E&M
2003/5
Indice
La tribuna dei lettori
Focus intervista
La responsabilità sociale delle imprese. Intervista a Roberto Maroni, Ministro del Welfare
Area Strategia
Le tecnologie di rete nei distretti industriali: un potenziale da sfruttare
Il futuro dei distretti tra scelte d’impresa e azioni di metamanagement
Imprese distrettuali e strategie di crescita: verso un maggiore controllo delle attività
Area Pubblica Amministrazione
Federalismo, controllo e governance
Le riforme di accounting nel settore pubblico: “a call for further qualitative research!”
Sistemi informativi e principi contabili per gli enti locali: linee evolutive e criticità
Fuoricampo
Articoli
La distribuzione nel sistema moda italiano: verso nuovi modelli di business
Nuova sfida nel commercio al dettaglio: sono fedeli i consumatori… alle carte fedeltà?
Uguali o diversi? Per un utilizzo consapevole del diversity management
Creazione di valore e valutazione delle performance: l’applicazione dell’EVA™ alle banche
Fotogrammi
Genesi e formazione di una classe dirigente
La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana traccia un grande affresco degli ultimi quarant’anni di storia italiana, mettendo a fuoco in modo stimolante anche alcuni passaggi e cambiamenti che riguardano l’economia, l’organizzazione sociale e l’identità di quella generazione che oggi detiene le leve del potere nel nostro paese.
La meglio gioventù
Regia Marco Tullio Giordana
interpreti Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Sonia Bergamasco
Italia, 2003
Sei ore di fiction ad altissimo livello. Coinvolgente, commovente, emozionante. Capace di raccontare il privato dei personaggi, ma anche di far intravedere dietro le loro vicende familiari e sentimentali il respiro alto della Storia e del mondo che cambia. La meglio gioventù funziona così: è televisione realizzata come se fosse cinema. O cinema pensato per essere trasmesso in tv. Come in una sorta di Heimat all’italiana, racconta quarant’anni della nostra storia inquadrandoli dal punto di vista di due personaggi divenuti grandi negli anni sessanta. Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni) sono due fratelli cresciuti in una famiglia della piccola borghesia romana. Da studenti, prima accorrono come volontari a Firenze per salvare la città e il suo patrimonio artistico dall’alluvione dell’Arno del 1966, poi sentono e assorbono l’aria di cambiamento che spira nella società attorno al ’68. Da adulti fanno scelte diverse: Nicola diventa uno psichiatra antiautoritario, Matteo invece entra in polizia e lavora all’antimafia e all’antiterrorismo. Intanto gli anni passano e il paese cambia, molti dei sogni giovanili devono essere rinchiusi in un cassetto; gli amori, la famiglia e il lavoro non sempre danno le soddisfazioni sperate, ma i due protagonisti cercano di non perdere mai il rispetto di se stessi e la coerenza delle loro scelte. Forse, suggerisce il regista Marco Tullio Giordana (I cento passi), sono la parte migliore di una generazione troppo spesso liquidata sbrigativamente dai media con le facili etichette della deriva terroristica, del cinismo o dell’arrivismo ad ogni costo. Presentato a maggio al festival di Cannes, il film ha ricevuto uno dei premi più prestigiosi ed è stato accolto da una standing ovation di dieci minuti. La Rai, che fino a quel momento l’aveva incomprensibilmente snobbato (pur avendolo prodotto), ha annunciato che lo manderà in onda in più puntate a fine anno. Intanto, tra giugno e luglio, il film è uscito anche nelle sale, diviso in due “atti” di tre ore l’uno. E ha raccolto un successo inatteso e insperato. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.
G.C. Sul piano sociologico, ciò che più mi colpisce è la lontananza dei protagonisti del film di Giordana dal modello antropologico dell’italiano medio incarnato fino a non molti anni fa dai personaggi di Alberto Sordi o Ugo Tognazzi. Un residuo di quelle figure sopravvive ancora – all’inizio del film – nel personaggio del padre dei due protagonisti: è un brav’uomo, ha doti di efficienza e perfino di microimprenditorialità (ipoteca la casa e rischia, contro la volontà della moglie, pur di avviare un’attività in proprio), ma si muove ancora tutto dentro la logica dell’arte di arrangiarsi, quella che crede nelle raccomandazioni, nei piccoli favori elargiti dai potenti, nel clientelismo, nella furbizia. I suoi figli crescono invece in una logica diversa.
S.S. Io credo che si possano considerare i due fratelli protagonisti del film come due esponenti esemplari della generazione che è in questo momento al potere nel nostro paese. Sono la classe dirigente: che è abbastanza diversa da quelle passate, e che forse non è ancora stata studiata con la necessaria attenzione proprio nella sua identità generazionale, nei suoi percorsi di formazione e di affermazione personale e professionale.
G.C. Da questo punto di vista, La meglio gioventù offre spunti importanti e preziosi. Ci ricorda, per esempio, che quella generazione – gli attuali cinquantenni – si è formata allontanandosi dai modelli familiari e paterni, e che ha vissuto la sua Bildung in un contesto internazionale impensabile per le generazioni precedenti. Trovo molto significativo, per esempio, che la storia narrata dal film inizi con una vacanza all’estero: ancor prima dell’università, i due fratelli vanno via di casa, viaggiano nel Nord Europa, uno dei due si ferma a lungo in Norvegia, dove sperimenta un sistema di relazioni (lavorative ma anche amicali e perfino sessuali) molto più libero e flessibile di quello a cui era abituato in Italia. Se è vero che nella sua figura si esprime l’identikit di una futura classe dirigente, allora va sottolineato come questa si sia formata allontanandosi dalle proprie radici, non attorcigliandosi in esse.
S.S. Certo. Quali che siano le scelte successive dei singoli membri, questa è una generazione che ha sperimentato, ha tentato strade nuove, ha introdotto elementi di rottura anche radicale rispetto ai solchi molto conservativi e di routine ricevuti in eredità dalle generazioni precedenti. Forse, quando ci si occupa di formazione bisognerebbe tenere nel dovuto conto la positività che quasi sempre scaturisce da un processo di questo tipo e da una disponibilità all’innovazione che buona parte dei giovani di oggi, per esempio, non sempre mostra di possedere.
G.C. È interessante anche il fatto che il più sensibile dei fratelli, Matteo, decida di entrare nella polizia. Non per una scelta vocazionale, ma per un bisogno di regole. Come se, dopo aver sperimentato la rottura e la trasgressione, sentisse la necessità di essere un po’ “normato”…
S.S. In questo senso il film esprime una dialettica molto interessante. O, per meglio dire, un classico processo di adattamento. I giovani degli anni sessanta sono assetati di nuova conoscenza. Si riconoscono come generazione in un momento di grande coesione collettiva come il volontariato a Firenze subito dopo l’alluvione del ’66. In seguito le loro idee si misurano con una società in cambiamento e a mano a mano che si addentrano nelle problematiche operative sono costretti a fare i conti con la realtà, che non sempre si presenta con i connotati tipici della comunità civile. È una gioventù che percepisce con chiarezza la difficoltà di far coesistere certi passaggi storici delicati con il rispetto delle regole e della trasparenza, ma che non si pone mai su un “aventino” ideologico e astratto, cercando piuttosto di trovare il giusto equilibrio tra coerenza etica e pragmatismo attuativo.
G.C. In quest’ottica mi sembra molto emblematico il personaggio dell’amico economista, che va a lavorare per la Banca d’Italia e finisce nel mirino di terroristi che avevano condiviso con lui la giovinezza e gli anni dell’università…
S.S. … non solo. È anche il personaggio che con estremo imbarazzo si trova a dover spiegare all’amico operaio, licenziato dalla Fiat, la necessità di un processo di razionalizzazione organizzativa e produttiva. Il suo è un ragionamento teorico, di sistema, che si scontra però inevitabilmente con le ragioni soggettive del singolo individuo coinvolto in un processo difficile e spesso doloroso. È una tipica problematica aziendale: come far accettare alla logica del singolo la necessità di un processo che ha la sua razionalità tutta sul piano del sistema complessivo.
G.C. La meglio gioventù a questo proposito fa un discorso molto chiaro: racconta il passaggio di alcuni giovani da una logica ideale e intransigente a un’altra più disponibile ad accettare compromessi e a negoziare accordi con il mondo. Chi non lo accetta, o chi non ce la fa – come accade al personaggio di Matteo – finisce drammaticamente per uscire di scena prima del tempo. Facendo continuamente inciampare i personaggi nella Storia, La meglio gioventù finisce per essere un fluviale “come eravamo” che riesce a dirci qualcosa di non scontato e di non banale anche su “come siamo”.