E&M

2004/5

Vincenzo Perrone

Oltre l’orizzonte dei distretti

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Quando queste note saranno lette, le prime, timide avvisaglie di una possibile ripresa economica si saranno trasformate in una realtà piena ed evidente. Speriamo. Il vento forte che riprenderà a gonfiare le vele delle nostre imprese, soprattutto di quelle capaci di navigare in mari lontani dal nostro, rincuorerà gli animi dei marinai e arricchirà nuovamente gli armatori. Ma farà anche, forse, dimenticare i difetti dello scafo e le scelte sbagliate dei timonieri che lo sbatacchiare lento delle onde nella bonaccia plumbea della crisi ha reso evidenti in modo impietoso.

L’oblio dei tempi felici è una tentazione forte, alla quale bisogna però saper resistere se si vuole essere messi in condizione di svilupparsi, di apprendere anche dai propri errori e di migliorare risolvendo vecchi problemi. E qualche problema di non poco conto la crisi lo ha portato anche ai nostri distretti industriali. Forse una delle poche peculiarità economico-aziendali che il mondo ci invidia, studia e vorrebbe copiare, i distretti hanno risentito fortemente dell’ultima congiuntura negativa fatta di stagnazione nei consumi, svalutazione del dollaro rispetto all’euro e concorrenza spietata di paesi a basso costo della manodopera, soprattutto in alcune delle specializzazioni produttive tipiche di certe aree territoriali italiane. E sono stati costretti a interrogarsi sul proprio presente e sul proprio futuro.

Perché i distretti stanno cambiando. E richiedono un’attenzione e un’apertura nuove per seguirne le trasformazioni, capaci anche di fare giustizia di certe semplificazioni equivoche. Una per tutte: nel dibattito sui distretti si è messa troppa economia nell’interpretare le dinamiche di distretto e troppa sociologia nello spiegare l’evoluzione delle imprese che ne fanno parte. In questo modo, non solo si è fatta confusione, ma si è indirizzata la ricerca di soluzioni a problemi specifici nella direzione sbagliata. Il distretto territoriale come realtà socio-economica e le imprese con una specializzazione produttiva determinata che vi insistono sono infatti fenomeni interdipendenti ma distinti. L’uno costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’altro. Se si costituisse, anche concettualmente, un’identità indistinta tra i due saremmo costretti a pensare che la fine di una determinata specializzazione produttiva, indotta come spesso accade da innovazioni tecnologiche di tipo radicale, determini automaticamente la fine del territorio che l’aveva incubata e sviluppata.

Questo è accaduto in passato, con città e interi territori ridotti a decadenti musei di archeologia industriale nei quali abitano ancora solo i fantasmi dei produttori e delle produzioni passate. Ma non è un destino inevitabile: le energie sociali, demografiche, culturali, politiche, civili ed economiche che compongono un insieme complesso come un territorio, se adeguatamente riprodotte, possono rimanere disponibili per la sua rivitalizzazione. Nuovi soggetti e forze produttive si affermano al posto di quelli precedenti e sfruttano nuovamente le reti di relazione, i rapporti fiduciari, i giacimenti di competenze ed esperienze, la sensibilità di istituzioni avvezze a queste problematiche, la facilità di dialogo e comunicazione tra nodi diversi della stessa rete, mettendole al servizio di nuove specializzazioni tecnico-produttive e di nuovi mercati. Qualche segnale di trasformazioni di questo genere, magari in direzione del turismo e dell’agricoltura (in particolare l’enologia di eccellente livello qualitativo) sono già visibili in certi distretti del nostro paese come, per esempio, quello marchigiano.

Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a un cambiamento di questo genere, interpretandolo come un ritorno verso specializzazioni ancora più povere ed elementari delle precedenti. Un’involuzione rinunciataria che andrebbe combattuta. Siamo meno pessimisti e più realisti: quello che conta è il valore aggiunto che si riesce a realizzare sfruttando unicità distintive del nostro paese e delle aree in questione. Da questo punto di vista, il turismo di qualità o la valorizzazione dei nostri vini e dei nostri oli possono comunque assicurare prosperità a famiglie e comunità, anche se forse non modificano da soli il destino del paese. Cosa, quest’ultima, che è comunque sbagliato aspettarsi soltanto dalla vitalità dei distretti. E non bisogna poi dimenticare che l’industriarsi per rimanere (il contrario dell’emigrare per sopravvivere) è spesso frutto di una precisa scelta di vita alla quale, giustamente, dopo millenni nei quali abbiamo goduto delle benedizioni della nostra terra, non vogliamo rinunciare. Il clima, il paesaggio, la qualità dei rapporti umani e del cibo, la musica della propria lingua e il conforto delle proprie tradizioni non sono solo il pretesto con il quale alcuni scelgono, spesso purtroppo non solo per sé, di chiudersi al mondo e al futuro, nella difesa miope ed egoistica di un particulare di dubbia definizione. Sono cose buone di cui si può e si deve godere anche se si sa che il mondo non si ferma sulla porta di casa, che il proprio dialetto non soppianterà l’inglese come lingua degli scambi e della scienza e che grandi imprese globali e istituzioni nazionali e sopranazionali forti possono servire lo sviluppo economico e sociale molte volte meglio di realtà più piccole e locali. Per interpretare bene i distretti occorre rendere un po’ meno triste la scienza dell’economia e farla dialogare con la ricerca della felicità nella quale siamo tutti, almeno un poco, impegnati. Riflettere maggiormente sul legame tra qualità della vita alla quale i singoli aspirano e scelte economiche conseguenti ci consentirebbe di meglio approfondire il legame tra imprese e territori.

Il distretto come territorio è dunque una piattaforma di risorse e una comunità di persone sulle quali possono insistere specializzazioni economiche anche diverse. Le esternalità positive che la storia, l’arte, la configurazione urbana e territoriale, i tratti culturali delle popolazioni, le esperienze cumulate da generazioni in decine d’anni e quelle portate ex novo da foresti, possono essere rese disponibili per progetti imprenditoriali diversi da quelli che hanno visto protagonista nel tempo una certa area geografica. Non si tratta di passaggi facili, anche perché richiedono la presa d’atto e di responsabilità della necessità per la comunità locale di farsi carico della riproduzione e dello sviluppo della dotazione di risorse. Il futuro del distretto come territorio e società sta allora nelle mani delle istituzioni e dei cittadini che lo compongono. A loro compete difendere la vivibilità degli spazi ambientali e la loro qualità. A loro tocca investire, in primo luogo in educazione e ricerca, per mantenere elevato il valore del capitale umano disponibile localmente. Loro deve essere la preoccupazione di attrarre risorse nuove e giovani, creando un ambiente stimolante non solo sul piano economico, ma su quello culturale e della qualità della vita in generale. Attraverso di loro si devono produrre leggi utili ed eque, infrastrutture adeguate ai bisogni dei processi produttivi orientati ai mercati globali del nuovo millennio, incentivi all’innovazione e alla crescita, spazi e incoraggiamenti per le iniziative imprenditoriali potenzialmente capaci di portare il distretto nel futuro. Nella trama della società civile devono essere mantenuti vivi quei valori etici, di impegno e di solidarietà che sono causa invisibile di molte delle esternalità positive delle quali le attività economiche possono poi giovarsi.

Questa distinzione che si sta operando tra ecologia di distretto ed economia di distretto, dove la prima rappresenta il complesso di risorse che devono essere individuate, rese disponibili e riprodotte nel tempo per sostenere la seconda, consente di attribuire responsabilità specifiche ad attori determinati: istituzioni locali, come Regioni, Province e Comuni, partiti politici e associazioni espressione della cosiddetta società civile, sindacati e scuole di ogni ordine e grado, rappresentanti e servizi dello Stato. Operare per lo sviluppo della base di risorse richiede una notevole dose di creatività e ottime capacità di coordinamento tra attori spesso troppo litigiosi e gelosi delle proprie prerogative e dei propri particolari ambiti. Ma sono sforzi indispensabili se si vuole fare in modo di garantire al territorio e ai suoi abitanti quello che l’economia da sola non è in grado di mantenere: una piattaforma di risorse capace di sostenere nel tempo lo sviluppo. Si potrà giustamente obiettare che questa azione di istituzioni e cittadini variamente organizzati è possibile solo se l’economia locale genera le risorse necessarie per sostenerla. E che le stesse imprese sono palestre essenziali per lo sviluppo di una potente società civile capace di contemperare interessi diversi in modo democratico. Di conseguenza, uno stato di crisi delle imprese che operano nel distretto produrrebbe “a cascata” una minore capacità di mobilitazione di risorse e di crescita nell’area, con un’inversione della relazione di causalità che abbiamo sino a qui tratteggiato. È vero. Ed è importante anche ricordarlo, perché indica la necessità che le imprese siano indotte a “restituire” una parte delle esternalità positive di cui godono quando operano all’interno del distretto trasferendo, in primo luogo attraverso la leva fiscale, le risorse necessarie a tenere vivo e a sviluppare il patrimonio sul quale insistono. Questa fecondazione reciproca è essenziale per la crescita.

Ma crediamo che sia comunque utile porre la questione della distinzione delle due prospettive: riteniamo infatti che il futuro di Prato o di Biella possa avere dinamiche distinte, anche se non indipendenti, da quello del tessile-abbigliamento che in quei territori ha pure una tradizione centenaria, una rete di imprese eccellenti e alcuni leader nei mercati internazionali. E lo stesso può valere per altre aree geografiche che vengono automaticamente identificate con una determinata specializzazione produttiva, dalla sedia alla piastrella, dai rubinetti alle scarpe. Altrimenti si corre il rischio che la società civile e le istituzioni non si preoccupino di coltivare una capacità relativamente autonoma di produzione di futuro, nel momento in cui le produzioni tradizionali entrano in una fase di declino o si spostano in aree diverse, inseguendo come una chimera i vantaggi di costo della manodopera. E, viceversa, gli imprenditori potrebbero essere tentati di attendere dal territorio, dalle istituzioni, una soluzione ai propri problemi di impresa. Mentre proprio all’impresa e all’imprenditore tocca affrontare i nodi della competizione, della generazione sostenibile di profitto e del posizionamento sui mercati internazionali. Tutti temi che richiedono propensione al rischio, buone competenze manageriali, solide e rinnovate basi tecnico-scientifiche, disponibilità finanziarie per gli investimenti, fiducia nel futuro, competenza e coraggio. Compreso il coraggio che occorre per trascendere i confini del proprio distretto che ha fatto da culla e incubatrice all’impresa, se questo serve per imporsi su mercati competitivi e continuare a fare profitto.

Anche per questa via si opera quindi un disaccoppiamento tra problematiche di impresa e problematiche di distretto, dove le prime devono continuamente essere ricondotte ai fondamenti basilari dell’agire economico-aziendale. Sui mercati si compete con l’efficienza, la qualità, la capacità di investire per innovare e crescere, marchi e reti distributive adeguate a portare i nostri prodotti dove qualcuno è disposto ad acquistarli. Questi imperativi non ammettono scorciatoie né nostalgie consolatorie legate ai luoghi e alle tradizioni. Anche pensare di affidare la distintività della propria value proposition solo al richiamo del luogo d’origine, sia esso l’Italia o, cosa ancor più problematica, il proprio piccolo territorio, rischia di essere un modo di coltivare pericolose illusioni. Un marchio è infatti solo la sintesi e il suggello di fattori distintivi reali. Prima sono venuti prodotti italiani di stile e qualità e poi si è affermato sul piano simbolico il made in Italy. Si può pensare che, quando pienamente affermato, un marchio basti da solo a garantire l’acquisto da parte del cliente sensibile: ma costui continua a utilizzarlo sempre e solo come un’approssimazione della sostanza che si aspetta di trovare nel prodotto o servizio acquistato. Se dovesse mancare questa corrispondenza, il valore del marchio decade, come è accaduto per aziende che hanno teso l’elastico tra reale e simbolico fino al punto di spezzarlo a danno dei propri clienti. Occorre perciò sicuramente destinare ogni energia e sforzo affinché questo capitale di immagine e reputazione non venga depauperato o aggredito in maniera scorretta da concorrenti senza scrupoli. Ma non è certo solo da lì che verrà la risposta ai problemi delle singole imprese. Soprattutto se si pensa a quanto costi e quali investimenti richieda il rendersi visibili attraverso un logo globale: basta dare un’occhiata ai bilanci di Nike, o Coca-Cola, o delle nostre aziende leader nel fashion, per rendersene conto. Per le imprese dei nostri distretti ne deriva un monito a non disperdere risorse scarse in tentativi vani che avrebbero l’efficacia comunicativa di un sussurro in una discoteca. E a concentrarsi su altro.

In primo luogo su un’analisi attenta di come i distretti, dal punto di vista aziendale e dell’organizzazione economica delle attività, stanno cambiano e su quali siano le questioni prioritarie da affrontare. La forza di un distretto è per certi versi paragonabile a quella di un banco di piccoli pesci. Il coordinamento, l’interdipendenza, la solidarietà reciproca e la trasmissione rapida di segnali consentono di reagire prontamente e collettivamente a variazioni nell’ambiente immediatamente circostante. La vicinanza di tante piccole realtà ne crea una di ordine superiore e di dimensioni notevoli e tali da incutere rispetto anche in concorrenti più grossi e temibili. Il banco dà protezione e consente a ciascun membro di preoccuparsi solo di reagire prontamente a quello che fanno i vicini. Crediamo che questi effetti protettivi e moltiplicativi offerti dalle dinamiche cooperative e di aggiustamento reciproco interne al gruppo stiano perdendo di efficacia nel contesto attuale. E che di conseguenza il distretto si stia sgranando: con alcune imprese che ne prendono la testa, sviluppandosi per dimensione e capacità competitiva e organizzando intorno a sé una rete di rapporti più stretta e gestita gerarchicamente, e altre che vedono rapidamente ridursi i vantaggi derivanti dallo stare nella scia dei vicini.

La spinta all’affermazione di imprese guida che crescono dimensionalmente e strategicamente, integrando, normalmente verso valle, i propri processi economici, ha diverse motivazioni. La più semplice deriva dall’avere realizzato che la specializzazione in fasi produttive a basso margine e alta incidenza dei costi di manodopera comporta l’accettazione della propria fine. E spinge verso richieste dissennate al potere politico e alla società civile, come quella di ritornare a forme di utilizzo e remunerazione della forza lavoro non propriamente compatibili con quelle di un paese moderno e civile, proprio per tenere testa alla competizione. Queste imprese muovono anche dalla scoperta dei pericoli che derivano dal rimanere all’interno del gruppo. I legami stretti e la distanza dai mercati finali possono indurre infatti una forma di cecità strategica e di deresponsabilizzazione che si rischia di pagare caro soprattutto nei momenti di svolta, nei quali si affermano nuovi bisogni e si rendono disponibili nuove tecnologie. La capacità di rispondere a shock di sistema come questi è generalmente più bassa in realtà collettive (più abili, invece, a gestire variazioni incrementali) rispetto a organizzazioni integrate e di più vaste dimensioni unitarie. Sono proprio la maggiore disponibilità di risorse e la possibilità di decidere in fretta e di realizzare in modo integrato, dal punto di vista organizzativo, variazioni di rotta anche radicali, a mettere queste imprese, di almeno media dimensione, in una posizione più favorevole di fronte al cambiamento.

E a consentire loro di raggiungere le posizioni in cui maggiore è oggi la generazione di valore: quelle occupate da aziende dinamiche capaci di competere attraverso l’innovazione e lo sviluppo di nuova conoscenza e quelle, più complesse sul piano organizzativo e delle dimensioni minime necessarie, di chi è riuscito a imporre e distribuire un prodotto e un marchio riconosciuti e preferiti anche al di fuori dei nostri confini. Produrre idee e servire al meglio direttamente il consumatore finale sono i modi con i quali è possibile sottrarsi alla competizione basata esclusivamente sui costi e sull’efficienza produttiva. Significa collocarsi su anelli più strategici e vantaggiosi della catena del valore riducendo di conseguenza la propria dipendenza da altri operatori, e imparare ad anticipare l’ambiente guardando fuori e lontano, molto lontano dalle proprie officine, là dove i cambiamenti che investono i distretti hanno origine.

Per fare tutto questo le imprese che vogliono costruire il proprio futuro devono crescere e trovare le risorse necessarie per farlo. In questa prospettiva, iniziative come i bond di distretto, strumenti di accesso collettivo a condizioni di credito favorevole, possono essere utili. A patto che si sposino con progetti concreti e realistici che vadano nelle due direzioni indicate: quella della ricerca e dell’innovazione e quella dell’integrazione a valle verso i mercati finali. In ogni caso le risorse finanziarie aggiuntive devono essere utilizzate per aumentare il valore aggiunto generato e controllato dalle imprese. Finanziarie di distretto, fondi chiusi sviluppati da gruppi di imprenditori possono essere anche strumentali all’internazionalizzazione commerciale e produttiva (prima commerciale che produttiva, dal momento che il driver non deve essere solo la ricerca del costo minimo di manodopera) di gruppi di imprese che singolarmente non avrebbero la possibilità di assumersi l’onere e il rischio di certe politiche espansive.

L’innovazione, a sua volta, per ripagare gli investimenti che richiede, necessita di essere protetta. Non basta registrare un marchio o brevettare qualcosa di nuovo, occorre avere la forza e la disponibilità economica necessarie per fare rispettare i propri diritti in qualsiasi parte del mondo. Se le imprese che appartengono a un distretto vogliono giocare al meglio la partita dell’innovazione e della valorizzazione della conoscenza, devono sviluppare iniziative in grado di garantire la tutela della proprietà intellettuale. Dal momento che i costi di protezione e difesa dei diritti sono normalmente troppo elevati per la singola impresa, si potrebbero immaginare forme di assicurazione collettiva in grado di assistere concretamente al momento opportuno il singolo imprenditore impegnato a fare valere i propri diritti contro imitatori sleali e falsari. Anche in questo modo l’unione potrebbe creare una forza che oggi manca. Così come – ma qui c’è forse un eccesso di fantasia e ottimismo – anziché puntare all’affermazione collettiva di marchi di territorio, più imprese appartenenti alla medesima filiera potrebbero realizzare forme di quasi-integrazione per andare alla conquista, con i giusti prodotti e l’ausilio di un marchio commerciale sviluppato ad hoc, dei mercati finali. Non sarebbe la prima volta che forme semicooperative di alleanza tra imprese si trovano dietro marchi e prodotti che il consumatore finale percepisce come realizzati da una singola impresa unitaria. Si tratta sicuramente di una strada difficile per gli elevati costi di coordinamento che è necessario sostenere e per la resistenza culturale che l’imprenditore medio, campione di individualismo, sicuramente opporrebbe, ma potrebbe essere oggi una strada conveniente da tentare almeno come tappa intermedia verso assetti più integrati.

Qualunque innovazione nel campo della ricerca e della distribuzione commerciale richiede, però, un adeguamento del capitale umano disponibile all’interno delle imprese. I nodi, a questo proposito, sono noti: gestire al meglio la successione imprenditoriale, allargare la squadra a manager competenti rendendo attrattive per loro le opportunità di lavoro all’interno dei distretti, cambiare le strutture organizzative, trattenere le risorse più capaci e qualificate. In particolare quelle giovani. La natura prevalentemente piccolo-imprenditoriale e familiare del capitalismo di distretto può influenzare anche le modalità di gestione del personale. In particolare, la prudenza dell’imprenditore e la paura di caricarsi di costi fissi arrivano a sconsigliare assunzioni che sarebbero invece assolutamente necessarie per sfruttare al meglio i momenti di crescita e, soprattutto, per cambiare il proprio posizionamento. Si ha giustamente paura di ciò che potrebbe accadere nel momento in cui il mercato entrasse in crisi o non si risollevasse con la velocità attesa. In questo modo si finisce con il rimanere con il nucleo storico di dipendenti, lasciando andare il bravo ingegnere o la ancor più brava direttrice commerciale. Forse, agenzie del lavoro distrettuali, anch’esse sostenute da risorse collettive, potrebbero sviluppare ammortizzatori capaci di trattenere in loco le risorse migliori facendone diminuire il rischio di utilizzo da parte delle imprese.

Se le persone sono davvero la risorsa più importante di un distretto, occorre considerarle come un patrimonio da tutelare e sviluppare collettivamente.

L’elenco dei consigli potrebbe continuare. Ma possiamo immaginare il disagio crescente con il quale chi è quotidianamente impegnato a fronteggiare i marosi della competizione internazionale, dentro e fuori dai distretti, ascolta le idee più o meno sensate di colui il quale, ben al riparo in porto, può solo osservare la fatica e il rischioso lavoro dei tanti capitani d’azienda e dei loro equipaggi. Questi sforzi meritano tutto il nostro rispetto e il massimo del nostro sostegno. E anche quel pizzico di fortuna che aiuta gli audaci e non dovrebbe dimenticarsi degli onesti e dei capaci. Buon vento!