’esso parte – è dedicato agli Stati Uniti, da una prospettiva però europea. Il tentativo è quello di comprenderne il ruolo geopolitico e culturale che l’America eserciterà in futuro, anche alla luce della nuova presidenza, e l’importanza dei suoi mercati. Le nostre imprese, infatti, spesso guardano alla Cina, quasi ignorando le opportunità che il mercato americano offre, oppure pensano – erroneamente – che la nostra vicinanza culturale renda le cose molto semplici, quando invece gli Stati Uniti richiedono impegno e opportune strategie. È anche su questo livello che si pone la sfida americana. Come già evidenziato da Servan-Schreiber, dobbiamo soltanto capirla, delimitarla, studiarla. Buona lettura!

 

 

 

 

 

19

Si veda M.F. Guillén, Models of Management: Work, Authority, and Organization in a Comparative Perspective, Chicago, University of Chicago Press, 1994.

20

A. de Tocqueville, La democrazia in America, Torino, Utet, 1968, pp. 10-11.

21

C. Alvaro, «Pirandello parla della Germania, del cinema sonoro e di altre cose», L’Italia letteraria, 14 aprile 1929.

22

A. Gramsci, «Americanismo e fordismo», Quaderni del carcere. Vol. III, Torino, Utet, 1975.

23

J-J. Servan-Schreiber, La sfida americana, Milano, Etas Kompass, 1968.

24

Si veda G. Gemelli, Scuole di management: origini e primi sviluppi delle business schools in Italia, Bologna, il Mulino, 1997.

25

Si veda R.R. Locke, The Collapse of the American Management Mystique, Oxford, Oxford University Press, 1996.

26

Si veda M.J. Piore, C.F. Sabel, The Second Industrial Divide: Possibilities for Prosperity, New York, Basic Books, 1984.

27

Tratto da J-J. Servan-Screiber, La sfida americana, Milano, Etas Kompass, 1968, p. 7.

28

Si vedano per esempio: T. Hout, D. Michael, «A Chinese Approach to Management», Harvard Business Review, settembre 2014, pp. 103-107; K.A. Whitler, «What Western Marketers Can Learn from China», Harvard Business Review, maggio-giugno 2019, pp. 74-82.

29

Si veda per esempio G. Hamel, M. Zanini, «The End of Bureaucracy. How a Chinese Appliance Maker is Reinventing Management for the Digital Age», Harvard Business Review, novembre-dicembre 2018, pp. 50-59.

30

Sull’attualità del concetto di tecnostruttura si veda B. Baudry, A. Chirat, «John Kenneth Galbraith et l’évolution des structures économiques du capitalisme: d’une théorie de l’entrepreneur à une théorie de la grande entreprise?», Revue économique, 69(1), 2018, pp. 159-187.