E&M
2019/1
Indice
Dossier: Quale Europa?
Dossier: Scenario politico-istituzionale
Brexit: il danno è già stato fatto
Dossier: Capitali e mercati
L’Unione Bancaria e il coraggio della crescita
Mercato finanziario unico, un passaggio cruciale
Dossier: Imprese, persone e territori
I diritti del lavoro non possono aspettare
La tutela del consumatore è un successo (anche) europeo
Visual readings
Focus: Imprese e fonti di finanziamento
Speciale 30 anni di Economia & Management
La cultura aziendale e i rischi dei culture decks
L’obiettivo? Rendere i contesti meno ambigui e ridurre l’incertezza, non l’opposto
L’importanza della cultura nelle imprese e nelle organizzazioni è ormai consolidata nella riflessione e nella pratica manageriale, così come il gran numero di definizioni che di essa sono state formulate nel tempo. In termini generali, da un punto di vista antropologico e sociologico, la cultura rappresenta l’insieme di valori, norme, modelli di comportamento, linguaggi e tecniche che definiscono una formazione sociale, sia essa un gruppo, un’organizzazione o una nazione. La cultura è quell’insieme di elementi eterogenei che compongono il patrimonio (non solo) intellettuale di tali formazioni, la cui conoscenza e la cui osservanza definiscono le condizioni di appartenenza e di esclusione dei suoi membri (individuando cioè i «noi» rispetto agli «altri») e, nello stesso tempo e nelle diverse situazioni sociali, provvedono da un lato a soddisfare i bisogni di orientamento dell’individuo, dall’altro a coordinare e integrare le sue azioni con quelle degli altri [1].
In termini manageriali e organizzativi ritroviamo, a partire dai primi studi sul tema, la stessa concezione. Si definisce infatti cultura aziendale «il modo di pensare e di fare cose, che è condiviso in misura minore o maggiore da tutti i suoi membri e che ciascuno di essi deve imparare, o almeno accettare parzialmente, se vuole essere assunto dall’impresa»[2]. Un’azienda «che si identifica in un modello culturale, e quindi in un insieme di valori e conoscenze condivise, riconosce in base a questo i propri membri e considera “stranieri” o comunque diversi ed estranei, coloro che hanno altri modelli»[3]. In tal senso, se cultura significa possedere un insieme relativamente stabile di assunti, valori, significati condivisi che danno forma e plasmano un particolare modello di comportamento organizzativo, questo pone alla personalità degli individui che vi sono esposti complessi problemi di adattamento e di funzionamento:
per coloro che fanno parte dell’impresa da un certo periodo di tempo la cultura costituisce una seconda natura, l’ignoranza della cultura contraddistingue invece i nuovi assunti, mentre sono riconosciuti come disadattati (maladjusted) coloro i quali rifiutano o non sono in grado di fare uso della cultura aziendale[4].
La cultura, coerentemente con la sua etimologia (dal latino colere, ovvero coltivare), indica però un processo di acquisizione e di sviluppo graduale di alcune facoltà attraverso l’educazione, l’esperienza e l’influenza dell’ambiente. Ogni cultura, al di là della metafora agricola, si apprende cioè solo osservando ciò che in realtà gli individui dicono e fanno, come reagiscono in certe situazioni, quali procedimenti seguono per realizzare certi scopi. Se l’accettazione di una determinata cultura aziendale rappresenta la condizione di assunzione dei nuovi membri si pone allora un’apparente contraddizione: come posso accettare e condividere a priori una cultura se prima non l’ho appresa, osservandola e facendone esperienza? La stessa posizione la si ritrova anche dal lato aziendale: come posso selezionare i diversi candidati evitando di assumere dei potenziali «disadattati», con relative disfunzionalità e insoddisfazioni da parte di entrambi? Esiste quindi un problema di asimmetria informativa che diventa molto difficile risolvere ex ante.
Come in tutti i casi di beni culturali esperienziali (per esempio, un libro o un film) il cui valore può essere valutato appieno solo dopo il consumo, una delle possibili soluzioni è quella di fornire alcune informazioni (per esempio, la descrizione della trama e un breve estratto nel risvolto di copertina di un libro o il trailer nel caso di un film) che possano fungere da elemento segnaletico dell’esperienza futura attesa. Una soluzione analoga è stata adottata da diverse imprese: quella cioè di esplicitare nei confronti dei potenziali candidati o dei nuovi membri dell’organizzazione le principali componenti e linee guida rappresentative della specifica cultura aziendale in slides o documenti ufficiali, che vengono definiti culture decks.
Uno degli esempi più citati a riguardo, e su cui vorrei soffermarmi, è quello di Netflix, che fin dal 2009 ha pubblicato il proprio culture deck aziendale, definito da Sheryl Sandberg (COO di Facebook) «probabilmente il miglior documento che sia stato prodotto nella Silicon Valley»[5] e considerato, da numerose imprese e dalla pubblicistica manageriale[6], un modello di riferimento.
Dalla lettura del documento, che è disponibile online sul sito di Netflix[7], emergono alcuni elementi interessanti. Il primo è, innanzitutto, la lunghezza. Condensare in poche parole una cultura aziendale è infatti molto difficile. Diventa quindi necessario dedicarvi ampio spazio (125 slides nella versione originale, circa dieci pagine nella versione online). Il secondo è l’ambiguità di molte componenti e la contraddizione interna che spesso le distingue. Al di là di alcuni requisiti scontati (la capacità di lavorare in gruppo e di interagire con persone di diverse culture) che sono descritti in modo chiaro ma che, nel caso di realtà multinazionali e globali, rappresentano quella che potremmo definire la posateria standard, viene descritto un contesto composto da persone molto brave, che sono o che aspirano tutte a essere extraordinary, stars e role models nelle rispettive posizioni, dove ai candidati e ai neo-assunti viene richiesta indipendenza nelle decisioni: ci si aspetta che questi ultimi non solo non chiedano di continuo consigli a superiori, ma anche che agiscano in maniera autonoma, senza preoccuparsi ogni volta di ciò che gli altri si attendono da loro o di ciò che farebbero al loro posto.
Se da una parte si afferma così la necessità di essere o di diventare punti di riferimento, che fungano da esempi e modelli di comportamento per gli altri, dall’altra si nega esattamente la funzione di tale ruolo, incoraggiando le persone a essere totalmente indipendenti, affidandosi al buon senso[8] e all’interesse dell’azienda[9], assumendosi dei rischi (a patto che siano smart) e senza aver paura di commettere errori. Si tratta di espressioni generiche quanto ambigue. Innanzitutto perché il «buon senso» e la «saggezza» non rappresentano criteri universali a prescindere dal contesto e dagli interessi di una specifica formazione sociale, sono anzi una delle caratteristiche di una specifica cultura. È la singola cultura infatti che definisce che cosa si deve considerare come saggio o di buon senso. Inoltre, anche se gli errori sono ammessi (ma non esiste cultura che non li ammetta), la tolleranza verso di essi all’interno di un’organizzazione ha sempre un limite in termini di gravità o numerosità.
Quello che nelle intenzioni dovrebbe essere un documento sulla cultura aziendale, si limita a descrivere un contesto di high performance individuals, in cui è richiesto un carico di lavoro elevato («You accomplish amazing amounts of important work»[10]) e risultati altrettanto elevati e costanti («You demonstrate consistently strong performance»[11]) e in cui non ci sono regole («Avoid rules»[12]), negando nei suoi contenuti il concetto stesso di cultura che dovrebbe esserne a fondamento. Una cultura che non definisce regole e modelli di comportamento non può infatti definirsi tale e non può nemmeno fondarsi sulla regola di non avere regole. La cultura dovrebbe inoltre servire a rendere i contesti meno ambigui e a ridurre l’incertezza dei comportamenti richiesti, non l’opposto.
Il documento, più che esplicitare una cultura, descrive invece un contesto di elevata ambiguità e incertezza, senza fornire di fatto linee guida. Anche se si comprendono le caratteristiche di tale contesto, non avendo indicazioni ex ante per individuare quali comportamenti assumere non se ne può quindi capire la cultura. Nel denunciare la vaghezza di documenti simili, il culture deck di Netflix non risulta immune dagli stessi vizi e, nel momento in cui afferma che di fatto la cultura di un’azienda si rivela osservando le persone che vengono promosse e quelle che invece la abbandonano[13], conferma non solo la difficoltà di esplicitare in un documento la propria cultura aziendale, ma come tale tentativo possa ottenere anche risultati controproducenti[14] per cui, in assenza di regole e modelli di comportamento e con un focus sui risultati («You focus on results over process»[15]), la competizione interna rischia di rendere ciascuno straniero rispetto ai suoi colleghi. Esattamente l’opposto di quello che dovrebbe caratterizzare una cultura aziendale condivisa.
Si tratta di un rischio che non riguarda solo alcune aziende, ma anche la stessa Europa – cui è dedicato il dossier di questo numero – ovvero di non distruggere, bensì di riscoprire una cultura europea condivisa che non renda ciascuna nazione straniera nella propria casa comune. Buona lettura!
P. McCord, «How Netflix reinvented HR», Harvard Business Review, January-February 2014, pp. 71-76; P. McCord, Powerful: Building a Culture of Freedom and Responsibility, Silicon Guild, 2018; B. Putter, Culture Decks Decoded: Transform Your Culture into a Visible, Conscious and Tangible Asset, CCF Publishing, 2018.
«You make wise decisions despite ambiguity» («Prendi decisioni sagge anche in situazioni di ambiguità»); «’Use good judgment’ is our core precept» («“Usa il buon senso” è il nostro motto»).
Per esempio quando si afferma «You seek what is best for Netflix, rather than what is best for yourself or your group» («Cerchi di fare ciò che è meglio per Netflix, anziché per te stesso o il tuo gruppo») oppure «You say what you think, when it’s in the best interest of Netflix, even if it is uncomfortable» («Dici ciò che pensi anche se è scomodo, quando è nell’interesse di Netflix») e anche «You care intensely about our members and Netflix‘s success» («Hai profondamente a cuore il successo di Netflix e dei suoi membri»).
«Many companies have value statements, but often these written values are vague and ignored. The real values of a firm are shown by who gets rewarded or let go» («Molte aziende hanno carte dei valori, ma spesso questi valori messi nero su bianco sono vaghi e vengono ignorati. I veri valori di un’impresa sono resi evidenti nel momento in cui si sceglie chi premiare o lasciar andare»).