E&M

2017/1

Guido Corbetta

Gli accademici possono essere bravi consulenti?

Una riflessione su come università e ricercatori possono produrre conoscenza che sia rilevante per le aziende

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Il tema del rapporto, per un accademico, tra attività di ricerca e attività di consulenza sta assumendo contorni nuovi, certamente per gli aziendalisti italiani e forse non solo. Ma prima di addentrarci nelle domande che caratterizzano i nuovi scenari, è cruciale chiarire i fondamenti di tale rapporto. *

Per riprendere un termine oggi diffuso, è bene che si crei una sorta di «economia circolare»: un accademico deve fare ricerca per raggiungere risultati scientificamente documentabili, per poi poter trasmettere la conoscenza così acquisita a studenti di vari ordini (da ragazzi e ragazze del primo anno di università, agli MBA, ai manager). Ma queste persone lavorano o lavoreranno in aziende, per cui è bene che la conoscenza che viene loro trasmessa sia utile per svolgere al meglio i propri compiti dentro tali aziende. Quindi, l’accademico deve impegnarsi per assicurarsi che la ricerca che produce risponda all’obiettivo della rilevanza per le aziende. 

Senza un mutuo scambio con le aziende in merito ai contenuti della propria ricerca, l’accademico non riesce a sviluppare una ricerca che porti poi a risultati utili agli studenti. A rigore, lo scambio con le aziende potrebbe avvenire anche senza una formale attività di consulenza; ma un impegno remunerato per contribuire a risolvere i problemi di un’azienda consente, da un certo punto di vista, di maturare un’approfondita capacità di portare avanti un’analisi e una diagnosi di temi e problemi aziendali, nonché di proporre e applicare soluzioni concrete.

Per precisione scientifica, va detto che qualche collega ha testato, con risultati incoraggianti, gli impatti positivi della presenza dei professori nei consigli di amministrazione sulle performance dell’azienda[1], ma non sono ancora state svolte ricerche sistematiche sull’impatto dei professori come consulenti.

Se queste sono per così dire le basi di partenza, non è irrilevante, a questo punto, porsi le seguenti domande: quali contributi un accademico aziendalista può fornire, in astratto, a un imprenditore o a un manager? Come stanno evolvendo la ricerca e il contesto degli attori che svolgono servizi per le imprese, e quali implicazioni ha tale evoluzione sulla relazione tra ricerca aziendalistica accademica e consulenza? Ciò premesso, può un accademico aziendalista, oggi e in futuro, essere un buon consulente?

Alla prima domanda si può rispondere citando almeno tre contributi che un accademico può fornire quando viene chiamato da un imprenditore o da un manager a svolgere attività di consiglio, consulenza:

· una conoscenza aggiornata. Se un accademico fa bene il suo lavoro di ricercatore dovrebbe essere in grado di fornire ai gestori delle aziende le conoscenze più aggiornate sviluppate dalla comunità dei ricercatori su un determinato problema o in una determinata area;

· una conoscenza vasta. Un accademico che abbia deciso di occuparsi di un determinato tema dovrebbe avere la possibilità di venire a conoscenza di un numero maggiore di casi aziendali da comparare con quello oggetto della consulenza. Ciò può avvenire perché i contributi di altri colleghi, i casi aziendali, la stessa attività di docenza svolta per imprenditori e manager consentono di accumulare un portafoglio di esperienze e conoscenze più ampio di quello proprio di un consulente non accademico;

· una conoscenza sedimentata. Un accademico, a differenza di un consulente che non svolga anche attività di ricerca, dovrebbe avere il tempo per inquadrare con maggiore sistematicità le conoscenze. Questa sedimentazione della conoscenza dovrebbe consentire di offrire ai gestori delle aziende una conoscenza più approfondita e meno guidata dalle mode.

Per usare le parole di Jim March, potremmo dire che un accademico impegnato in attività di consulenza potrebbe unire al meglio «experiential knowledge [] derived from practical experience» e «academic knowledge [] derived from scholarship»[2]. Ovviamente nulla è scontato e l’unione dipende dalla serietà del lavoro che il singolo accademico è in grado di svolgere.

Quindi, almeno in linea teorica, non ci sono (o non c’erano) ostacoli a che un valido accademico possa anche svolgere attività di consulenza utile alle aziende. 

Ma veniamo alla seconda domanda, su come sta cambiando il contesto della ricerca e della consulenza. Come noto, oggi stanno andando in pensione gli ultimi aziendalisti «tradizionali», e ci sono una generazione di mezzo composta da molti colleghi che devono «destreggiarsi» per gestire la tensione tra vecchi e nuovi modelli di ricerca e una nuova generazione (oggi ricercatori o assistant professor e associati) che svolge la ricerca accademica con strumenti e su contenuti diversi dai colleghi delle generazioni precedenti. Il fatto che questi nuovi ricercatori siano assunti in massima parte solo dopo un’esperienza di ricerca all’estero – scelta corretta in un’ottica di internazionalizzazione delle università – ha interrotto un naturale meccanismo, che facilitava il trasferimento di conoscenze e contatti con le aziende: l’affiancamento, implicito o esplicito, di giovani docenti junior in house a docenti practitioners senior.

Numerosi accademici delle nuove generazioni non sembrano primariamente interessati alla «circolarità» cui si accennava all’inizio. Qualcuno, fortunatamente un numero limitato, perché palesemente non è interessato al bene degli studenti e, più in generale, al mondo circostante. Un simile comportamento, al di là di valutazioni etiche, si rivela inefficiente perché un maggior interesse per la rilevanza porterebbe – a parità di sforzo scientifico – a creare molto più valore per la società. Vari ricercatori invece hanno ben presente il tema, ma ritengono, forse con qualche schematismo di troppo, che sia impossibile «servire due padroni»: il numero di citazioni e la rilevanza tra le aziende. E credono che, anzi, preoccuparsi troppo della rilevanza possa portare a ridurre la qualità della propria ricerca, per cui non dedicano energie a cercare di tradurre le proprie ricerche in conoscenze utili per i gestori delle aziende. Infine, un buon numero di accademici delle nuove generazioni, alcuni dei quali molto riconosciuti nella comunità scientifica anche internazionale, pur avendo frequentato corsi di PhD orientati alla ricerca, manifesta un non superficiale interesse a che le proprie ricerche possano avere anche una qualche utilità per le aziende.

Mentre il mondo accademico si dibatte in queste dinamiche, il mondo della consulenza sta cambiando. In sintesi:

· le società di revisione, ormai veri e propri colossi multinazionali, stanno monopolizzando lo sviluppo di nuova conoscenza nelle aree dell’accounting e della finanza aziendale;

· le società di consulenza informatica e nelle operations, complice anche una certa difficoltà dei ricercatori di tali aree a sviluppare conoscenza di qualità elevata, sono i punti di riferimento esclusivi per le aziende;

· anche le società di consulenza strategica e organizzativa stanno lavorando alacremente per svolgere ricerca innovativa, ma in questi campi forse è ancora possibile che una ricerca di qualità svolta nelle università possa sviluppare contenuti utili alle imprese. Solo a titolo di esempio, posso fare riferimento a uno studio di tre colleghi tedeschi pubblicato sullo Strategic Management Journal riguardo alle modalità per migliorare le performance delle acquisizioni[3]. Ho riportato le conclusioni della ricerca all’imprenditore dell’azienda italiana che ha fatto più acquisizioni nell’ultimo decennio e questi, con mio grande piacere, ha voluto immediatamente conoscere i riferimenti dell’articolo e ha chiesto a un assistente di recuperarlo.

A questo punto, quale può essere la risposta alla domanda di fondo: gli accademici aziendalisti possono essere bravi consulenti?

Per qualche disciplina aziendalistica vedo chiudersi ogni spazio; per qualche altra, vedo più possibilità. Ora si tratta di capire se le università e gli accademici vogliono provare a mantenere e sviluppare quella sorta di percorso «circolare» cui si è fatto riferimento come elemento fondante.

Le università, a mio avviso, hanno tutto l’interesse a mantenere una varietà di profili all’interno della propria faculty. Ma, come mi scriveva un giovane ricercatore, non è solo un problema di preferenze individuali. Tanti giovani sensibili agli aspetti applicati delle loro ricerche e interessati al dialogo attivo con le aziende non riescono a trovare gli spazi giusti o, ancora più semplicemente, non sanno come iniziare a «comunicare» con le aziende.

Un giovane ricercatore che ha trascorso quattro-otto anni all’estero spesso torna in Italia con tanti contatti accademici, ma per forza di cose con pochissimi contatti legati alle aziende e al territorio. Ci si deve porre quindi il tema di come avvicinare questi giovani ai problemi concreti delle aziende e di come coltivare i loro interessi in questa direzione. Un luogo naturale per stabilire i primi contatti con le aziende potrebbero essere le business school. Occorre poi forse pensare a una revisione degli incentivi per far sì che per un accademico, soprattutto per coloro che non hanno ancora raggiunto il massimo livello della carriera, sia possibile e motivante provare a tradurre la propria ricerca in conoscenza utile per le aziende. Senza pretesa di completezza, ritengo che un primo intervento possa riguardare la modifica della valutazione delle performance di un ricercatore, introducendo elementi che considerino la rilevanza delle ricerche condotte. La scrittura di casi aziendali, la presenza a convegni di comunità di practitioners, attività di docenza a imprenditori e manager, interventi di consulenza a primarie aziende dovrebbero diventare parte dei processi di valutazione di un candidato aziendalista a posizioni di prima fascia.

Gli accademici interessati alla «circolarità» del loro sviluppo, dal canto loro, potrebbero seguire qualche consiglio come quelli che i nostri Maestri ci hanno tramandato e che provo a riassumere, in modo magari poco elegante ma spero efficace: fai qualche consulenza ma non troppa, fai consulenza per aziende che possano insegnarti qualcosa, fai consulenza insieme a qualche consulente che abbia voglia di fondare le proprie proposte su basi solide.  

1

L’articolo trae spunto dalla relazione tenuta al Workshop in onore del professor Giuseppe Airoldi presso l’Università Bocconi il 7 ottobre 2016.

2

B. Francis, I. Hasan, Q. Wu, «Professors in the Boardroom and Their Impact on Corporate Governance and Firm Performance», Financial Management, 44(3), 2013, pp. 547-81.

3

M. Augier, J.G. March, «The Pursuit of Relevance in Management Education», California Management Review, 49(3), 2007, pp. 129-46.

4

A. Trichterbon, D.Z. Knyphausen-Aufseß, L. Schweizer, «How to Improve Acquisition Performance: The Role of a Dedicated M&A Function, M&A Learning Process, and M&A Capability», Strategic Management Journal, 37(4), 2016, pp. 763-73.