E&M

2004/5

Era una speranza del calcio trentino, ma suo padre fu irremovibile: il pensionato dell’Università Bocconi di Milano garantiva un futuro migliore. Ma Claudio Dematté è rimasto sportivo nell’anima perché amava il fascino delle sfide. Per esempio, da sempre accarezzava l’idea di un Master per dirigenti sportivi. Ne parlò, nel lontano 1978, con Gianni Rivera, che fu categorico: non vedeva spazi per una gestione aziendale del calcio. Claudio non si rassegnò e mi mise sulle piste di Italo Allodi, all’epoca direttore del Centro Tecnico di Coverciano. Anche Allodi, in prima battuta, mi sembrò della stessa idea di Rivera. Per tre ore cercò di smontarmi il progetto con una critica dopo l’altra. Solo al bar, al momento del caffè, mi disse: “Lo faremo, questo corso. Hai risposto a tutte le obiezioni possibili”.

In questo contesto, a Claudio fu affidata una primizia assoluta: una giornata di formazione per i grandi presidenti del calcio italiano. Il suo esordio è rimasto storico: “Ho analizzato i vostri bilanci. Nel caso migliore, presentano utili non superiori all’un per cento. I BOT rendono il 13. Che cosa aspettate a vendere?”. E al silenzio dell’aula rispose: “Ve lo dico io il perché. Perché il calcio è il vostro casino e il vostro casinò”.

Non si fermò al calcio. Solo Claudio poteva pensare a trecento biciclette come regalo natalizio della SDA Bocconi. All’epoca ero presidente del Centro Studi del Ciclismo e, come ospite d’onore, avevo pensato a un campione famoso. Invece di Francesco Moser mi vidi arrivare un ragazzino sconosciuto. Il presidente della Federazione Ciclistica Italiana, Agostino Omini, lo presentò così: “Ha vinto solo un giro dell’Appennino, ma ne sentirete parlare a lungo”. Era Gianni Bugno. Claudio rispose: “Anche i miei ragazzi sono come lui. Faranno strada insieme”. Fu profeta.

Durante i campionati mondiali dell’82 lo ricordiamo, scatenato in prima fila, davanti al televisore installato in una delle due aule della SDA di allora. Lo sentiva nel sangue che era la volta buona. Meno fortuna ebbe con la Fiorentina, di cui era tifoso, ma credo che confondesse la squadra con la città.

Devo a lui il mio primo libro sullo sport. Lo riteneva, da sempre, un tema emergente. Dedicò molto tempo a raffinare la matrice centrale del testo. Una delle due entrate – esistenza o assenza di sponsor – non lo convinceva. A suo parere, la sponsorizzazione era la capacità di generare flussi finanziari intersettoriali. Cercava sempre nuove intuizioni. Durante un corso ai giornalisti della Gazzetta dello Sport, quando si trattò di capire quanto valesse l’Inter, in vendita in quei giorni, si vide smontare da un’aula capeggiata da Antonello Capone tutti i suoi criteri di valutazione. Concluderà: “Il valore dipende dall’abilità di aprire una interessante trattativa. A definirlo saranno i giocatori che si siedono intorno al tavolo”.

Col tempo, anche l’Università Bocconi e la SDA hanno dato spazio allo sport nelle loro iniziative didattiche. Ma quando i progetti prendevano definitiva consistenza, Claudio sembrava dimenticarli, quasi non lo avessero mai interessato. Era la pratica sportiva a tenerlo giovane: veniva in università in bicicletta. Ma era finito il tempo di “gettare il cappello al di là del tavolo”. Via via imbiancava, ma gli occhi si illuminavano quando gli chiedevi di Margherita, la bambina della sua maturità. Con il passare degli anni, fisicamente assomigliava sempre più a Albert Schweitzer, il Nobel della pace che conobbi nel suo lebbrosario a Lambarené, nel Gabon. Ambedue eterni ragazzi, avevano qualcosa in comune. Nella lingua locale, Lambarené significa: “Nonostante tutto, proviamo”.