E&M

2004/6

Gianni Canova Severino Salvemini

Sei in esubero? Ti stimo molto!

Con Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio il cinema italiano affronta per la prima volta il mondo dell’azienda contemporanea senza intenti grotteschi o deformazioni parodistiche.

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Volevo solo dormirle addosso

Regia: Eugenio Cappuccio

Interpreti: Giorgio Pasotti, Cristiana Capotondi

Italia, 2004

“Progetti, mai. Solo desideri e obiettivi.” Inquadrato di spalle, con il volto nascosto al nostro sguardo, il protagonista di Volevo solo dormirle addosso si presenta allo spettatore con queste parole, pronunciate fuoricampo dalla sua voice over. In realtà, come spesso accade nei film, Marco Pressi (questo il nome del personaggio) mente. Non dice la verità. O la dice solo in parte. Non necessariamente per malafede. Forse, perché egli stesso non ha le idee del tutto chiare sui suoi programmi esistenziali e sul modo più giusto di affrontare la vita. Dipendente di una multinazionale che opera nel settore della new economy (produce e vende microchip), Marco Pressi si occupa della formazione dei colleghi. “Che cosa motiva le persone?” chiede in aula ai venditori bisognosi di riqualificarsi. Le ferie? le sfide? la competitività? i soldi? ipotizza qualcuno con scarsa convinzione. Ma lui tacita tutti in tono perentorio. Complimenti, scrive sulla lavagna. Nulla è più motivante di un bel complimento ricevuto al momento giusto. Perché un complimento rende contento chi lo riceve quanto chi lo fa. “Ti stimo molto!”: secondo Pressi, basta questa breve frase magica (che nel film diventa quasi un tormentone) a sciogliere diffidenze, appianare conflitti, superare difficoltà. Convinto e sicuro di sé, simpatico e cordiale, Pressi non sa cosa lo aspetta. A seguito di una fusione con conseguente ristrutturazione, l’azienda decide un drastico taglio del personale. E l’amministratore delegato – un francese in trasferta in Italia – decide che sia proprio lui, Marco Pressi, il dirigente più idoneo ad assumere il ruolo di tagliatore di teste. In poco più di due mesi – da ottobre a Natale – Pressi deve individuare venticinque “esuberi” e tagliarli. Non deve licenziarli: deve indurli a dare le dimissioni. Deve offrire qualche modesto incentivo affinché siano gli stessi dipendenti a decidere di andarsene. Senza strascichi legali. E con la piena soddisfazione sia degli interessati, sia dell’azienda, sia dei sindacati. Da simpatico formatore, il protagonista del film – interpretato da un efficace Giorgio Pasotti – da un giorno all’altro si vede trasformato in killer aziendale. Senza neanche pensarci troppo, Pressi accetta l’incarico. Non perché qualcuno l’abbia motivato con i complimenti (nessuno gli ha detto “Ti stimo molto”), ma proprio per i motivi che da formatore riteneva poco motivanti (il gusto della sfida, i soldi, la carriera). Inizia così un meccanismo di individuazione delle “vittime” che – scandito dallo spietato countdown riprodotto sullo schermo del suo computer – occupa e assorbe interamente le energie del personaggio nell’intento di eliminare, appunto, venticinque suoi colleghi. Non uno di più, non uno di meno. Questo, almeno, l’obiettivo che gli è stato indicato dall’amministratore delegato. E lui lo persegue con una tenacia e una caparbietà che sfiorano l’ossessione.

Severino Salvemini e Gianni Canova discutono di come il film rappresenti un classico caso di ristrutturazione aziendale e di riduzione del personale.

G.C. Rispetto a un titolo che affronta tematiche analoghe come Mi piace lavorare di Francesca Comencini, Volevo solo dormirle addosso rovescia completamente il punto di vista con cui viene rappresentata la complessa realtà di un’azienda contemporanea: là, nel film sul mobbing interpretato da Nicoletta Braschi, il punto di vista era quello di una vittima di un processo di ristrutturazione aziendale, qui invece il regista Eugenio Cappuccio sceglie il punto di vista di chi deve selezionare ed eliminare, anche a costo di mettere in crisi rapporti di amicizia o di colleganza consolidati dal tempo e dalla frequentazione quotidiana.

S.S. Credo che buona parte del “realismo” del film derivi dal fatto che si ispira a una storia vera, narrata in un libro dal manager che ne fu protagonista: Massimo Lolli, ai tempi direttore del personale della Rank Xerox. In quanto coautore della sceneggiatura, Lolli sta bene attento a evitare gli stereotipi e i luoghi comuni sulla figura del manager. Per esempio, non c’è traccia, nel film, dei ritratti edulcorati di certe riviste patinate. Il protagonista vive anzi in una casa lurida, piena di piatti sporchi, non ostenta status symbol e conferisce alla sua “missione” una dimensione quasi monacale. Non frequenta amici, riduce perfino il rapporto con la fidanzata al soddisfacimento di istinti biologici primari (da cui il titolo del film...), di notte si porta il computer anche sul wc e impegna tutte le sue energie – in maniera esclusiva ed esaustiva – al raggiungimento dell’obiettivo.

G.C. Davanti a lui, inquadrati con algido distacco dalla macchina da presa, sfilano i colleghi destinati all’eliminazione. La sceneggiatura concede poche battute a ciascuno, ma è quanto basta per ricavarne una mappa significativa di tipi e caratteri a modo loro paradigmatici. C’è il quadro anziano, ormai prossimo alla pensione, che rifiuta sistematicamente di firmare le dimissioni anticipate, c’è il trafficone che negozia una buonuscita per pagare i suoi debiti di gioco, c’è la madre di famiglia con una grave malattia che si vede invitata a farsi da parte prima del tempo e c’è l’amico del cuore – pigro e opportunista – che sceglie di andarsene per conto suo prima di scoprire di essere considerato a sua volta in esubero. I colleghi sono per il protagonista come le mele verdi con cui arreda il suo ufficio nero, e che mordicchia quando è nervoso: una vale l’altra, tutte sono sostituibili ed equivalenti.

S.S. E tuttavia non vedo un eccesso di cinismo nel suo comportamento. Anzi: nella sua azione applica tutte le modalità classiche di governo delle risorse umane (outplacement, outsourcing, part-time, incentivi). E lo fa utilizzando tutto il repertorio: prova una modalità, se si accorge che non funziona torna sull’altra, adatta le strategie ai singoli colleghi, senza eccessive manipolazioni. Mi sembra anzi – tutto sommato – franco e leale nel perseguimento del suo obiettivo. Talora sembra anche tormentato dai sensi di colpa. È significativa la scena in cui fa le prove di voce prima di parlare con i colleghi: come se stesse cercando il tono giusto, come se volesse provare a metterci un po’ di cuore…

G.C. A me ha colpito molto la specifica italianità della storia. La si vede bene nel finale, quando Pressi – a pochi giorni dalla scadenza concordata – sembra non essere in grado di raggiungere l’obiettivo. Una collega giapponese lo incontra nei corridoi e stigmatizza il suo probabile fallimento con un giudizio che fa leva proprio sull’italianità: “Voi – dice la donna – non avete il senso della sfida, della competizione, del successo. Voi volete solo mettervi d’accordo”. Cosa ne pensi? Ritieni sia un giudizio applicabile alla realtà delle aziende italiane?

S.S. Indubbiamente siamo figli di una cultura molto lontana dall’etica protestante del lavoro. Da noi la negoziazione e la concertazione contano molto di più che in altri contesti culturali. E tuttavia mi sembra che il film smentisca almeno in parte questo giudizio. Certo: per quasi tutto il film, da abile negoziatore, Pressi agisce proprio così. Preferisce la concertazione all’eliminazione diretta. Cerca l’accordo ad ogni costo. Ma alla fine smentisce la collega orientale. Pur di vincere, pur di offrire alla direzione la venticinquesima vittima, sacrifica se stesso. Sarà sua la venticinquesima lettera di dimissioni consegnata all’amministratore delegato: un modo per vincere perdendo, o per perdere vincendo. In questo ossimoro, il film di Cappuccio riassume il tentativo di trovare una sintesi ardua fra la vocazione italiana alla negoziazione e quel gusto della sfida senza possibili mediazioni che anche nelle aziende italiane – per certi versi – è un portato della globalizzazione.